1917-2017: ricordando Franco Fortini

Alcuni testi scelti da db, Francesco Masala e Pabuda

 

«Le vetrine di Auschwitz»

Le vetrine di Auschwitz
sono giustamente mute
a chi non le investe
di una partecipazione presente.
Non solo quelle vittime
ma tutto il passato può parlare
solo a condizione che noi
gli diamo da bere
il nostro sangue,
come avviene nell’oltretomba
dei miti antichi.
E per questo è necessaria
la pressione di passioni e
desideri.
Possiamo imparare qualcosa
dallo ieri solo nell’esatta
misura in cui
desideriamo un domani.

10 poesie di Franco Fortini tratte da “Versi scelti (1939-1989)”

1

Da “Foglio di via”


E QUESTO È IL SONNO

E questo è il sonno, edera nera, nostra
Corona: presto saremo beati
In una madre inesistente, schiuse
Nel buio le labbra sfinite, sepolti.

E quel che odi poi, non sai se ascolti
Da vie di neve in fuga un canto o un vento,

O è in te e dilaga e parla la sorgente
Cupa tua, l’onda vaga tua del niente.

QUANDO

Quando dalla vergogna e dall’orgoglio
Avremo lavate queste nostre parole.

Quando ci fiorirà nella luce del sole
Quel passo che in sonno si sogna.

VICE VERIS

Mai una primavera come questa
È venuta nel mondo. Certo è un giorno
Da molto tempo a me promesso questo
Dove tutto il mio sguardo si fa eguale
Ai miei confini, riposando; e quanta
Calma giustizia nel pensiero è in fiore
Quanta limpida luce orna il colore
Delle ombre del mondo. Ora conosco
Perché mai degli inverni ove a fatica
Si levò questo esistere mio vivo
M’è rimasto quel nome, che mi scrivo
Su quest’aria d’aprile, o sola antica
E perduta oltre il pianto sempre cara
Immagine d’amore mia compagna.

FOGLIO DI VIA

Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.

Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d’acqua i rami degli alberi.

Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

LA ROSA SEPOLTA

Dove ricercheremo noi le corone di fiori
le musiche dei violini e le fiaccole delle sere

Dove saranno gli ori delle pupille
Le tenebre, le voci – quando traverso il pianto

Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli
Sui prati senza colore, accennando. E di noi

Dietro quel trotto senza suono per le valli
D’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.

Ma il più distrutto destino è libertà.
Odora eterna la rosa sepolta.

Dove splendeva la nostra fedele letizia
Altri ritroverà le corone di fiori.

da “Un’altra attesa”


L’ORA DELLE BASSE OPERE

È tutto chiaro ormai,
le parole dei libri diventate
tutte vere. Tutti gli altri lo sanno.
T’hanno detto di fare due passi avanti
in mezzo al cortile d’acqua e vento,
di lumi gialli prima dell’alba.
Vedi cani maestri con grembiali di cuoio
scaricare quarti umani per le celle
refrigerate e crusca
sotto i ganci cromati. Gli scontrini
li timbrano alla porta
dove a battenti aperti aspetta un camion.
Era giorno, i postini
sgrondavano gli incerati nelle guardiole.

UNA FREQUENZA

E a mezzo della pagina che leggi,
a mezzo della lettera che scrivi, il no per sempre
e il mai più.

Quasi calda è la fronte ancora ma irradia
soltanto il suo segnale ormai. Così
lo sterno della bestia disgregata
nel carbonio e la scoria nel cemento
viva murata morderanno sempre.

Da “La posizione”


L’APPARIZIONE


Continua a sparire e apparire un uomo innominabile. È come
nel video. Non lo senti urlare.
Ha le mani nel mucchio del tenue che cola sulle cosce, le
sclere sgusciate.
Ma non lo devi rappresentare.
Non devi forzare nessuna parola.
Tutto è da contemplare.
Tutto è da fare.

Da “Versi a un destinatario”


GLI OSPITI

I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.

Tutto è diventato gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori dalla coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.

Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

Da “Il falso vecchio”


IV.


Il verbo al presente porta tutto il mondo.
Mi chiedo dove sono i popoli scomparsi.
Il fattorino vestito di grigio in cortile mi dice
che alcuni stanno nascosti sotto il primo sottoscala.

Ho portato con me sotto il primo sottoscala
le ceneri di Alessandro, il pianto di Rachele.
Il verbo al presente mi permette di scomparire.
Il fattorino non vede più dove sono scomparso.


