20 dicembre 1973, quando Carrero Blanco volò

di Gianni Sartori

«Operacion Ogro», Eva Forest, il popolo basco

Parlare di Carrero Blanco (a quanto mi risulta ancora detentore del record mondiale di salto in alto con l’auto) significa parlare di “Operacion Ogro”. E quindi della scrittrice Eva Forest.

Naturalmente la conoscevo, di fama, fin dagli anni settanta quando venne arrestata e torturata dal regime franchista. La incontrai di persona solo nel 1996.

Riprendendo da un mio vecchio articolo:

«Quando torniamo alle bancherelle della “feira” del libro di Donosti mi sembra di riconoscere, dietro lo stand delle edizioni IRU, la nota scrittrice Eva Forest. Come qualche vecchio militante ricorderà, il caso di Eva Forest, moglie del drammaturgo Alfonso Sastre, divenne un vero “affaire” internazionale. Arbitrariamente arrestata dalla polizia franchista nel 1974, in un periodo di recrudescenza della repressione, Eva venne ripetutamente torturata (vedi “Diario y cartas desde la carcel”) e rimessa in libertà solo nel 1977.

Ci presentiamo e la scrittrice parla della sua attività di editrice in quel di Hondarribia. Il suo pluridecennale impegno in difesa dei Diritti Umani non le ha impedito di scrivere e pubblicare opere di narrativa, come “No son cuentos” dove l’apparente banalità del quotidiano appare attraversata da segni inquietanti e premonitori. Notevole anche la sua attività di traduttrice, anche di autori italiani. Fra l’altro ha tradotto, sia in castigliano che in euskara, diverse opere di Dario Fo (fra cui “Morte accidentale di un anarchico”) e di Pasolini.

Eva ci racconta di quando è tornata in Italia per ritirare il premio vinto dal marito (Premio Feronia a Fiano) rivedendo per l’occasione la sua vecchia amica Rossana Rossanda che ha fatto pubblicare dalle edizioni de il manifesto “Operazione Ogro”, il suo libro più famoso. È la drammatica storia dell’attentato, opera dell’ETA, contro l’ammiraglio Carrero Blanco, delfino designato del caudillo. Le ricordo che con lo stesso titolo Gillo Pontecorvo realizzò un film, ispirato dal libro ma molto critico sull’operato di ETA dopo la fine del franchismo. In proposito Eva ricorda un aspro litigio con il noto regista per aver, secondo lei, travisato il significato della secolare lotta per l’autodeterminazione del popolo basco, azzerandola sul terrorismo.

La conversazione prosegue al bar davanti al solito cappuccino e scopro che Eva Forest non è basca ma catalana. Il padre, un vecchio anarchico autodidatta, non l’aveva mai mandata a scuola e si era occupato personalmente della sua educazione, con ottimi risultati evidentemente. La matrice libertaria di Eva rispunta parlando del movimento basco, alquanto composito e talvolta forse contraddittorio (vi convivono obiettori totali e seguaci della lotta armata, oltre a femministe, ecologisti, punks…) ma di cui Eva apprezza lo spirito di autorganizzazione e una “concezione orizzontale del potere”. Alla fine ci regala alcuni suoi libri con relativa dedica e disegnino (Eva illustra abitualmente le copertine delle edizioni IRU)».

Al solito, ci fu lo scambio di indirizzi e numeri telefonici e l’impegno – da parte mia – di andarla a trovare. In realtà la incontrai soltanto – e brevissimamente – a Firenze nel 2002 alla Fortezza Vecchia per il raduno antiglobalizzazione (il primo significativo dopo il disastro di Genova 2001).

Nella stessa circostanza – ricordo – rividi anche il catalano Aureli Argemì e l’amico basco Joseba Alvarez (di Batasuna), oltre a Luciano Ardesi (Lega per i diritti e la liberazione dei popoli). La notizia della sua morte mi venne comunicata da un altro amico basco, Xabier Apaolaza.

Quanto al forzato prepensionamento di Carrero Blanco risaliva al 20 dicembre 1973.

