6 commenti

  • sergio falcone

    Questa è la mia dichiarazione di non voto. Capisco le ragioni, nobilissime, di chi andrà alle urne e le rispetto. E’ bene che ognuno faccia secondo coscienza. Ma io non me la sento di affidare le mie sorti ad una Sinistra politicista, trasformista e burocratica.
    La libertà di scelta individuale e’ sacrosanta. Padrone di niente, servo di nessuno.

    *

    A Roberto Gualtieri,
    candidato PD,
    per il cortese tramite
    del suo comitato elettorale
    robertogualtieri2019@gmail.com

    Alla sezione PD
    “Porta San Giovanni”
    Via La Spezia, 79
    00182 Roma
    pdportasangiovanni@gmail.com

    Al PD,
    suoi massimi vertici
    e dirigenti locali
    Loro sedi

    Gentili signori,

    trovo inopportuna e fuor di luogo la pubblicità elettorale che dei giovani, sicuramente pagati due lire, hanno lasciato nella mia cassetta della posta poco fa.

    Io non voto. L’unica scelta etica possibile, nel contesto degradato in cui siamo costretti a vivere, è l’astensionismo attivo.

    Sono stanco di ascoltare chiacchiere e di essere bombardato, tutti i santi giorni, dalle esibizioni, spesso di cattivo gusto, delle varie burocrazie di partito… E nessuno che riesca a risolvere anche solo uno dei problemi che ci affliggono.

    Sui criteri, discutibili, con i quali vengono stilate le liste elettorali, prodotto di accordi di vertice che nulla hanno di democratico, preferisco sorvolare.

    Non sono di ideologia neoliberista e nemmeno liberale. Sono nipote, da parte di madre, di un vecchio liberale dei tempi di Piero Gobetti. Mi ha insegnato l’amore per la libertà e la coerenza. Ma quelli erano altri tempi e Piero Gobetti era un liberalsocialista.

    Ma se fossi liberale, perché dovrei votare PD? Tra una cattiva fotocopia e l’originale, preferisco l’originale. Il PD è l’erede del vecchio partito stalinista, il Partito comunista italiano.
    Il PCI ha distrutto la Sinistra rivoluzionaria e si è suicidato, eticamente e politicamente, diventando liberale.
    Ricordo, per chi se ne fosse dimenticato, che il liberalesimo è la teoria del capitale. E, quindi, dei padroni.

    Nessuno pensa alla povera gente, a cominciare dai migranti. Minniti non è certo migliore di Salvini.
    Vi ricordò che la Turco-Napolitano, votata da tutta la Sinistra parlamentare, ha inaugurato quelli che sono i nuovi lager a tutti gli effetti. Campi di concentramento dove vengono rinchiusi i migranti per il solo fatto di essere migranti, anche se non hanno commesso reati. Viene colpita una condizione e non un reato. Una cosa inconcepibile in un paese che si dice democratico e antifascista.

    Pertanto, vi invito cortesemente a lasciarmi in pace.

    Cordialmente,

    sergio falcone

  • Gian Marco Martignoni

    Nel 2009 con l’accordo tra PD e Forza Italia sulla soglia di sbarramento al 4 % si determinarono le condizioni per l’estromissione dal Parlamento Europeo di una sinistra radicale e ” comunista ” peraltro reduce dall’ennesima divisione.Come insiste l’avvocato Felice Besostri si tratta tra l’altro di una soglia di sbarramento non costituzionalmente corretta, se è vero che nel Parlamento Italiano l’asticella è fissata al 3%. Comunque, nel 2014 L’Altra Europa per Tsipras superò la fatidica soglia del 4% , poichè la vicenda greca aveva generato una certa evocazione nel disperso universo dell’anticapitalismo europeo. Purtroppo, in questo quinquennio è stata la destra a veder crescere i suoi consensi, mentre la lista La Sinistra arriva a questo appuntamento per inerzia, e quindi senza nessuna spinta e soprattutto partecipazione a partire dalle realtà territoriali .Penso , per fare un parallelo, a quello che avevamo messo in campo a Varese nel 2014 in termini di mobilitazione e di entusiasmo, e al nulla di questo mese di Maggio .Rifondazione e Sinistra Ecologia e Libertà sono inesistenti, e se non fosse stato per le Donne in Nero, che martedì sera hanno organizzato un incontro con la candidata Daniela Padoan, non ci sarebbe stata nessuna iniziativa ; se non un appello al voto che alcuni compagni e compagne si sono ostinati a redigere e diffondere alla stampa locale .Detto ciò, ho aderito all’appello nazionale e per quello che ho potuto ho cercato di sostenere la lista, consapevole del disorientamento che ha investito la nostra area di riferimento tradizionale. Perché ci troviamo in questa condizione, e quindi come riprendere un discorso che superi le divisioni e la insensata frammentazione tra le attuali e residuali formazioni politiche, dovrebbe essere il primo impegno da assumere sin da oggi al di là dell’esito del voto.

  • Cristina Cattafesta

    Caro Daniele, per rispondere alla tua domanda/titolo, tra il VOTO e il VUOTO c’è qualcosa?
    Si, una U di UNITA’!!! 🙂

  • sergio falcone

    Élections, piége a cons | Elezioni, trappola per gonzi

    di Jean-Paul Sartre

    Nel 1789 fu stabilito il voto censitario: significava far votare non gli uomini ma le proprietà, i beni borghesi, che non potevano dare i suffragi che a se stessi. Questo sistema era profondamente ingiusto poiché si escludeva dal corpo elettorale la maggior parte della popolazione francese, ma non era assurdo. Certo gli elettori votavano isolatamente e in segreto: questo tornava a separarle gli uni dagli altri e a non ammettere tra i loro suffragi che dei legami di esteriorità.

    Ma questi elettori erano tutti dei possidenti, dunque già isolati dalle loro proprietà che si richiudevano su di loro ridando alle cose; agli uomini tutta la loro impenetrabilità materiale Le schede elettorali, quantità discreta, non facevano che tradurre la separazione dei votanti e si sperava, addizionando i suffragi, di far scaturire l’interesse comune del più gran numero, cioè il loro interesse di classe. Nelle stesso periodo la Costituente adottava la legge Le Chapelier il cui fine confessato era di sopprimere le corporazioni ma che mirava, inoltre, ad interdire ogni associazione dei lavoratori tra loro e contro i loro datori di lavoro. Così i non-possidenti, cittadini passivi che non avevano nessun accesso alla democrazia indiretta, cioè al voto usato dai ricchi per eleggere il loro governo, si vedevano ritirare, per sovramercato, ogni permesso di raggrupparsi e di esercitare la democrazia popolare o diretta, la sola che si convenisse loro poiché non erano suscettibili di essere separati dai loro beni.
    Quando, quattro anni più tardi, la Convenzione rimpiazzò il suffragio censitario col suffragio universale, non credette bene, tuttavia, di abrogare la legge Le Chapelier, in modo che i lavoratori, definitivamente privati della democrazia diretta, votarono come proprietari anche se non possedevano niente. I raggruppamenti popolari, vietati ma frequenti, divennero illegali rimanendo legittimi. Alle assemblee elette dal suffragio universale si sono dunque opposti nel 1794, nel 1848 nella Seconda Repubblica e infine nel 1870, dei raggruppamenti spontanei ma a volte molto estesi che dovevano essere chiamati appunto classi popolari o popolo. Nel 1848, in particolare, si credette di vedere, opposto ad una Camera eletta col riconquistato suffragio universale, un potere operaio che si era costituito nelle strade e negli Ateliers Nationaux. Si sa come finì: nel maggio-giugno 1848 la legalità massacrò la legittimità. Di fronte alla legittima Comune di Parigi, l’ultralegale Assemblea di Bordeaux trasferita a Versailles non ebbe che da imitare questo esempio. Alla fine del secolo scorso e all’inizio di questo le cose sembrarono cambiare: si riconobbe agli operai il diritto di sciopero, le organizzazioni sindacali furono tollerate. Ma i presidenti del Consiglio, capi della legalità, non sopportavano le spinte ricorrenti del potere popolare. Clemenceau in particolare si distinse nel reprimere gli scioperi. Tutti, ossessionati dalla paura dei due poteri, rifiutavano la coesistenza del potere legittimo, nato qua e là dall’unità reale delle forze popolari, e di quello, falsamente uno, che essi esercitavano e che riposava, in definitiva, sull’infinita dispersione dei votanti. Di fatto erano caduti in una contraddizione che non avrebbe potuto risolversi che con la guerra civile, dal momento che l’uno aveva la funzione di disarmare l’altro. Votando domani noi andiamo, ancora una volta, a sostituire il potere legittimo col potere legale. Questo, preciso, di una chiarezza in apparenza perfetta, atomizza i votanti in nome del suffragio universale. Quello è ancora in embrione, diffuso, oscuro a se stesso: fa tutt’uno, per il momento, con il vasto movimento antigerarchico e libertario che si incontra dappertutto ma che non è ancora organizzato. Gli elettori fanno parte dei raggruppamenti più diversi. Ma non è in quanto membri di un gruppo bensì come cittadini che l’urna li aspetta.