Franco Fortini scrisse anche una nuova versione de L’Internazionale: bellissima secondo me nel ripartire dal difficile oggi per guardare ancora avanti. La potete ascoltare in «Vent’anni e più di… Circolo Gianni Bosio», un bellissimo doppio cd (34 brani, due ore di musica) distribuito anni fa da «il manifesto»: ve lo consiglio moltissimo-issimo, assaissimo, muchissimo.

Le parole di Fortini lì sono in eccellente compagnia: Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Ivan della Mea, Ambrogio Sparagna, la Bosio Big Band, Lucilla Galeazzi, Gang, Sara Modigliani, Daniele Sepe, Piero Brega, Ascanio Celestini, Canzoniere del Lazio, Acquaragia Drom… tutti passati per il circolo Bosio come pure Pete Seeger e i nicaraguensi del gruppo di Luís Enrique Mejía Godoy, Barbara Dane, Evelina Meghnagi, Pape Siriman Kanoute, Gabin Dabiré con altre/i fra ottava rima e jazz, tarantella e rock, blues e ballate, filastrocca e canzone politica, ninna nanna e canto contadino fino all’ultima traccia del cd che ripercorre i “suoni cantati” della manifestazione sindacale del 23 marzo 2002 in difesa dell’articolo 18. E come scrive Sandro Portelli nel presentarlo sono 20 anni (e più) con «la convinzione di una nuova era / che al mondo porterà la redenzione». Con la convinzione che non abbiamo patria, che la futura umanità sarà L’Internazionale.

Ecco la nuova «L’internazionale» di Franco Fortini

«Noi siamo gli ultimi del mondo

ma questo mondo non ci avrà

noi lo distruggeremo a fondo

spezzeremo la società.

Nelle fabbriche il capitale

come macchine ci usò

nelle sue scuole la morale

di chi comanda ci insegnò.

Questo pugno che sale

questo canto che va

è l’internazionale

un’altra umanità.

Questa lotta che eguale

l’uomo a l’uomo farà

è l’Internazionale… fu vinta e vincerà.

Noi siamo gli ultimi di un tempo

che nel suo male sparirà

qui l’avvenire è già presente

chi ha compagni non morirà

al profitto e al suo volere

tutto l’uomo si tradì

ma la Comune avrà il potere

dov’era il no faremo il sì.

Questo pugno che sale

questo canto che va (di nuovo il ritornello)

E tra di noi divideremo

lavoro, amore, libertà

e insieme ci riprenderemo

la parola e la verità

Guarda il viso, tienili a memoria

chi ci uccise, chi mentì.

Compagno porta la tua storia

alla certezza che ci unì.

Questo pugno che sale

questo canto che va … (di nuovo)

Noi non vogliamo sperare niente

il nostro sogno è la realtà

da continente a continente

questa terra ci basterà

classi e secoli ci hanno straziato

fra chi sfruttava e chi servì.

Compagno esci dal passato

Verso il compagno che ne uscì».

Fu vinta e vincerà.

Potete ascoltarla, nell’interpretazione di Ivan Della Mea, anche qui:

FU ANCHE TRADUTTORE FORTINI, ECCO UN ESEMPIO

Il compagno di viaggio – Bertolt Brecht

Quando anni fa ho imparato

a portare l’auto, il mio maestro di guida mi disse

di fumare il sigaro e se

negli ingorghi del traffico o nelle curve strette

mi si spegneva, mi levava il volante di mano. Anche

raccontava storielle, durante il percorso; e quando io

troppo occupato non ridevo, mi toglieva

la guida. Mi sento malsicuro, diceva,

io, il compagno di viaggio, mi spavento se vedo

chi guida l’auto troppo occupato

a guidare.

Da allora lavorando

sto attento a non sprofondarmi troppo nel lavoro.

Bado a diverse cose intorno a me,

talvolta interrompo il mio lavoro per conversare un poco.

A correr tanto presto da non poter fumare

ho saputo disabituarmi. Penso

a chi viaggia con me.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Grazie Grazie Grazie spero di poterle leggere ai miei ragazzi quando ritorno a scuola ancche se insegno diritto ma i testi di Frtini sono molto legati al diritto e ai temi della libertà e dell’uguagliana e della giustizia.

  • Francesco Masala

    LETTERA APERTA PER GLI EBREI ITALIANI – Franco Lattes Fortini

    Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
    Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
    Gli ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.
    L’uso che questa ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, i rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.
    Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né mentano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.
    E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sé che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.
    In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a un’estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionale che il nostro secolo conosce fin troppo bene.
    Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà. Non rammento, quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. E’ solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca all’interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?
    La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
    Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.
    La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.
    E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.

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