Quel giorno l’auto dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco saltò in aria in un quartiere residenziale del barrio di Salamanca. Presidente del governo, l’almirante era considerato il “delfino” designato di Franco, simbolo fisico quindi della continuità del regime. Autori dell’attentato i membri del commando Txikia (in omaggio a Eustakio Mendizabal, militante caduto il 19 aprile 1973 a Bilbao). Con questa azione Euskadi Ta Askatasuna portava l’attacco direttamente in territorio nemico causando sconcerto e incredulità fra le alte sfere del regime franchista che fino ad allora si credevano invulnerabili.

Chi era Carrero Blanco?

Nato a Santona il 4 marzo 1903, il futuro pezzo da novanta del regime frequentò la Escuela Naval. Dopo un periodo trascorso in Francia, nel giugno 1937 si unì, in qualità di capitano, alle truppe franchiste a Donostia (San Sebastian).

Già nel 1940 veniva nominato da Franco subsegretario della Presidencia del Gobierno. In tale veste svolse un ruolo fondamentale nella costruzione del sistema franchista, in quanto responsabile del tribunale per la repressione della Massoneria e del Comunismo, della Direccion General delle Colonie africane,del Cuerpo de Funcionarios e altro ancora. Nel 1951 la subsecretarìa da lui diretta venne elevata al rango di ministero.

Risale al 1967 la nomina a vicepresidente del Gobierno (la cui presidenza spettava a Franco) in sostituzione di Agustin Munoz Grandes. Finchè, nel 1973, Carrero giunse a sostituire lo stesso Francisco Franco – che era “malato” (in realtà moribondo) – in qualità di presidente del Governo.

Considerato l’eminenza grigia del Regime (garante della sostanziale unitarietà delle diverse anime che vi albergavano) l’almirante fu anche – e soprattutto – un elemento chiave nella direzione dei servizi segreti impegnati nelle attività controrivoluzionarie.

Dopo il processo di Burgos nel 1970 tali servizi segreti acquisirono una propria struttura – denominata SECED – integrando sia ex esponenti dell’OAS, sia neofascisti italiani come Stefano Delle Chiaie). Come è noto, tali soggetti vennero utilizzati in qualità di squadre della morte contro la comunità dei rifugiati baschi in Iparralde.

In precedenza – estate del 1973 – ETA aveva tentato di sequestrare Carrero Blanco per richiedere in cambio la liberazione di tutti gli etarras prigionieri con una condanna superiore ai dieci anni. Ma il luogo prescelto per l’operazione venne anticipatamente scoperto e l’organizzazione armata indipendentista prese la sbrigativa decisione di eliminarlo. Il 15 novembre 1973, venne affittato un appartamento al numero 104 di calle Claudio Coello, a Madrid. Da qui scavarono un tunnel in cui collocare una potente carica esplosiva.

Il 20 dicembre 1973 – alle nove e mezza di mattina – l’auto di Carrero Blanco, una Dodge Dart pesante due tonnellate, venne sollevata dall’esplosione per circa 35 metri (superando ben cinque piani) andando a schiantarsi nel cortile interno della chiesa di San Francisco de Borja.

Nell’attentato perirono, oltre all’almirante, l’autista Luis Pérez e l’agente di scorta Juan Antonio Bueno. Questa era la seconda volta dalla sua nascita che ETA uccideva intenzionalmente (nel primo caso, cinque anni prima, si trattò del commissario Melitòn Manzanas, noto torturatore).

Tra gli “effetti collaterali” non prevedibili, vi fu la condanna a morte (in qualche modo una rappresaglia del regime nei confronti della resistenza antifascista) dell’anarchico catalano Salvador Puig Antich. Ma questo sarebbe ingiusto i imputarlo a ETA (anche se nel film “Salvador” viene fornita tale interpretazione) in quanto l’operazione Ogro – “Orco” riferito a Carrero, ovviamente – in realtà era in preparazione da mesi. Almeno dall’estate, da quando si prevedeva di sequestrarlo. Ricordo che l’arresto di Puig, giovane esponente del MIL, avvenne a Barcellona il 25 settembre 1973.

Come scrisse Eva Forest, l’attentato rappresentò un vero e proprio “scoppio di informazione” (e per niente metaforico) a livello mondiale. Facendo conoscere all’opinione pubblica la dura lotta condotta dal popolo basco contro il franchismo. Alla clamorosa azione ne seguirono altre: l’esecuzione di esponenti degli Alti Comandi dell’Esercito; la distruzione della Centrale telefonica di Rios Rosas; l’esecuzione del generale Capo della Divisione Brunete. Azioni con cui ETA intendeva dimostrare di poter colpire anche dove il nemico di sentiva più al sicuro.