    Quella cabina elettorale, piantata nell’aula di una scuola o di un municipio, è il simbolo di tutti i tradimenti che l’individuo può commettere verso i gruppi di cui fa parte. Essa dice a ciascuno: «Nessuno ti vede, non dipendi che da te stesso; stai per decidere nell’isolamento e in seguito potrai nascondere la tua decisione o mentire». Non c’è bisogno di altro per trasformare tutti gli elettori che entrano nell’aula in traditori in potenza gli uni degli altri. La diffidenza accresce la distanza che li separa. Se noi vogliamo lottare contro l’atomizzazione è necessario prima tentare di capirla. Gli uomini non nascono nella separazione: vengono su nell’ambiente familiare che li fa durante i loro primi anni. In seguito essi faranno parte di diverse comunità socio-professionali e fonderanno essi stessi una famiglia. Li si atomizza quando grandi forze sociali – le condizioni di lavoro in regime capitalista, la proprietà privata, le istituzioni, ecc. – si esercitano sui gruppi di cui essi fanno parte per . smembrarli e ridurli alle unità di cui si pretende che essi si compongano. L’esercito, per non citare che un esempio di istituzione, non considera mai la persona concreta del richiamato, che non può afferrarsi che sulla base della sua appartenenza a dei gruppi esistenti. Esso non vede in lui che l’uomo, cioè il soldato, entità astratta che si definisce per i doveri e per i rari diritti che rappresentano i suoi rapporti col potere militare. Questo «soldato», che esattamente il richiamato non è ma al quale il servizio militare intende ridurlo, è altro in sé da se stesso e identicamente altro presso tutti i commilitoni di una stessa classe. E’ questa identità stessa che li separa poiché essa non rappresenta per ciascuno che l’insieme prestabilito delle sue relazioni con l’esercito. Così, durante le ore di addestramento, ciascuno è altro da sé e, nello stesso tempo, identico a tutti gli Altri che sono altri da se stessi. Egli non può avere rapporti reali con i suoi compagni che se, durante i pasti o di sera, nella camerata, essi si spogliano tutti insieme del loro essere-soldato. Tuttavia la parola atomizzazione, così spesso impiegata, non rende la vera situazione delle -persone disperse e alienate dalle istituzioni. Non si può ridurle alla solitudine assoluta dell’atomo anche se si tenta di sostituire le loro relazioni concrete con le persone, con dei semplici legami di esteriorità. Non li si può escludere da tutta la vita sociale: il soldato prende l’autobus, compra il giornale, vota. Questo presuppone che egli usi dei «collettivi» con gli Altri. Semplicemente, i collettivi si indirizzano a lui come a un membro di una serie (quella di coloro che comprano i giornali, dei telespettatori, ecc.). Egli diventa identico quanto all’essenza a tutti gli altri membri, differendone solo per il suo numero d’ordine. Noi diremo che è serializzato. La serializzazione dell’azione la si ritrova nel campo pratico-inerte dove la materia si fa mediazione tra gli uomini nella misura in cui gli uomini si fanno mediazione tra gli oggetti materiali (dal momento che un uomo prende il volante della sua auto egli non è altro che un guidatore tra gli altri e perciò contribuisce a rallentare la velocità di tutti e la sua stessa, e questo è il contrario di ciò che desiderava quando voleva possedere lui stesso un’automobile).
    A partire da ciò nasce in me il pensiero seriale che non è il mio proprio pensiero ma quello dell’Altro che io sono e quello di tutti gli Altri; bisogna chiamarlo pensiero d’impotenza perché io lo produco in quanto io sono l’Altro, nemico di me stesso e degli Altri e in quanto io porto dovunque questo Altro con me. Supponiamo un’azienda dove non c’è stato uno sciopero da venti o trent’anni, ma dove il potere d’acquisto dell’operaio diminuisce costantemente a causa del «caro-vita». Ciascun lavoratore comincia a considerare una azione rivendicativa Ma i venti anni di « pace sociale » hanno stabilito poco a poco tra i lavoratori relazioni di serialità. Ogni sciopero – fosse anche di ventiquattr’ore – richiederebbe un raggruppamento di lavoratori. In questo momento il pensiero seriale – che separa – resiste fortemente alle prime manifestazioni del pensiero di gruppo. Esso sarà razzista (gli immigrati non ci seguirebbero), misogino (le donne non ci capirebbero), ostile alle altre categorie sociali (i piccoli commercianti e i contadini non ci aiuterebbero), diffidente (il mio vicino è un Altro; dunque non so come potrebbe reagire), ecc. Tutte queste proposizioni di separazione non rappresentano il pensiero degli operai stessi, ma quello degli altri che essi sono e che vogliono mantenere il loro statuto d’identità e di separazione. Se il raggruppamento riuscisse, non si troverebbe più traccia di questa ideologia pessimista. Non aveva altra funzione che di giustificare il mantenimento dell’ordine seriale e dell’impotenza in parte subita, in parte accettata.

    Il suffragio universale è un’istituzione, dunque un collettivo, che atomizza o serializza gli uomini concreti e si rivolge in essi a delle entità astratte, i cittadini, definiti da un complesso di diritti e doveri politici, cioè dal loro rapporto con lo Stato e le sue istituzioni. Lo Stato ne fa dei cittadini dando loro, per esempio, il diritto di votare ogni quattro anni, a condizione che essi rispondano a delle condizioni molto generali – essere Francesi, avere più di ventun’anni – che non caratterizzano veramente nessuno di loro. Da questo punto di vista tutti i cittadini, siano essi nati a Perpignan o a Lilla, sono perfettamente identici, come abbiamo visto che lo erano i soldati nell’esercito: non ci si interessa dei loro problemi concreti che nascono nelle loro famiglie o nei loro raggruppamenti socio-professionali. Di fronte alle loro solitudini astratte e alle loro separatezze si ergono gruppi o partiti che sollecitano i loro voti. Si dice loro che essi delegano il loro potere a uno o più di questi raggruppamenti politici. Ma, per «delegare la sua autorità», bisognerebbe che la serie costituita dall’istituzione del voto ne possedesse almeno una piccola parte. Ora, questi cittadini, identici e fabbricati dalla legge, disarmati, separati dalla diffidenza di ciascuno verso gli altri, mistificati ma coscienti della loro impotenza, non possono in nessun caso, fin quando hanno lo statuto seriale, costituire questo gruppo sovrano del quale ci è stato detto che emana tutti i poteri, il Popolo. Considerato che si è loro concesso suffragio universale, l’abbiamo visto, per atomizzarli ed impedirgli di raggrupparsi tra loro. Solo i Partiti, essendo originariamente dei gruppi – d’altronde più o meno serializzati e burocratizzati -, possono considerarsi come aventi un embrione di potere. In questo senso bisognerebbe rovesciare la formula classica, e quando un Partito dice: «Sceglietemi!», non intendere con ciò che gli elettori gli deleghino la loro sovranità, ma che i votanti, rifiutando di unirsi in gruppo per accedere alla sovranità, designano una o più comunità politiche già costituite ad estendere il potere, che esse già possiedono, sino ai confini nazionali. Nessun partito potrà rappresentare la serie di cittadini perché esso deriva la sua potenza da se stesso, cioè dalla sua struttura comunitaria; la serie d’impotenza non può, in alcun caso, delegargli una porzione d’autorità. Ma al contrario il Partito, quale che esso sia, usa la sua autorità per agire sulla serie reclamandone i voti; e la sua autorità sui cittadini serializzati non è limitata che da quella di tutti gli altri partiti messi insieme. In una parola, quando io voto, io abdico al mio potere – cioè alla possibilità che è in ciascuno di costituire con tutti gli altri un gruppo sovrano che non ha nessun bisogno di rappresentanti – e affermo che noi, i votanti, siamo sempre altri da noi stessi e che nessuno di noi può in alcun caso abbandonare la serialità per il gruppo, se non per interposta persona. Votare è senza dubbio, per il cittadino serializzato, dare il suo voto a un Partito, ma è soprattutto votare per il voto, come dice Kravetz, cioè per l’istituzione politica che ci mantiene nello stato d’impotenza seriale. Lo si è visto, nel giugno 1968, quando de Gaulle ha chiesto alla Francia, in piedi e costituitasi in gruppi, di votare, cioè di andare a dormire e di avvolgersi nella serialità. I gruppi non-istituzionali diffidarono; gli elettori, identici e separati, votarono per l’U.D.R. che prometteva di difenderli contro l’azione dei gruppi che essi, solo qualche giorno prima, costituivano. Lo si vede ancora oggi quando Séguy chiede tre mesi di pace sociale per non spaventare gli elettori, in verità perché le elezioni siano possibili, cosa che non sarebbero più se quindici milioni di scioperanti, decisi e istruiti dall’esperienza del 1968, rifiutassero di votare e passassero all’azione diretta. L’elettore deve continuare a dormire e compenetrarsi della sua impotenza; così sceglierà dei Partiti che esercitino la loro autorità e non la sua. Così ciascuno, chiuso sul suo diritto di voto come il proprietario sulla sua proprietà, sceglierà i suoi padroni per quattro anni senza vedere che questo preteso diritto di voto non è che l’interdizione di unirsi agli altri per risolvere con la praxis i veri problemi.

    Il tipo di scrutinio, sempre scelto dai gruppi dell’Assemblea e mai dagli elettori, aggrava le cose. La proporzionale non strappava i votanti alla serialità, ma almeno utilizzava tutti i voti. L’Assemblea dava una immagine corretta della Francia politica, cioè serializzata, poiché i Partiti erano rappresentati proporzionalmente al numero dei voti che ciascuno aveva ottenuto. Il nostro scrutinio al contrario, si ispira al principio opposto che è, diceva assai giustamente un giornalista, 49% = 0. Se in una circoscrizione al secondo turno, i candidati dell’U.R.D. ottengono il 50% dei voti, vengono tutti eletti. Il 49% dell’opposizione precipita nel nulla: corrisponde a circa la metà della popolazione che non ha il diritto di essere rappresentata.

    Con questo sistema, prendiamo un elettore che ha votato comunista nel 1968 e i cui candidati non sono stati eletti. Egli vota – supponiamo – per lo stesso P.C. nel 1973. Se i risultati sono differenti da quelli del 1968, ciò non dipenderà da lui poiché egli avrà, nei due casi, dato il suo voto agli stessi candidati. Perché il suo voto sia utile, è necessario che un certo numero di elettori che hanno votato nel 1968 per la maggioranza attuale, se ne distacchino, stanchi e decidano di votare più a sinistra. Ma, intanto, non è affare del nostro uomo farli decidere; e poi, essi sono verosimilmente di un altro ambiente, e lui non li conosce nemmeno. Tutto avviene altrove e altrimenti: con la propaganda dei partiti, con certi organi di stampa. L’elettore del P.C., quanto a lui, non ha che da votare, è tutto quello che gli si chiede: egli voterà ma non parteciperà alle azioni che mirano a modificare il senso del suo voto. E poi, molti di quelli ai quali si potrebbe far cambiare idea sono ostili all’U.D.R. ma visceralmente anticomunisti: essi preferiscono eleggere dei «riformatori» che diventeranno così gli arbitri della situazione. E non è verosimile che questi si schierino con P.S. e P.C.; essi apporteranno la loro forza complementare all’U.D.R. che come loro vuole conservare il regime capitalista. L’alleanza dell’U.D.R. e dei riformatori, questo è il senso oggettivo del voto dell’elettore comunista: che in effetti è necessario perché il P.C. conservi i suoi suffragi e li aumenti, ed è questo aumento che diminuirà il numero degli eletti della maggioranza e li determinerà a gettarsi nelle braccia dei riformatori. Non c’è niente da dire se si accettano le regole di questo gioco da coglioni. Ma, in quanto il nostro elettore è se stesso, cioè in quanto uomo concreto, il risultato che egli avrà ottenuto come Altro identico non lo soddisferà affatto. I suoi interessi di classe e le sue determinazioni individuali coincidono per fargli scegliere una maggioranza di sinistra. Egli avrà contribuito a inviare all’Assemblea una maggioranza di destra e di centro dove il partito più importante sarà ancora l’U.D.R. Così quando quest’uomo metterà la scheda nell’urna, questa riceverà dagli altri un significato altro da quello che egli aveva inteso darle: ritroviamo qui l’azione seriale che abbiamo trovato nel settore pratico-inerte.
    Andiamo ancora più in là: poiché io affermo, votando, la mia impotenza istituzionalizzata, la maggioranza in carica non ci pensa due volte a dividere e manipolare il corpo elettorale, avvantaggiando le campagne e le città che «votano bene» a spese delle periferie e dei sobborghi che «votano male». Tanto che perfino la serialità dell’elettorato viene trasformata. Se era perfetta, un voto valeva l’altro. Siamo lontani dal conto: servono centoventimila voti per eleggere un deputato comunista, trentamila per mandare all’Assemblea un U.D.R. Un elettore della maggioranza vale quattro elettori del P.C. Egli vota contro ciò che bisogna chiamare una supermaggioranza, cioè contro una maggioranza che vuole mantenersi in carica con altri mezzi che la serialità pura dei voti.
    Perché voterò? Perché mi hanno convinto che il solo atto politico della mia vita consiste nel portare il mio suffragio nell’urna una volta ogni quattro anni? Ma è il contrario di un atto. Io non faccio che rivelare la mia impotenza ed obbedire al potere di un Partito. Inoltre, io dispongo di un voto di valore variabile se obbedisco all’uno o all’altro. Per questa ragione, la maggioranza della futura Assemblea non riposerà che su una coalizione e le decisioni che prenderà saranno dei compromessi che potranno non riflettere affatto i desideri che esprimeva il mio voto. Nel 1959 la maggioranza ha votato per Guy Mollet perché egli pretendeva di fare al più presto la pace in Algeria. Il governo socialista che prese il potere decise di intensificare la guerra: ciò che portò molti elettori a passare dalla serie, che non sa mai per chi vota né per che cosa, al gruppo d’azione clandestina. E’ ciò che essi avrebbero dovuto fare molto prima ma, di fatto, fu l’improbabile risultato dei loro voti che denunciò l’impotenza del suffragio universale.

