12 Nobel della letteratura a confronto

Pochi giorni fa il Nobel per la letteratura, assegnato a Mo Yan, è stato letto in chiave di «espiazione»: la potente Cina non avrebbe gradito l’assegnazione, nel 2010, del Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo. Questo bilanciamento diplomatico (dopo due anni?) è tutto da provare: Mo Yan va giudicato per le sue opere e magari anche per il discorso di “accettazione”. Nel frattempo arriva in libreria uno splendido libretto – edito da Terre di mezzo (152 pagine per 14 euri) – «I Nobel per la letteratura si raccontano» con i discorsi di 12 Nobel della letteratura: nell’ordine di pubblicazione Pablo Neruda (premiato nel 1971) , Gabriel García Marquez (1982), Herta Müller (2009), William Faulkner (1950), Orhan Pamuk (2006), Wisława Szymborska (1996), Mario Vargas Llosa (2010), John Maxwell Coetzee (2003), Doris Lessing (2007), Ernest Hemingway (1954), John Steinbeck (1962) e José Saramago (1998).

Ognuno ha il suo stile. Non rinuncia all’ironia Wisława Szymborska: «In un discorso, pare, la prima frase è sempre la più difficile. E l’ho già alle mie spalle». Ricorda che molti considerano «parassiti» i poeti (cita Iosif Brodskij) e che in fondo i loro tormenti sono poco spettacolari. Quanto all’ispirazione «qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”». E sono quelle due paroline dubbiose – non so – a fare la differenza.
Quasi tutti raccontano, come è ovvio,
il mestiere di scrittore; a volte l’impegno politico, le proprie radici e/o il sentirsi parte del mondo. Neruda racconta di una lunga traversata dove imparò che «tutte le strade conducono allo stesso punto: a comunicare ciò che siamo». Garcia Marquez è più politico e chiede «una seconda possibilità per i popoli condannati a cent’anni di solitudine». Chiunque leggerà il discorso della Müller non potrà evitare la commozione, che si ripeterà probabilmente vedendo un fazzoletto e ripensando a una delle tante storie che lei racchiude in quel banale oggetto. Altrettanto commovente l’omaggio di Pamuk a suo padre: «essere uno scrittore significa riconoscere le ferite segrete che portiamo dentro di noi» spiegando che l’ispirazione non basta, bisogna essere cocciuti; un po’ come quel detto turco che suona «scavare il pozzo con un ago». Se il padre di Pamuk voleva essere scrittore, il nonno di Saramago era analfabeta ma infinitamente saggio: le sue interminabili storie fecero emergere nel nipote il bisogno di scrivere.

In tempi di guerra (sedicente «fredda») gli statunitensi Faulkner e Steinbeck si ritrovano nella paura che il mondo salti per aria e nell’arte «come pilastro per sostenere l’essere umano». Appassionanti elogi della scrittura anche i discorsi della coppia di africani “bianchi” che pure sembrano parlar d’altro: al centro del discorso di Coetzee c’è Robinson Crusoe mentre la Lessing saltella fra Zimbabwe, India e l’areo sul quale un passeggero strappa Tolstoj.

E’ una selezione mirata sugli ultimi 60 anni circa, discutibile per le scelte come per le assenze, ma di piacevolissima lettura. Per i discorsi in sé (salvo quello di Hemingway: breve, poco interessante e affidato all’ambasciatore) ma anche per il ricco, inevitabile confronto nel raccontarsi di autori e autrici tanto diversi.

BREVI NOTE

Questa mia recensione è uscita (parola più, parola meno) il 16 ottobre sul quotidiano «L’unione sarda». Aggiungo che le traduzioni sono di Sara Crimi e Alberto Frigo. (db)

Redazione
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