Non essendo state accertate le loro responsabilità, i baschi accusati dell’attentato usufruirono dell’amnistia del 1977.

Uno di loro – José Miguel Beñarán Ordeñana (“Argala”) – venne assassinato il 21 dicembre 1978 da esponenti dei grupos parapoliciales che così intendevano, a cinque anni di distanza, vendicare la morte di Carrero Blanco.

IL PAESE BASCO E LA SUA RESISTENZA – NOTA DELLA “BOTTEGA”

Sono pochissime le persone, in Italia, che conoscono la vera storia di Euskal Herria e di ETA (Euskadi Ta Askatasuna). Così sapendo che Gianni Sartori anni fa scrisse una “Storia a fumetti del Paese basco” gli abbiamo chiesto di ripubblicarla in 4 puntate sulla “Bottega”: troverete i link dal 20 al 24 dicembre.

 

 

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • RIBELLARSI E’ GIUSTO di Franco Astengo
    “La tirannia deve esistere
    ma non per questo il tiranno merita scuse”
    (John Milton “The lost paradise” XII vv 95 – 96)
    20 dicembre 1975, quarantacinque anni fa, si compiva “l’Operazione Ogro”: un commando dell’ETA faceva saltare in aria l’automobile sulla quale viaggiava il primo ministro spagnolo Carrero Blanco, erede designato del dittatore Francisco Franco.
    In questo giorni c’è stato chi, nel titolo di un intervento pubblicato sul blog “La bottega dei Barbieri”, a ricordo di quel fatto ha riscoperto la categoria del tirannicidio.
    Una categoria ormai desueta questa del tirannicidio sostituita tout – court da quella di “terrorismo”, che pure rappresenta una modalità di lotta armata affatto diversa.
    Il ritorno, pur casuale, all’utilizzo – appunto – della definizione di “tirannicidio” fa sovvenire alla memoria un antico dibattito: quando la forma di governo può essere giudicata come tirannica e, di conseguenza, quali possono essere le modalità “lecite” per abbatterla?
    In pratica: può essere giustificato l’assassinio politico, quell’idea che nella storia ha mosso tanti epigoni della libertà e tanti fanatici assoluti del loro “credo”?
    Andiamo per ordine.
    La migliore definizione di tirannide,da ritenersi facilmente valida anche per l’attualità si trova nella “Repubblica” di Platone:
    “La tirannide nasce da una trasformazione della democrazia . La transizione della democrazia in tirannide è dovuta, come nel caso dell’oligarchia, proprio al bene dominante che è perseguito in quel regime. L’oligarchia va in rovina per l’avidità di denaro, e la democrazia a causa dell’eccessiva libertà. La libertà democratica – e qui Socrate sta criticando l’Atene a lui contemporanea – è una libertà senza principii e senza autocontrollo: «alla fine non si danno più pensiero né delle leggi scritte né di quelle non scritte, affinché nessuno sia loro padrone in nessun modo»
    Nella città democratica il gioco politico si svolge fra tre gruppi :
    i parassiti che cercano di arricchirsi con la politica;
    i ricchi;
    il demos, cioè la massa del popolo, composta di persone che lavorano per conto proprio, non si occupano di politica e non hanno grandi proprietà, ma che, quando si radunano, sono il gruppo più numeroso e potente.
    N. B. Tre gruppi facilmente identificabili nella modernità anche rispetto alle vicende italiane degli ultimi decenni compresa l’analisi della radunanza del popolo.
    Proseguendo con Platone:

    “Il primo gruppo ottiene l’appoggio del demos contro i ricchi, per impossessarsi delle loro sostanze; i ricchi, a loro volta, cercando di difenderle, diventano oligarchici, se già non lo erano prima. Il popolo si farà proteggere da qualche prostates, cioè da un capo che riesce a imporsi all’attenzione collettiva. Il prostates è il germoglio da cui si sviluppa il tiranno . Il prostates cercherà di approfittare della sua posizione per arricchirsi a scapito degli altri e per schiacciare i propri avversari. Si farà dei nemici, che cercheranno di ucciderlo: e questo sarà il pretesto col quale chiederà al popolo una guardia del corpo personale . Il prostates non è più un cittadino come gli altri, perché dispone di una forza armata personale: questo è l’atto di origine della tirannide”.
    Altro punto di estrema attualità come si può facilmente arguire.
    Proseguendo:
    Una volta divenuto tiranno, il prostates cercherà di mostrare un volto affabile verso i concittadini, e susciterà guerre, per legittimarsi come capo e impoverire o sopprimere i suoi nemici interni. Eliminerà i migliori, anche fra i suoi sostenitori, per non avere rivali, e si circonderà di mediocri, che staranno con lui per viltà o per sete di guadagno. Si varrà, inoltre, dei poeti per condizionare l’opinione pubblica. Infatti, i poeti, con le loro belle voci prezzolate, sono strumenti propagandistici essenziali nelle tirannidi e nelle democrazie, mentre la loro importanza decresce man mano che si progredisce nella scala delle costituzioni (568b ss). Tanto più, infatti, una costituzione è strutturata secondo una forma, tanto meno è utile la manipolazione delle emozioni operata dai poeti.
    L’esito della democrazia è, per Platone, la violenza della tirannide, perché la democrazia stessa non si fonda su nessuna forma e idea comune, ma privatizza a un tempo la ragione pratica e la ragione teoretica, riconducendola interamente agli arbitrii individuali. In una simile prospettiva, la tesi platonica potrebbe essere resa più comprensibile al lettore contemporaneo in questi termini: la tirannide è l’esito di un processo di privatizzazione radicale che s’innesca quando i regimi democratici non sanno o non vogliono mantenere una regola pubblica e comune.
    Ciò considerato si arriva a formulare la domanda di partenza: può essere giustificato davanti agli uomini e alla Storia l’atto esemplare della soppressione del tiranno ?
    E’ questo un dilemma etico/giuridico, che ci accompagna fin dall’antichità, col quale si sono cimentati filosofi e artisti, laici e religiosi, massoni e gesuiti, santi e peccatori, rivoluzionari e lacchè del potere.
    Da Luciano di Samosata a Cicerone, da S. Tommaso d’Acquino a Lorenzino dei Medici, dalla rivoluzione inglese a quella francese, da Mazzini ai regicidi anarchici, da Tolstoj alle rivoluzioni del XX secolo, e fino ai giorni nostri, non si è mai smesso di ragionare sul tirannicidio, questo gesto di extrema ratio del “diritto di resistenza”.
    Ma il tirannicidio è giustificato oppure no ? E’ solo da comprendere o è anche da condividere ? E’ sempre da condannare o dipende dai casi ? Serve a qualcosa o è inutile, o addirittura controproducente ? E’ sufficiente essere eletto dal popolo sovrano per non essere un tiranno o è sufficiente non essere eletto per non diventarlo ?
    La dottrina cattolica, ad esempio, distingue tra il “tiranno per usurpazione” (tyrannus in titula, cioè che ha preso il potere illegalmente) e il “tiranno per oppressione” (tyrannus in regimine, cioè che abusa del potere che ha ricevuto legalmente).
    Uno dei riferimenti più datati attribuito a Cicerone che oltre ad affermare che “chi sfugge alla giustizia nei tribunali deve attendersi di trovarla nelle strade” dice anche che “Bellum est in eos qui Judiciis coerceri non possunt” ovvero “facciamo la guerra a coloro contro cui nulla può la legge” .
    Ma il riferimento più esplicito sul vero significato del tirannicidio, uno dei testi che meglio spiega se sia lecito o meno uccidere un tiranno, o un dittatore, lo si trova nel Commento alle sentenze di San Tommaso d’Aquino.
    Ed è opportuno citare qui uno dei passi più significativi del testo, riferito all’oggetto del nostro approfondimento: “Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno viene lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi, oppure quando i sudditi sono costretti al consenso. E tutto ciò, quando non è possibile il ricorso a un’istanza superiore, costituisce una lode per colui che uccide il tiranno ”.