    In verità tutto è chiaro se si riflette e si arriva alla conclusione che la democrazia indiretta è una mistificazione. Si pretende che l’Assemblea eletta sia quella che riflette meglio l’opinione pubblica. Ma non c’è opinione pubblica che non sia seriale. L’imbecillità dei mass-media, le dichiarazioni del governo, la maniera parziale o monca in cui i giornali riflettono gli avvenimenti, tutto ciò viene a cercarci nella nostra solitudine seriale e ci zavorra di idee di pietra, fatte di ciò che noi pensiamo che gli altri pensino. Senza dubbio in fondo a noi stessi ci sono esigenze e proteste ma, invece di essere convalidate dagli altri, si annientano in noi lasciando dei «bleus à l’ȃme» e un senso di frustrazione. Così, quando ci chiamano a votare, io, io Altro, ho la testa farcita di idee pietrificate che la stampa e la televisione vi hanno accatastato e sono queste idee seriali che si esprimono col mio voto ma non sono le mie idee. L’insieme delle istituzioni della democrazia borghese mi sdoppia: ci sono io e tutti gli Altri che mi si dice che io sono (Francese, soldato, lavoratore, contribuente, cittadino, ecc.). Questo sdoppiamento ci fa vivere in quella che gli psichiatri chiamano una crisi d’identità perpetua. Insomma chi sono io? Un altro identico a tutti gli altri e abitato da questi pensieri d’impotenza che nascono dovunque e non sono pensieri in nessun posto, o sono me stesso? E chi vota? Io non mi riconosco più.

    Tuttavia ci sono quelli che votano come essi dicono, «per cambiare i mascalzoni», il che vuol dire che ai loro occhi il rovesciamento della maggioranza U.D.R. ha priorità assoluta. E io riconosco che sarebbe bello far cadere per terra questi politici bacati. Ma si è riflettuto che per rovesciarli si deve mettere al loro posto un’altra maggioranza che conserva gli stessi principi elettorali?

    U.D.R., riformatori e P.C.-P.S. sono concorrenti: questi partiti si mettono su un terreno comune che è la rappresentanza indiretta, il loro potere gerarchico e l’impotenza dei cittadini: in breve, il «sistema borghese». Che il P.C. che si pretende rivoluzionario si sia ridotto, dopo la coesistenza pacifica, a cercare il potere borghesemente accettando l’istituzione del suffragio borghese, dovrebbe far riflettere. È a chi addormenterà meglio i cittadini: l’U.D.R. parla di ordine, di pace sociale, il P.C. tenta di far dimenticare la sua immagine di marca rivoluzionaria. Ci riesce così bene, di questi tempi, con l’aiuto dato dai socialisti, che, se riuscisse a prendere il potere grazie ai nostri voti, respingerebbe sine die la rivoluzione e diventerebbe il più stabile dei partiti elettorali. Ci sono tanti vantaggi a cambiare? In ogni caso, si annegherà la Rivoluzione nelle urne, cosa che non deve stupire, poiché, in ogni caso, sono fatte per questo.

    Certi, tuttavia, vogliono essere machiavellici, cioè servirsi dei loro suffragi per ottenere un risultato altro che seriale. Essi sperano, mandando, se possono, una maggioranza P.C.-P.S. alla nuova Assemblea, di costringere Pompidou a gettare la maschera, a sciogliere la Camera, in altri termini a forzarci alla lotta attiva, classe contro classe o piuttosto gruppo contro gruppo, forse alla guerra civile. Che strana idea, di lasciarci serializzarci conformemente ai voti del nemico perché reagisca con la violenza e ci obblighi a costituire dei gruppi. E’ un errore. Il machiavellismo ha bisogno di partire da dati certi e di cui si può prevedere l’effetto. Non è questo il caso: non si possono prevedere a colpo sicuro i risultati di un suffragio serializzato: è prevedibile che l’U.D.R. perderà dei seggi e che il P.S.-P.C. e riformatori ne guadagneranno; il resto non è così probabile da definirvi su una tattica. Un solo segno: il sondaggio dell’I.F.O.P. pubblicato da France-Soir il 4 dicembre: 45% a P.C.-P.S., 40% all’U.D.R., 15% ai riformatori. E questa curiosa constatazione: ci sono molti più suffragi per P.C.-P.S. che gente persuasa che questa coalizione vincerà. Dunque ci sarà molta gente – tenuto conto di tutte le incertezze di un sondaggio – che voterà per la sinistra con la certezza che questa non raccoglierà la maggioranza dei suffragi: ancora di questa gente per la quale l’eliminazione dell’U.D.R. è prioritaria ma che non ha tanta voglia di rimpiazzarla con la sinistra. Queste osservazioni danno dunque, nel momento in cui scrivo, 5 gennaio 1973, per probabile una maggioranza U.D.R.-Riformatori. In questo caso, Pompidou non scioglierà l’Assemblea, preferirà mettersi d’accordo con i riformatori: la maggioranza si ammorbidirà un po’, ci saranno meno scandali, cioè ci si metterà d’accordo perché siano meno facilmente scoperti, J.-J. S.-S. e Lecanuet entreranno nel governo. E’ tutto. Il machiavellismo si ritorcerà dunque contro i piccoli Machiavelli.
    Se essi vogliono tornare alla democrazia diretta, quella del popolo in lotta contro il sistema, quella degli uomini concreti contro la serializzazione che li trasforma in cose, perché non cominciare da qui? Votare, non votare è lo stesso. Astenersi, in effetti, è confermare la nuova maggioranza, quale essa sia. Qualunque cosa si faccia a questo proposito, non si sarà fatto niente se non si lotta nello stesso tempo, questo vuol dire fin da oggi, contro il sistema della democrazia indiretta che ci riduce deliberatamente all’impotenza, tentando, ciascuno secondo le sue risorse, di organizzare il vasto movimento antigerarchico che contesta dappertutto le istituzioni.

    («Les Temps Modernes», gennaio 1973)

    ***

    Mandateli lassù!

    di Luigi Galleani

    «Ho, come un anatomista, osservato molti uomini d’ingegno brillante e di reputazione incontestabile, idolo e segnacolo dei partiti; li ho visti tutti, tutti, qualunque ne fosse il principio, umiliarsi e mentire per giungere al potere», E. Cœurderoy

    I politicanti di talento, di reputazione incontestabile, idolo e segnacolo del partito socialista, li abbiam visti umiliarsi e mentire intorno al suffragio universale per acquistare il diritto a mendicarlo; li vedremo ora abiurare, rinnegare, umiliarsi, transigere e mentire intorno alla funzione ed al valore dello Stato per proclamare il loro diritto alla prebenda, alla pagnotta, alla cuccagna.

    Che cos’è lo Stato?
    Non domandiamolo a Bakunin ed a Kropotkin: scienziati, filosofi, uomini di pensiero e d’azione eroicamente sinceri, non rinnegarono mai né per paura, né per lusinghe, né per calcolo la fede dei primi giorni, rimasero anarchici e sarebbero come tali cattive pietre di paragone alle ciniche e studiate apostasie dei socialisti girella a cui la fede è mercenaria ruffiana della fortuna, non viatico dell’abnegazione, stimolo alla sincerità ed al sacrifizio.
    Che cos’è lo Stato?
    «Lo Stato sorse nello stesso periodo storico in cui ebbe origine dappertutto, con forme diverse, la proprietà privata… Lo Stato attuale non ci appare se non come l’espressione della comunanza degli interessi delle classi dominanti… Lo Stato non ha altra missione che rappresentare, difendere, conservare tali interessi… Scomparse le differenze di classe, lo Stato cesserà di esistere non avendo più alcun fine da compiere… In un sistema di proprietà comune non v’ha bisogno, né possibilità di uno Stato e di un governo» (A. Bebel, 3 febbraio 1893).
    Abbasso dunque lo Stato, il quale finché durerà la proprietà privata non potrà essere che l’espressione degli interessi della classe dominante.
    È sempre l’antico pensiero di Marx e di Engels che il socialismo eunuco dei nostri giorni s’arrabatta a sofisticare ed a rinnegare.
    «Le società che si eran mosse sin qui nell’antagonismo di classi aveano bisogno dello Stato, cioè di una organizzazione della classe sfruttante, per assicurare le condizioni di sfruttamento, e soprattutto per mantenere colla forza, la classe sfruttata nelle condizioni di sottomissione (schiavitù, servaggio, salariato), che richiedeva il modo di produzione esistente… Dal momento che non esiste più classe da mantenere nell’oppressione, e dal momento che la dominazione dì classe e la lotta per l’esistenza individuale basata sul disordine della produzione, su le collisioni e su gli eccessi che ne derivano, sono spazzati via, e non c’è più nulla da reprimere, uno Stato diviene inutile… L’intervento dello Stato si verificherà inutile sopra ciascun terreno, l’un dopo l’altro; esso si estinguerà gradualmente. Il governo delle persone fa posto all’amministrazione delle cose e alla direzione dei processi di produzione. La Società libera non può tollerare l’esistenza di uno Stato fra sé e i suoi membri» (Engels, Socialismo Scientifico).
    Dunque abbasso lo Stato!