    Ancora , con un salto di diversi secoli e omettendo il richiamo ai molti autori che pure si sono cimentati via via sull’argomento, non si può non citare quanto scrive Maximilien Robespierre : “Quali sono le leggi che la sostituiscono allora ? (ndr: la Costituzione) Quelle della natura, quella che è alla base della stessa società: la salvezza del popolo. Il diritto di punire il tiranno e quello di deporlo dal trono sono la stessa cosa . . . il processo al tiranno è l’insurrezione, il suo giudizio è la caduta della sua potenza, la sua pena quella che richiede la libertà del popolo”.
    Ma è sorprendente ed inaspettato trovare, e leggere, quanto scritto in un documento relativamente recente, nella Gaudium et Spes (è la quarta costituzione apostolica conciliare promulgata da papa Paolo VI e uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II e della Chiesa cattolica. Approvata da 2.111 voti favorevoli su 2.373, 251 contrari e 11 nulli, la Gaudium et Spes fu promulgata dal papa il 7 dicembre 1965, l’ultimo giorno del Concilio) : “Dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue competenze, essi non ricusino di fare quelle cose che sono oggettivamente richieste dal bene comune e sia perciò lecito difendere i propri diritti contro gli abusi dell’autorità”.
    Per l’impero britannico George Washington era un terrorista, per l’impero austro-ungarico terroristi erano i carbonari e la Giovine Italia, per gli occupanti tedeschi erano terroristi i partigiani, negli anni 1930-1940 Yitzhak Shamir, uno dei padri della patria israeliana, era un terrorista responsabile di attentati anti-arabi e anti-britannici tra cui, nel novembre del 1944, l’omicidio del rappresentante inglese in Egitto Lord Walter Edward Guinness, barone Moyne.
    Per buona parte della sua vita Nelson Mandela è stato definito “terrorista” anche da un leader di governo europeo come Margaret Thatcher.
    Sferzante e pieno di tragico realismo è quanto scrive James Connolly, patriota irlandese in occasione della cannonate di Bava Beccaris tirate sul popolo milanese nel maggio 1898 : “Per le vie di Milano cento donne della classe operaia vengono uccise con la baionetta o a colpi di arma da fuoco, stringendo al seno i loro bimbi affamati mentre la buona società riserva loro un trafiletto di giornale. Un’imperatrice è pugnalata in una strada di Ginevra e, apriti cielo, l’Umanità ne è sconvolta ! Sarà forse l’impietosa mano della storia a rovesciare la procedura dedicando a quell’olocausto di lavoratrici un intero capitolo in quanto martiri dell’umanità e confinando l’assassinio dell’imperatrice in una nota a piè pagina”?
    E oggi ?
    In una società complessa, di capitalismo avanzato, può esistere la figura del tiranno oppure il “potere” è spersonalizzato e ogni membro della classe dirigente può essere subito sostituito ?
    Qualche anno fa il dibattito si è riacceso a proposito della “guerra preventiva” contro l’Iraq e l’eliminazione di Saddam Hussein e successivamente con quella di Gheddafi in Libia, ma il paragone non è calzante perché il tirannicidio deve essere compiuto “dal basso”, da un suddito, dall’oppresso, comunque da una vittima del tiranno, da qualcuno che ha subito il suo potere. Nei due casi citati invece è stata la superpotenza a eliminare un avversario scomodo.
    Allora si poteva pensare che non esistesse più il nuovo principe ma il nuovo despota collettivo, l’oligarchia del potere; l’attentato al tiranno di ieri era cosa molto meno complessa della lotta all’oligarchia di oggi, anche perché questa non disponeva di una sola testa, ma mille teste e come una piovra estendeva i suoi tentacoli in ogni strato della società.
    Non poteva bastare il complotto o l’atto isolato, Ravaillac o Bresci, ci voleva una complessa opera collettiva, articolata e ben organizzata.
    Oggi però il ritorno proprio alla guida delle grandi potenze a una spiccata dimensione del potere personale improntato a forme giudicabili come di vera e propria tirannia pur suffragate da più o meno regolari plebisciti, in un quadro generale di arretramento complessivo delle forme di democrazia liberale può giustificare un riaccendersi di questo dibattito?
    L’anniversario di “Operazione Ogro” e l’importanza della sua riuscita, all’epoca, nell’avviare un diverso andamento della transizione spagnola con l’eliminazione del delfino rispetto a ciò che poteva essere prevedibile accadesse in vista della scomparsa per morte naturale del dittatore, può rappresentare un momento in cui la riflessione sotto quest’aspetto potrebbe anche ripartire.
    Tutto però è nato, è bene ricordarlo, dal ritorno all’uso di un solo termine “tirannicidio”.
    Senza dimenticare il titolo maoista “Ribellarsi è giusto”.

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