    E fu fino a questi ultimi anni il grido di tutti i marxisti, di tutti i socialisti che… non avevano, come Millerand, gustato le delizie dei fondi segreti, la ciambella dei 25 franchi al giorno, o, in mancanza ed in attesa di meglio, l’onore e la gloria della medaglietta.
    Leggete nel Catechisme Socialiste, edito a Bruxelles nel 1878 dal Kistemaekers, il processo che Guesde fa allo Stato, a tutte le forme dello Stato, quella socialista-democratica compresa, comparatelo colle sue attuali onorevolissime piroette di deputato e vedrete che ruzzoloni!
    «D. — Che cosa è lo Stato?
    R. — Lo Stato, che ha funzione essenziale, costitutiva di regolare i rapporti dei membri del corpo sociale e d’assicurare l’ordine nella società, è l’organo della legge.
    D. — Come esercita lo Stato la sua funzione e da chi è fatta la legge?
    R. — Da un solo individuo, prete o re, la cui volontà o capriccio sono sovrani, negli Stati teocratici o monarchici; da una minoranza, egualmente sovrana, negli Stati oligarchici od aristocratici; da una minoranza ancora negli Stati democratici, anche se la legge appare fatta da tutti.
    D. — Non sarebbe possibile modificare l’organo legislativo dello Stato in modo che la legge, opera di tutti realmente, rappresenti la volontà e salvaguardi l’interesse di tutti?
    R. — No…
    D. — Lo Stato, come fattore legislativo, è dunque sotto qualsiasi forma fatalmente oppressivo?
    R. — Sì. Qualunque legge possa emanare lo Stato sarà sempre oppressiva, necessariamente, della maggioranza o della minoranza…
    D. — Lo Stato, convinto dalla sua stessa costituzione di non saper dare che una legge arbitraria, parziale, violatrice dei diritti e degli interessi dell’uno o dell’altro… deve dunque essere soppresso?
    R. — Senz’alcun dubbio. Strumento di regno d’un individuo o d’una classe su altri individui o su altre classi, non potrà sfuggire ai colpi di coloro che aspirano all’eguaglianza sociale.
    D. — Ma può essere? È possibile ottenere una società senza Stato?
    R. — Sicuramente…».

    Si potrebbe continuare ma ce n’è d’avanzo.
    Abbasso lo Stato!

    Andrea Costa, tempra ferrea, un giorno, di lottatore, oggi più che da altro logorato da un’intima contraddizione tra la fede antica, a cui rinunciò pur credendovi ancora, e la nuova a cui si diede senza credervi mai, ebbe per lo Stato filippiche roventi di dialettica e di forza:
    «Io accetto — scriveva nel 1877 — che la proprietà debba appartenere alla società tutta quanta, ma non alla Società che ha per rappresentante e moderatore lo Stato, bensì alla società vera, al complesso di tutti gli uomini che hanno contribuita a produrla.
    Per ottenere tutto questo non solo non abbiamo bisogno dello Stato ma crediamo di non poterlo ottenere se non coll’abolizione dello Stato.
    Per noi lo Stato non ha avuto e non ha nella società che una parte negativa.
    Noi crediamo di ottenere migliori risultati senza mandare i nostri uomini al potere. I nostri compagni saranno col popolo, vivranno con esso, gli indicheranno, se volete, la via, pronunceranno la parola motrice ma non si imporranno al popolo. Otterremo così tutti i buoni risultati che voi otterreste coll’autorità senza averne i danni».
    Niente conquista dei pubblici poteri ma abolizione dello Stato!
    Abbasso lo Stato!

    Gabriel Déville ridotto a rimasticare ed a sputar bava sull’anarchismo e sugli anarchici, rimasti i soli irreconciliabili nemici dell’autorità e dello Stato, scriveva (pag. 16 e 17 del suo Aperçu sur le socialisme):
    «Non dobbiamo perfezionare lo Stato, dobbiamo sopprimerlo. Esso è l’organizzazione della classe sfruttatrice per garantire lo sfruttamento e tenere in soggezione gli sfruttati. Ora è uno sciagurato sistema per distruggere qualche cosa quello di cominciare a fortificarla e sarebbe aumentare la forza di resistenza dello Stato aiutarlo nell’accaparramento dei mezzi di produzione. Il compito del socialismo non ne trarrebbe facilitazione alcuna…».
    Lo Stato non si deve quindi riformare o rinnovellare, si deve sopprimere.
    Abbasso lo Stato!

    Anche Filippo Turati ebbe ai suoi bei dì, quando poteva sperar tutto fuorché di essere deputato, fulmini e saette contro lo Stato. Allora però, filosofando sull’ostracismo dì Aristide, plaudiva alla teoria estrema ma necessaria, alla rudezza con cui il Partito Operaio eliminava dal suo seno tutti coloro che non gemevano sotto la dipendenza del salario giornaliero.
    «Solo un borghese gretto e microcefalo può fraintendere, indignandosene, l’alto senso di opportuna reazione che vi è nella massima proclamata dai più giovani e radicali nuclei operai: l’emancipazione dei lavoratori opera dei soli lavoratori; esclusione delle società borghesi, degli avvocati, degli intriganti e dei tutori» — scriveva al Fascio Operaio, da Como nel luglio 1886. F. Turati già avvocato, ma non ancora deputato intrigante, né tutore di una serqua di organizzazioni operaie che addomestica ora con rabbia ministeriale al culto di Giolitti borseggiatore di banche e di Zanardelli emerito e recidivo fucilatore del proletariato italiano.
    Allora, commentando la Teoria Economica della costituzione Politica del Loria, s’indugiava dinnanzi al problema «se veramente lo Stato, come afferma sulle tracce di Marx e dei socialisti il prof. Achille Loria, non sia né possa mai essere altro in ogni tempo, e con e malgrado qualunque congegno di governo e di suffragio e di carte costituzionali, che il rappresentante e l’organo specifico delle classi possidenti per il miglior sfruttamento e l’oppressione delle classi inferiori».
    Ma allora era di moda. Anche i deputati pigliavano in burla il loro ufficio di legislatori, avevano accettato il mandato soltanto per l’immunità parlamentare e pel vantaggio di viaggiare a carico dei contribuenti, ma laggiù, a Montecitorio, che cosa avrebbero mai potuto fare?
    Musini s’accontentava di interrompere Depretis con qualche frequente e sincero boja d’un Sgnor! Costa gridava ancora il 18 marzo 1892 ai repubblicani di Perugia: «chi vi presenta il parlamentarismo monarchico, repubblicano o democratico come un mezzo di risolvere la questione sociale è un mistificatore o un illuso»; De Felice al primo Congresso socialista siciliano (27-28 maggio 1893) si scusava d’esser deputato e rivendicava l’onore d’essere il semplice rappresentante degli operai catanesi: «Ho accettato il mandato parlamentare soltanto come necessità di lotta e per essere libero nell’esplicazione del mio lavoro. Non ho mai creduto all’utilità dell’istituzione parlamentare»; Barbato, uscito dal reclusorio, respingeva sdegnosamente il mandato abbandonandolo ai ciarlatani, agli intriganti, agli ambiziosi.
    Abbasso lo Stato, abbasso il parlamento! Era di moda allora.

    Ora?
    Ora Engels e Marx sono vecchie reliquie buone tutt’al più come amuleti e come scongiuri, ai quali — come i marinai alla madonna del Carmine durante la tempesta — chieggono protezione contriti dei giovanili peccati sbarazzini gli istrioni della rivoluzione pacifica, civile e ventraiola: Bernstein e Bebel s’accapigliano intorno alla maggiore o minore opportunità di avere un posto alla presidenza del Parlamento e mentre il secondo nicchia, il primo insiste sulla necessità che il Vice-Presidente socialista visiti, occorrendo, Guglielmo II e gli sia grazioso.
    Guesde guarito dall’antica statofobia anarcoide crede nel suffragio universale, nel parlamento, nello Stato socialista, crede anche nello Stato borghese che, egli ne è ben certo, «presterà allo Stato collettivista qualcuno dei suoi congegni, la requisizione», magari, la «corvée per l’esecuzione dei lavori ripugnanti o penosi che nessuno volesse eseguire» (Seduta parlamentare, 25 giugno 1896).
    Ora Déville, che come Guesde riconosceva incorreggibile, inadattabile lo Stato ad alcuna onesta funzione e doversi perciò «distruggere non conquistare», ora comprendendo che l’affrancamento del proletariato deve essere opera d’una maggioranza cosciente, «rinnega gli scritti in cui ha manifestato la sua fiducia nell’efficacia della violenza e della forza brutale » (27 maggio 1896. Discorso al Ginnasio Pascaud). È un po’ più sfacciato ma è anche più spiccio.
    Ora Andrea Costa dall’abolizione dello Stato — condizione indispensabile all’emancipazione — è venuto a meno eretico consiglio: «Lo Stato è la borghesia organizzata? D’accordo. Ma perché è nelle mani della borghesia. Impadroniamocene noi, se ne impadroniscano gli operai ed invece di essere il nemico, com’è oggi, sarà leva potente a compiere la rivoluzione sociale». E dire che Andreino, prima d’essere onorevole non ci aveva pensato mai, anzi aveva pensato sempre il contrario!
    Ora Turati… Turati fa pietà, egli incolla sugli antichi panegirici di Bakunin, fioriti dalla sua giovinezza piena di entusiasmi e di esuberanze, le omelie al beato Giovanni Giolitti da Dronero, prevaricatore ed assassino, e sulle sue antiche diffidenze dello Stato, l’aspirazione mal celata ad un sottosegretariato al ministero delle poste e telegrafi.
    Ora Barbato, che rifiutava la medaglietta, passaporto agli intriganti ed ai ciarlatani, è tra questi anche lui del numero uno; le antiche e ribelli professioni di fede rivoluzionaria, i suoi antichi rimpianti «perché l’ora della insurrezione armata, fatale, non fosse ancora suonata» hanno ceduto il posto ad un desiderio di beato vivere e ad una valanga di sermoni frateschi intesi a dimostrare che «oggi abbiamo bisogno di accettare tutte le armi che i codici borghesi mettono a nostra disposizione per poter sviluppare nel proletariato una coscienza che sia in armonia colle forze produttive». Altro che insurrezione armata! I mezzi di lotta son medagliette, beghe e querele, ora!
    Allora erano socialisti e rivoluzionari, ora, alla greppia ed al parlamento, son borghesi e dei peggio conservatori.
    Mandateli lassù! Mandateli lassù investiti d’un mandato che s’intesse delle vostre abdicazioni e delle vostre rinunzie, i vostri compagni migliori, e prima che l’alba spunti, prima che il gallo canti, come Simone rinnegò Cristo, essi, i vostri compagni migliori avranno rinnegato l’ideale, venduto i fratelli, fucilati in nome dell’ordine e pei trionfi del capitale i figli della gleba, dell’officina e della miniera.
    Mandateli lassù!

    [Cronaca Sovversiva, 5 settembre 1903]

  • sergio falcone

    Appunti sulla soppressione dei partiti politici

    di Simone Weil

    I partiti sono organismi costituiti pubblicamente, ufficialmente in modo da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia.

    Il termine partito è preso in questo caso nel significato che ha sul continente europeo. Nei paesi anglosassoni questo termine sta ad indicare una realtà ben diversa, che ha la sua radice nella tradizione inglese e che non è quindi trapiantabile. Un secolo e mezzo di esperienze lo dimostra a sufficienza. C’è nei partiti anglosassoni un elemento di gioco, di sport, che non può esistere se non in una istituzione di origine aristocratica; tutto invece è serio in una istituzione che è plebea in partenza.
    La nozione di partito non faceva parte della concezione politica francese del 1789, fuor che come un male da evitare. Ci fu tuttavia il club dei Giacobini. Dapprima era solo un luogo di libere discussioni. Non fu alcuna specie di meccanismo fatale a trasformarlo: fu unicamente la pressione della guerra e della ghigliottina che ne fece un partito totalitario.
    Le lotte di fazione sotto il Terrore si svilupparono secondo il pensiero così ben formulato dal Tomski: “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione”. Sul continente europeo il totalitarismo è il peccato originale dei partiti.
    Per un verso rappresenta l’eredità del Terrore, per un altro verso l’influenza dell’esempio inglese, che introdusse i partiti nella vita pubblica europea. Il fatto però che essi esistono non è assolutamente un motivo per conservarli. Il bene soltanto è un motivo legittimo di conservazione. Il male dei partiti politici salta agli occhi. Il problema da esaminare consiste nel vedere se vi sia in essi un bene che abbia il sopravvento sul male e che renda pertanto desiderabile la loro esistenza.
    Cade tuttavia molto più a proposito domandarsi: vi è in essi una benché infinitesima parte di bene? Non sono essi un male allo stato puro o quasi? Se rappresentano un male, è chiaro che di fatto e nella pratica non possono produrre che del male. E’ un articolo di fede. “Un buon albero non può mai portare frutti cattivi, né un albero marcio dei frutti buoni”.
    Ma bisogna anzitutto capire qual è il criterio del bene. Questo non può essere che la verità, la giustizia, e, in secondo luogo, l’utilità pubblica.
    La democrazia, il potere della maggioranza non sono beni. Sono dei mezzi in vista del bene, a torto o a ragione ritenuti efficaci. Se, invece di Hitler, la Repubblica di Weimar avesse deciso attraverso le vie più rigorosamente legali e parlamentari di mettere gli Ebrei in campi di concentramento e di torturarli con raffinatezza fino alla morte, non avrebbero avuto un atomo di legittimità più di quanto non ne abbiano attualmente. Ora una tal cosa non è per niente inconcepibile.
    Solo ciò che è giusto è legittimo. Il delitto e la menzogna non lo sono mai.
    Il nostro ideale repubblicano deriva interamente dalla nozione di volontà generale dovuta a Rousseau. Ma il senso di questa nozione si è smarrito quasi subito, perché si tratta di una nozione complessa e richiede un grado di attenzione notevole.
    A parte alcuni capitoli, pochi libri sono belli, forti, lucidi e tersi come Il Contratto Sociale. Si dice che pochi libri hanno avuto altrettanta influenza. Ma di fatto tutto è avvenuto e ancora avviene come se non fosse mai stato letto.
    Rousseau partiva da due principi evidenti. L’uno che la ragione discerne e sceglie la giustizia e l’utilità innocua, e che ogni delitto ha per movente la passione. L’altro, che la ragione è identica in tutti gli uomini, mentre le passioni sono per lo più diverse. Per conseguenza, se su un problema generale ciascuno riflettesse solo ed esprimesse una opinione, e se le opinioni fossero in seguito confrontate fra di loro, probabilmente esse coinciderebbero per la parte giusta e ragionevole di ciascuno, e sarebbero differenti per quanto riguarda le ingiustizie e gli errori.
    E’ solo in virtù di un ragionamento di questo genere che si ammette che il consensus universale indichi la verità.
    La verità è una sola. La giustizia è una sola. Gli errori, le ingiustizie variano all’infinito. Parimenti gli uomini convergono nel giusto e nel vero, mentre la menzogna e il delitto li fanno indefinitamente divergere. Poiché l’unione è una forza materiale, è lecito sperare di trovare in essa un mezzo per rendere quaggiù la verità e la giustizia materialmente più forti che il delitto e l’errore.
    Ci vuole un meccanismo adatto. Se la democrazia è questo meccanismo è valida. Altrimenti no.
    Una volontà ingiusta comune a tutta la nazione non era per niente superiore agli occhi di Rousseau – ed era nel vero – alla volontà ingiusta di un solo uomo.
    Rousseau pensava però che una volontà comune a tutto un popolo era di fatto per lo più conforme alla giustizia per via della reciproca neutralizzazione e compensazione delle passioni particolari. In ciò stava per lui l’unico motivo di preferire la volontà del popolo a una volontà singola.
    Così avviene che una data massa d’acqua, benché composta di particelle che si muovono e si urtano senza posa, è perfettamente equilibrata e statica. Essa rimanda agli oggetti le loro immagini con una verità inoppugnabile. Essa indica perfettamente il piano orizzontale. Essa dice senza errore la densità degli oggetti che vi si immergono.
    Qualora individui passionali, portati dalla passione al delitto e alla menzogna, riescano a equilibrarsi in un popolo veridico e giusto, allora è bene che il popolo sia sovrano. Una costituzione democratica è buona se realizza anzitutto nel popolo questo stato di equilibrio, e se solo in seguito fa in modo che i voleri del popolo vengano eseguiti.
    Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa è giusta perché il popolo la vuole, ma che a certe condizioni il volere del popolo ha maggiori probabilità di qualsiasi altro volere di essere conforme alla giustizia.
    Vi sono parecchie condizioni indispensabili per poter applicare la nozione di volontà generale. Due particolarmente vanno tenute presenti.
    L’una è che nel momento in cui il popolo prende coscienza di uno dei suoi voleri e lo esprime, non vi sia alcuna specie di passione collettiva.
    E’ chiaro che per il solo fatto che vi sia passione collettiva il ragionamento di Rousseau cade. Rousseau lo sapeva. La passione collettiva è un impulso al delitto e alla menzogna infinitamente più potente di qualsiasi passione individuale. Gli impulsi cattivi, in questo caso lungi dal neutralizzarsi, si elevano reciprocamente alla millesima potenza. La pressione diventa quasi irresistibile, fuorché per gli autentici santi.
    Una massa d’acqua movimentata da una corrente violenta, impetuosa, non riflette più gli oggetti, non è più una superficie orizzontale, non indica più le densità. E non ha importanza che sia mossa da una sola corrente o da cinque o sei correnti che si urtino e che provochino dei gorghi. In ambedue i casi è ugualmente agitata.
    Se una sola passione collettiva afferra tutto un paese, il paese intero è unanime nel delitto. Se due o quattro o cinque o dieci passioni collettive lo dividono, esso è diviso in parecchie bande di criminali. Le passioni divergenti non si neutralizzano come avviene per una polvere di passioni individuali fuse in una massa; il numero è molto piccolo, è troppo piccolo, la forza di ciascuna è troppo grande, perché possa avere luogo la neutralizzazione. La lotta le esaspera. Esse cozzano con un frastuono veramente infernale, e che rende impossibile udire anche solo per un secondo la voce della giustizia e della verità, quasi sempre impercettibile.
    Quando in una nazione vi è passione collettiva è probabile che non importa quale volontà singola sia più vicina alla giustizia e alla ragione che la volontà generale o piuttosto di ciò che ne costituisce la caricatura.
    La seconda condizione è che il popolo possa esprimere il suo volere rispetto ai problemi della vita pubblica e non fare soltanto una scelta di persone. Ancora meno una scelta di collettività irresponsabili. Poiché la volontà generale non ha alcuna relazione con una tale scelta.
    Se nel 1789 ebbe luogo una certa espressione della volontà generale, benché si fosse adottato il sistema rappresentativo non sapendone immaginare un altro, ciò avvenne perché ci furono ben altro che delle elezioni. Tutto ciò che vi era di vivo nel Paese – e il Paese a quel tempo traboccava di vita – aveva cercato di esprimere un pensiero valendosi dei quaderni di rivendicazione. I rappresentanti si erano in gran parte fatti conoscere nel corso di cooperazione nel pensiero; ne conservavano il calore; sentivano il Paese attento alle loro parole, geloso di sorvegliare se esse traducevano esattamente le sue aspirazioni. Per qualche tempo – breve tempo – essi furono veramente semplici organi di espressione al servizio del pensiero pubblico.
    Un fatto simile non ebbe mai più luogo.
    La semplice enunciazione di queste due condizioni dimostra che non abbiamo mai conosciuto niente che assomigli anche di lontano a una democrazia. In ciò che chiamiamo con questo nome, il popolo non ha né l’occasione, né il mezzo di esprimere qualche parere su problemi della vita pubblica; e tutto ciò che sfugge agli interessi dei singoli è lasciato alle passioni collettive, le quali vengono sistematicamente e ufficialmente incoraggiate.
    Lo stesso uso dei termini democrazia e repubblica obbliga a esaminare con attenzione estrema i due seguenti problemi:
    – come dare di fatto agli uomini che compongono il popolo di Francia la possibilità di esprimere talvolta un giudizio sui grandi problemi della vita pubblica?
    – Come impedire nel momento in cui il popolo è interrogato, che circoli in mezzo a lui qualche specie di passione collettiva?
    Se non si pensa a questi due punti, è inutile parlare di legittimità repubblicana.
    Non è facile immaginare delle soluzioni. Ma è evidente, dopo un attento esame, che ogni soluzione implicherebbe anzitutto la soppressione dei partiti politici.
    Per giudicare i partiti politici secondo il criterio della verità, della giustizia, del bene pubblico, conviene cominciare col fissarne i caratteri essenziali.
    Se ne possono stabilire tre:
    – un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva.
    – Un partito politico è un’organizzazione costituita in modo da esercitare una oppressione collettiva sul pensiero di ciascuno degli esseri umani che ne sono membri.
    – Il primo scopo e, in ultima analisi l’unico scopo di ogni partito politico, è il suo potenziamento, e ciò senza alcun limite.
    In grazia di questo triplice carattere, ogni partito è totalitario in germe e come aspirazione. Se non è tale di fatto, è solo perchè quelli che lo circondano non lo sono meno di lui.
    Queste tre caratteristiche sono verità di palmare evidenza per chiunque si è accostato alla vita dei partiti.
    La terza caratteristica è il caso particolare di un fenomeno che si verifica là dove il collettivo domina gli esseri pensanti. E’ il rovesciamento della relazione tra fine e mezzo. Ovunque, e senza eccezione, tutte le cose generalmente considerate come dei fini sono per natura, per definizione, per essenza e nel modo più evidente unicamente dei mezzi. Si potrebbero citare tanti esempi quanti si vuole in tutti i campi. Denaro, potere, Stato, grandezza nazionale, produzione economica, diplomi universitari, e così via.
    Solo il bene è un fine. Tutto ciò che appartiene al dominio dei fatti rientra nell’ordine dei mezzi. Ma il pensiero collettivo è incapace di elevarsi al di sopra del dominio dei fatti. E’ un pensiero animale. Non ha la nozione del bene che in misura a mala pena sufficiente per commettere l’errore di scambiare questo o quel mezzo per un bene assoluto.
    La stessa cosa avviene per i partiti. In linea di principio il partito è uno strumento al servizio di una certa concezione del bene pubblico.
    Ciò è vero anche per quelli che sono legati agli interessi di una categoria sociale, poiché si tratta sempre di una certa concezione del bene pubblico in virtù della quale vi sarebbe coincidenza tra il bene pubblico e quegli interessi. Ma questa concezione è estremamente vaga. Ciò è vero senza eccezione e quasi senza differenza di grado. I partiti più deboli e i partiti più fortemente organizzati si equivalgono quanto alla indeterminatezza della dottrina. Nessuno, per quanto abbia profondamente studiato la politica, riuscirebbe a esporre in modo chiaro e preciso la dottrina di alcun partito, ivi compreso, dandosi il caso, il suo.
    Ciò non lo confessiamo volentieri neppure a noi stessi. Se ce lo confessassimo, saremmo ingenuamente tentati di vederci il segno di una incapacità personale, non riuscendo a capire che l’espressione: “Dottrina di un partito politico” non può mai, data la natura delle cose, avere alcun significato.
    Anche se trascorresse tutta la sua vita a scrivere e a esaminare problemi ideologici, un uomo non ha che molto raramente una dottrina. Una collettività non ne ha mai. Non è merce collettiva.
    È vero, si può parlare di dottrina cristiana, dottrina indù, dottrina pitagorica, e così via. Ciò che allora si indica con questo termine non è né individuale né collettivo; è una cosa situata infinitamente al di sopra dell’uno o dell’altro campo. È, puramente e semplicemente, la verità.
    Il fine di un partito politico è cosa vaga e irreale. Se fosse reale esigerebbe un grandissimo sforzo di attenzione, poiché una concezione del bene pubblico non è cosa facile da pensare. L’esistenza del partito è palpabile, evidente, e non esige nessun sforzo per essere ammessa. Riesce pertanto inevitabile che di fatto il partito diventi fine a se stesso.
    Già in questo vi è della idolatria, poiché Dio solo è un fine legittimo per se stesso.
    Il passaggio è facile. Basta porre come assioma che la condizione necessaria e sufficiente affinché il partito serva efficacemente la concezione del bene pubblico in vista del quale esiste è che abbia una larga porzione di potere.
    Tuttavia nessuna quantità finita di potere può di fatto essere ritenuta sufficiente, soprattutto allorché è stata ottenuta. In seguito all’assenza di pensiero, il partito si trova praticamente in un costante stato di impotenza che esso attribuisce sempre all’insufficienza di potere di cui dispone. In realtà, fosse pure padrone assoluto del Paese, le esigenze internazionali impongono limiti ben definiti.
    La tendenza essenziale dei partiti è totalitaria non soltanto rispetto a una nazione, ma rispetto al globo terrestre. Appunto perché la concezione del bene pubblico, caratteristica di questo o di quel partito, è una finzione, una cosa vuota e senza realtà si impone la ricerca della potenza totale. Ogni realtà implica di per sé un limite. Ciò che invece semplicemente non esiste non è mai limitabile.
    Per questo si dà alleanza e parentela fra il totalitarismo e la menzogna.
    Molti, è vero, generalmente non pensano a una potenza totale; questo pensiero farebbe loro paura. È un pensiero vertiginoso e occorre una specie di grandezza d’animo per sostenerlo. Costoro, quando si interessano di un partito, si contentano di desiderarne lo sviluppo; lo fanno però come una cosa che non comporti alcun limite. Se quest’anno vi sono tre iscritti più che l’anno scorso, oppure se la colletta ha dato 100 franchi in più, sono contenti. Ma desiderano che ciò continui indefinitamente nella stessa direzione. Essi non concepirebbero che il loro partito potesse avere in qualche caso troppi iscritti, troppi elettori, troppi mezzi.
    Il temperamento rivoluzionario porta a concepire la totalità. Il temperamento piccolo-borghese porta ad acclimatarsi nell’immagine di un progresso lento, continuo e illimitato. Ma nei due casi lo sviluppo materiale del partito diventa l’unico criterio rispetto al quale si definiscono in tutte le cose il bene e il male. Precisamente come se il partito fosse un animale da ingrassare, e l’universo fosse stato creato per ingrassarlo.
    Non si può servire Dio e Mammona. Qualora si abbia un criterio del bene diverso dal bene, si perde la nozione del bene.
    Dal fatto che lo sviluppo del partito costituisce un criterio del bene, deriva inevitabilmente una pressione collettiva del partito sul pensiero degli uomini. Questa pressione si esercita di fatto. Si rivela pubblicamente. È confessata, proclamata. Tutto questo ci farebbe orrore se l’abitudine non ci avesse straordinariamente accecati.
    I partiti sono organismi costituiti pubblicamente, ufficialmente in modo da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia.
    La pressione collettiva viene esercitata sul grande pubblico attraverso la propaganda. Lo scopo confessato dalla propaganda è di persuadere, non di comunicare maggior luce. Hitler aveva compreso benissimo che la propaganda è sempre un tentativo di asservire gli spiriti. Tutti i partiti fanno propaganda. Quello che non ne facesse sparirebbe per il fatto che gli altri ne fanno. Tutti confessano che fanno della propaganda. Nessuno ha tanto coraggio nella menzogna al punto da affermare che si interessa dell’educazione del pubblico, che lavora per formare il giudizio del popolo.
    I partiti parlano, è vero, di educazione rispetto a coloro che sono venuti ad essi, simpatizzanti, giovani, nuovi iscritti. Questa parola è una menzogna. Si tratta di una preparazione per portare a compimento il dominio ben più rigoroso esercitato dal partito sul pensiero dei suoi membri.
    Supponiamo che l’iscritto di un partito – deputato, candidato alla Camera, o semplicemente militante – prenda pubblicamente il seguente impegno: “Ogni qualvolta esaminerò non importa quale problema politico o sociale, mi impegno a dimenticare assolutamente il fatto che io sono membro di questo gruppo e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia”.
    Questo linguaggio suonerebbe molto male. I suoi e anche molti altri lo accuserebbero di tradimento. I meno ostili direbbero: “E allora perché si è iscritto a un partito?”, confessando così ingenuamente che entrando in un partito si rinuncia a cercare unicamente il bene comune e la giustizia. Quest’uomo verrebbe espulso dal suo partito, o almeno ne perderebbe l’investitura; non sarebbe certamente eletto.
    Ma, ciò che è più grave, non sembra neppure possibile che queste cose vengano dette. Di fatto, salvo errore, non sono mai state dette. Se sono state pronunciate delle parole apparentemente simili a quelle, era soltanto in virtù di uomini desiderosi di governare con appoggio di partiti diversi dal loro. Parole di questo genere suonavano allora come una specie di mancanza alla parola data.
    Per converso sembra molto naturale, ragionevole e onorevole che qualcuno dica: “Come conservatore”, oppure: “Come socialista io penso che …”.
    Questo, è vero, non è caratteristico solo dei partiti. Non ci si vergogna per esempio di dire: “Come francese, io penso che …”, “Come cattolico, io penso che …”.
    Alcune ragazze che si dicevano attaccate al gollismo, come all’equivalente francese dell’hitlerismo, aggiungevano: “La verità è relativa, anche in geometria”. Toccavano con ciò il nòcciolo della questione.
    Se non vi è verità, è legittimo pensare in questo o in quel modo in quanto si è di fatto questa o quella cosa. Come si hanno capelli neri, bruni, rossi o biondi, poiché si è tali, si esprimono questi o quei pensieri. Il pensiero, come i capelli, diventa allora il prodotto di un processo fisico di eliminazione.
    Se invece si riconosce che vi è una sola verità, non è lecito pensare se non ciò che è vero. Si pensa allora questa data cosa, non perché si è di fatto francese, o cattolico, o socialista, ma perché la luce irresistibile dell’evidenza obbliga a pensare così e non altrimenti.
    Se non vi è evidenza e ha luogo il dubbio, è chiaro che nello stato di conoscenza di cui si dispone, la questione è dubbiosa. Se vi è una debole probabilità, è evidente che vi è una debole probabilità; e così via. In ogni caso la luce interiore accorda sempre a chiunque la consulti una risposta chiara. E il contenuto della risposta è più o meno affermativo; poco importa. Esso è sempre suscettibile di revisione; ma nessuna correzione può essere apportata se non attraverso un accrescimento di luce interiore.
    Se un uomo, iscritto ad un partito, è assolutamente deciso a non essere fedele in tutti i suoi pensieri che alla luce interiore esclusivamente e a niente altro, non può far conoscere questa risoluzione al suo partito. Di fronte ad esso è in stato di menzogna.
    Tale situazione non può essere accettata se non in vista della necessità che costringe a trovarsi in un partito per partecipare efficacemente alla vita pubblica. Ma allora questa necessità è un male, e occorre mettervi fine, sopprimendo i partiti.
    Un che non ha deciso di essere esclusivamente fedele alla luce interiore stabilisce la menzogna nel centro stesso dell’anima. Le tenebre interiori ne sono la punizione. Invano si cercherebbe di tirarsi fuori distinguendo fra libertà interiore e indisciplina esteriore poiché bisognerebbe in questo caso mentire al pubblico verso il quale ogni candidato, ogni eletto ha un obbligo particolare di verità.
    Se mi appresto a dire in nome del mio partito cose che stimo contrarie alla verità e alla giustizia, posso dirlo in una avvertenza preliminare? Se non lo faccio, mento. Di queste tre forme di menzogna – verso il partito, verso il pubblico, verso se stesso – la prima è di gran lunga la meno cattiva. Se però l’appartenenza a un partito costringe sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente un male.
    Capitava sovente di vedere negli avvisi di assemblee: il Sig. X … esporrà il punto di vista comunista (sul problema in oggetto). Il Sig. Y … esporrà il punto di vista socialista. Il Sig. Z … esporrà il punto di vista radicale.
    In che modo questi infelici potevano conoscere il punto di vista che dovevano esporre? Chi potevano essi consultare? Quale oracolo? Una collettività non ha lingua ne penna. Gli organi di espressione sono tutti individuali. La collettività socialista non risiede in alcun individuo. Così la collettività radicale. La collettività comunista risiede in Stalin, ma egli è lontano; non si può telefonargli prima di parlare in una riunione.
    No, i signori X …, Y …, Z … consultavano se stessi. Ma siccome erano onesti, si mettevano dapprima in uno stato mentale particolare, in uno stato simile a quello in cui li aveva posti così sovente l’atmosfera degli ambienti socialisti, comunisti, radicali.
    Posti in questo stato mentale, se ci si lascia andare alle proprie relazioni si produce naturalmente un linguaggio conforme ai “punti di vista” comunista, socialista, radicale.
    A condizione, beninteso, di proibirsi rigorosamente ogni sforzo di attenzione per scoprire la giustizia e la verità. Se un tale sforzo venisse compiuto si rischierebbe – orrore! – di esprimere un “punto di vista personale”.
    Oggi infatti si pensa che la tensione verso la giustizia e la verità corrispondono ad un punto di vista personale.
    Quando Ponzio Pilato ha domandato al Cristo: “Che cos’è la verità?” il Cristo non ha risposto. Egli aveva già risposto dicendo: “Io sono venuto a portare testimonianza della verità”.
    Non vi è che una risposta. La verità sono i pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante desiderosa totalmente, esclusivamente della verità.
    La menzogna, l’errore – termini equivalenti – sono i pensieri di coloro che non desiderano la verità, e di coloro che desiderano la verità più qualche altra cosa. Per esempio, che desiderano la verità e in più la conformità con questo o con quel pensiero stabilito.
    Ma come desiderare la verità senza sapere niente di essa? Questo è il mistero dei misteri. Le parole che esprimono una perfezione inconcepibile per l’uomo – Dio, verità, giustizia – pronunciate interiormente con desiderio, senza essere unite con alcuna concezione particolare, hanno il potere di elevare l’anima e di inondarla di luce.
    Desiderando la verità a vuoto e senza tentare di indovinarne in anticipo il contenuto si riceve la luce. In ciò consiste dunque il meccanismo dell’attenzione.
    È impossibile esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica badando contemporaneamente da una parte a discernere la verità, la giustizia, il bene pubblico, dall’altra a conservare l’atteggiamento che conviene al membro di un tale raggruppamento. La facoltà umana dell’attenzione non è capace di due prestazioni simultanee. Di fatto, chiunque sceglie all’una, abbandona l’altra.
    Ma nessuna sofferenza attende colui che abbandona la giustizia e la verità. Mentre il sistema dei partiti implica le penalità più dolorose per gli indocili, si tratta di penalità che toccano quasi tutto -–la carriera, i sentimenti, l’amicizia, la stima, la parte esteriore dell’onore, talvolta persino la vita familiare. Il partito comunista ha portato il sistema alla perfezione.
    Anche per colui che non cede interiormente, l’esistenza di penalità falsa inevitabilmente il discernimento. Poiché se egli vuole reagire contro l’invadenza del partito, questa volontà di reazione è un movente estraneo alla verità, del quale bisogna diffidare. Ma questa stessa diffidenza è estranea alla verità; e così via. La vera attenzione è uno stato talmente difficile per l’uomo, talmente violento che ogni turbamento personale della sensibilità è sufficiente a ostacolarla. Ne deriva l’obbligo imperioso di proteggere per quanto possibile la facoltà del discernimento che portiamo in noi stessi contro il tumulto delle speranze e dei timori personali. Se un uomo dovesse fare dei calcoli numerici molto complessi sapendo di venire frustato ogni qualvolta ottiene come risultato un numero pari, la sua situazione sarebbe difficilissima. Qualche cosa nella parte carnale dell’anima lo spingerà a dare un piccolo colpo di pollice ai calcoli per ottenere sempre un numero dispari. Volendo reagire correrà il rischio di trovare un numero pari anche là dove non ci vuole. Presa in questo moto oscillatorio, la sua attenzione non è più integra. Se i calcoli sono complessi, tanto da esigere da parte sua la pienezza dell’attenzione, è inevitabile che sbagli sovente. Non gli servirà a nulla essere molto intelligente, molto coraggioso, amantissimo della verità.
    Che deve fare? È molto semplice. Se può scappare dalle mani di coloro che lo minacciano con la frusta, deve scappare. Se ha potuto evitare di cadere fra le loro mani, doveva evitarlo.
    Avviene esattamente la stessa cosa per i partiti politici.
    Quando vi sono in un paese dei partiti, ne deriva presto o tardi uno stato di fatto tale da rendere impossibile un efficace intervento nella vita pubblica senza entrare in un partito e fare la propria parte. Chiunque si interessi della cosa pubblica desidera interessarsene efficacemente. Pertanto coloro che tendono ad interessarsi del bene pubblico o rinunciano a pensarci e si volgono ad altro, oppure passano attraverso il laminatoio dei partiti. In questo caso sorgono in essi delle preoccupazioni, che escludono quelle per il bene pubblico.
    I partiti sono un formidabile meccanismo, in virtù del quale, in un’intera nazione, non vi è un solo spirito che presti tutta la sua attenzione allo sforzo di discernere nella vita pubblica il bene, la giustizia, la verità.
    Ne deriva che – salvo un piccolissimo numero di coincidenze fortuite – non vengono decise ed eseguite che misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità.
    Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non potrebbe immaginare nulla di più ingegnoso.
    Se la realtà è stato un po’ meno oscura, è perché i partiti non avevano ancora divorato tutto. Ma di fatto, è stata essa un po’ meno oscura? Non era essa così oscura come nel quadro qui rapidamente abbozzato? Gli avvenimenti non l’hanno forse dimostrato?
    Bisogna confessare che il meccanismo si oppressione spirituale e mentale e proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla Chiesa cattolica nella sua lotta contro l’eresia.
    Un convertito che entra nella Chiesa – o un fedele che decide e risolve di restarci – ha visto nel dogma una parte di vero e di bene. Ma varcando la soglia egli professa nello stesso tempo di non essere colpito dagli anathema sit, vale a dire professa di accettare in blocco tutti gli articoli detti “di fede stretta”. Questi articoli non li ha studiati. Pur con un alto grado di intelligenza e di cultura una vita intera non basterebbe per questo studio, poiché implica lo studio delle circostanze storiche di ogni condanna.
    Come si può aderire a delle affermazioni che non si conoscono? È sufficiente sottomettersi incondizionatamente all’autorità da cui esse promanano.
    Per questo San Tommaso non volle corroborare le sue asserzioni se non con l’autorità della Chiesa, escludendo ogni altro argomento. Poiché, egli afferma, non ne occorrono altri per coloro che l’accettano; e nessun argomento potrebbe persuadere coloro che la rifiutano.
    Così la luce interiore dell’evidenza, questa facoltà di discernimento accordata dall’alto all’animo umano come risposta al desiderio di verità, è messa da parte, condannata ai compiti servili, destinata a fare delle addizioni, esclusa da tutte le ricerche relative al destino spirituale dell’uomo. Il movente del pensiero non è più il desiderio incondizionato, non definito della verità, ma il desiderio della conformità con un insegnamento prestabilito.
    Che la Chiesa fondata dal Cristo abbia in tal modo e in così larga misura soffocato lo spirito di verità – e se non l’ha fatto completamente, nonostante l’Inquisizione, si deve al fatto che la mistica offriva un rifugio sicuro – è una tragica ironia. Ciò è stato sovente rilevato. È stato però meno sovente osservata un’altra tragica ironia. Il movimento di rivolta contro il soffocamento dello spirito sotto il regime delle inquisizioni ha preso un orientamento tale da proseguire l’opera di soffocamento degli spiriti.
    La riforma e l’umanesimo della rinascenza, duplice prodotto di questa rivolta, hanno largamente contribuito a suscitare, dopo tre secoli di maturazione, lo spirito del 1789. Dopo un certo tempo, il risultato è stato la nostra democrazia fondata sul gioco dei partiti, di cui ciascuno è una piccola chiesa profana armata della minaccia di scomunica. L’influenza dei partiti ha contaminato tutta la vita mentale della nostra epoca.
    Un uomo che aderisce ad un partito ha scorto probabilmente nell’azione e nella propaganda di questo partito cose che gli sono sembrate giuste e buone. Egli però non ha mai studiato la posizione del partito rispetto a tutti i problemi della vita pubblica. Entrando nel partito, accetta posizioni che ignora. Sottomette così il suo pensiero all’autorità del partito. Quando a poco a poco conoscerà quelle posizioni, le ammetterà senza esaminarle.
    È esattamente la situazione di colui che aderisce all’ortodossia cattolica intesa secondo San Tommaso.
    Se un uomo dicesse, chiedendo la tessera di iscrizione: “Sono d’accordo con il partito su questo e quel punto. Non ho ancora studiato le altre posizioni e sospendo interamente il mio giudizio fino a che non le avrò studiate”, lo si pregherebbe certamente di ripassare più tardi.
    Di fatto però, salvo eccezioni molto rare, colui che entra in un partito assume docilmente l’atteggiamento spirituale che esprimerà più tardi con le parole: “Come monarchico, come socialista, penso che …”. È così comodo! Poiché significa non pensare. Non vi è nulla di più comodo che non pensare.
    Per quanto riguarda la terza caratteristica dei partiti, cioè che sono delle macchine per fabbricare passione collettiva, è tanto evidente che è il caso di insistere. La passione collettiva è l’unica energia di cui dispongono i partiti per la propaganda esterna e per la pressione esercitata sull’anima di ogni iscritto.
    Si ammette che lo spirito di parte accieca, rende sordi alla giustizia, spinge persino delle persone oneste all’accanimento più crudele contro gli innocenti. Lo si ammette, ma non si pensa a sopprimere gli organismi che fabbricano un tale spirito.
    Ciò nonostante si proibiscono gli stupefacenti.
    Vi sono tuttavia delle persone che fanno uso di stupefacenti. Ma ve ne sarebbero certamente di più se lo Stato organizzasse la vendita dell’oppio e della cocaina in tutte le tabaccherie, con manifesti pubblicitari per incoraggiare i consumatori.
    La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra costituire un male quasi allo stato puro. Sono cattivi nel loro principio e cattivi sono i loro effetti pratici.
    La soppressione dei partiti rappresenterebbe un bene quasi assoluto. Essa è evidentemente legittima in linea di principio e praticamente non potrebbe produrre che effetti positivi.
    I candidati direbbero agli elettori non: “Ho questa etichetta” – ciò che praticamente non dice rigorosamente nulla al pubblico sul loro atteggiamento concreto rispetto ai problemi concreti – bensì: “Io penso questo o quello rispetto a questo o a quel grande problema”.
    Gli eletti si assocerebbero o si dissocerebbero secondo il gioco naturale e mobile delle affinità. Io posso benissimo essere d’accordo con il Signor A … sulla colonizzazione e in disaccordo sulla proprietà contadina; e viceversa con il Signor B … Se si tratta di colonizzazione prima della seduta andrò a parlare un poco con il Signor A; se invece si tratta di proprietà contadina, con il Signor B.
    La cristallizzazione artificiale in partiti ha coinciso così poco con le affinità reali che un deputato poteva essere in disaccordo, rispetto a tutti gli atteggiamenti concreti, con un suo compagno di partito e d’accordo invece con un uomo di un altro partito.
    Quante volte in Germania, nel 1932, un comunista e un nazista discutendo per strada sono stati colpiti da vertigine mentale constatando che erano d’accordo su tutti i punti!
    Fuori del Parlamento, poiché vi sarebbero delle riviste di idee, molto logicamente si formerebbero intorno ad esse degli ambienti. Questi ambienti dovrebbero però mantenersi allo stato fluido. È la fluidità che distingue dal partito un ambiente di affinità e gli impedisce di avere un’influenza negativa. Quando si frequenta amichevolmente colui che dirige tale rivista, coloro che vi scrivono sovente, quando vi si scrive personalmente, si sa di essere in contatto con l’ambiente di quella rivista. Non si sa però se si è legati ad essa; non vi è distinzione netta fra il dentro e il fuori. Più lontano vi sono coloro che leggono la rivista e conoscono uno o due di quelli che vi scrivono. Più lontano, i lettori regolari che vi traggono un’ispirazione. Ancora più lontano, i lettori occasionali. Ma nessuno si sognerebbe di pensare o di dire: “In quanto legato a questa rivista, io penso che …”.
    Allorché alcuni collaboratori di una rivista si presentano alle elezioni, dovrebbe loro esser proibito di valersi della rivista. Dovrebbe venire proibito alla rivista di dare loro un’investitura, oppure di aiutare direttamente o indirettamente la loro candidatura o anche solo di ricordarli.
    Dovrebbe venire impedito il formarsi di qualsiasi gruppo di “amici” di questa rivista.
    Se una rivista impedisse ai suoi collaboratori sotto pena di rottura, di collaborare ad altre pubblicazioni quali che siano, dovrebbe venire soppressa non appena il fatto fosse provato.
    Ciò implica un regime della stampa che rende impossibile le pubblicazioni alle quali è sconveniente collaborare.
    Ogni qualvolta un ambiente tentasse di cristallizzarsi, conferendo un carattere definito alla qualità di membro, avrebbe luogo una repressione penale qualora il fatto venisse dimostrato. Vi sarebbero, beninteso, dei partiti clandestini. Ma i loro iscritti avrebbero la coscienza cattiva. Non potrebbero più fare professione pubblica di servilismo spirituale, non potrebbero fare nessuna propaganda in nome del partito. Il partito non potrebbe più tenerli in una rete senza uscita di interessi, di sentimenti e di costrizioni morali.
    Ogni qualvolta una legge è imparziale, equa e fondata su una concezione del bene pubblico facilmente assimilabile dal popolo, essa indebolisce tutto ciò che proibisce. Indebolisce per il fatto solo che esiste e indipendentemente dalle misure repressive che cercano di assicurarne l’applicazione.
    Questa maestà intrinseca della legge è un fattore della vita pubblica da tempo dimenticato, di cui bisogna valersi.
    Sembra che nell’esistenza di partiti clandestini non vi sia alcun inconveniente che non si trovi di fatto in un grado ben più elevato nei partiti legali.
    In generale, sia pure dopo un attento esame, pare che a nessuno sguardo sia dato di scorgere nessun inconveniente di nessuna specie, derivante dalla soppressione dei partiti.
    Per un singolare paradosso le misure di questo genere, che sono senza inconvenienti, sono di fatto quelle che hanno le minori probabilità di venire decise. Si dice: se fosse così semplice, perché ciò non sarebbe stato fatto da tempo?
    Tuttavia le grandi cose sono per lo più facili e semplici. La misura di cui discorriamo estenderebbe la sua virtù risanatrice molto al di là della vita pubblica, poiché lo spirito di partito è giunto a contaminare ogni cosa.
    Le istituzioni che determinano il gioco della vita pubblica influenzano sempre in un Paese la totalità del pensiero, per via del prestigio del potere.
    Si è giunti, in tutti i campi, a non pensare quasi più se non prendendo posizioni “per” oppure “contro” una opinione. In seguito si cercano argomenti a seconda dei casi a favore oppure contro. È esattamente la trasposizione dell’adesione a un partito.
    Come nei partiti politici vi sono dei democratici che ammettono parecchi partiti, così nel dominio delle opinioni le persone di larghe vedute riconoscono un valore alle opinioni con cui si dicono non d’accordo.
    Ciò significa avere completamente smarrito persino il senso del vero e del falso.
    Altri, avendo preso posizioni a favore di un’opinione, non vogliono esaminare niente che sia a quella contraria. È la trasposizione dello spirito totalitario.
    Quando Einstein venne in Francia, tutte le persone degli ambienti più o meno intellettuali, ivi compresi gli stessi scienziati, si divisero in due campi, a favore e contro. Ogni pensiero scientifico nuovo recluta negli ambienti scientifici i suoi partigiani e i suoi avversari, tutti animati in buona misura dallo spirito di partito. Vi sono d’altronde in questi ambienti delle tendenze, delle critiche allo stato più o meno cristallizzato.
    Nell’arte e nella letteratura è ancora più visibile. Cubismo e surrealismo sono stati una sorta di partito. Si era “gidiani” come si era “maurassiani”. Per farsi un nome, giova essere circondato da una banda di ammiratori animati da spirito di partito.
    E neppure vi era grande differenza tra l’attaccamento a un partito e l’attaccamento a una Chiesa oppure all’atteggiamento antireligioso. Si era per o contro la credenza in Dio, per o contro il Cristianesimo, e così via. Si è giunti, in fatto di religione, a parlare di militanti.
    Persino nelle scuole non si sa più stimolare in altro modo il pensiero dei ragazzi se non invitandoli a prendere posizione per o contro. Si cita la frase di un autore celebre e si dice loro: “Siete d’accordo o no? Spiegati i vostri argomenti”. All’esame gli infelici, dovendo finire il loro componimento in tre ore, non possono lasciare passare più di cinque minuti per domandarsi se sono d’accordo. E sarebbe invece così facile dire loro: “Meditate questa frase ed esprimete le riflessioni che vi vengono alla mente”.
    Quasi ovunque – e spesso anche a proposito di problemi puramente tecnici – l’operazione del prendere partito, del prendere posizione a favore o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero.
    Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici e si è allargata a tutto il Paese fino ad intaccare la quasi totalità del pensiero.
    Dubitiamo che sia possibile rimediare a questa lebbra, che ci uccide, senza cominciare con la soppressione dei partiti politici.

  • sergio falcone

    Dialogo

    Gentile Sig. Falcone,

    mi spiace non abbia colto per intero lo sforzo di quanti, prevalentemente giovani e giovanissimi, si sono adoperati nelle ultime settimane per informare e stimolare i cittadini del nostro quartiere rispetto al voto europeo: un momento importante per le democrazie di gran parte del continente.

    Rispetto la Sua scelta di voler essere “lasciato in pace” anche se non credo che una breve lettera e del materiale che La informa brevemente sull’impegno di quanti spendono il loro tempo e le loro energie intellettuali e professionali all’interno delle istituzioni pubbliche e partiti politici abbia potuto provocarLe gravi distrazioni.
    Tanto più che quei giovani che Le hanno recapitato il materiale non sono “pagati due lire”, ma non sono affatto retribuiti essendo volontari – come me e come tutti coloro i quali operano nel nostro quartiere riunendosi in questa Sezione di partito. Quei ragazzi hanno dedicato gratuitamente il loro tempo per scriverLe, per ripiegare la Sua e altre migliaia di lettere, per raggiungere la Sua casa e ogni strada da Colli Albani alle mura aureliane, per recapitarLe una missiva e per imbucala una ad una nelle caselle di posta di migliaia di concittadini così da consentire a chi ha meno tempo e possibilità di avere comunque strumenti di informazione e occasioni di confronto – proprio come in fondo sta avvenendo grazie alla corrispondenza diretta che Lei stesso ha ritenuto di avviare scrivendoci. Si tratta di una ricchezza di impegno e passione per la cosa pubblica che bisogna apprezzare, tanto più in questi anni di decadimento civico e di svilimento delle passioni collettive.

    La Sua personale scelta di non votare mi spiace, tanto più che il nostro impegno – certamente parziale, non risolutivo, soggetto ad errori – è l’unica speranza che intravedo per uscire dal “contesto degradato” che Lei descrive.

    Non mi dilungo in troppe “chiacchiere”, ma La invito a venire a conoscere la “burocrazia di partito” cui accenna: potrà verificare che malgrado i mezzi scarsi e le tante difficoltà di contesto il nostro impegno è una partigianeria attiva che spera di convincere anche gli astensionisti a tornare fiduciosi e ad attivarsi direttamente per cambiare le sorti di questo nostro Paese partendo dal nostro quartiere.

    Quanto alle Sue osservazioni di merito sul liberalesimo, conoscendoci potrebbe apprendere di avere maggiore consenso tra di noi di quanto Lei stesso possa immaginare.

    In ultimo, invitandoLa a venirci a trovare in Via La Spezia, 79 nei giorni e negli orari indicati nella lettera che ha ricevuto, non posso garantirLe che potremo lasciarLa in pace poichè il nostro obiettivo e il nostro impegno è di cambiare gli altri cambiando noi: probabilmente non abbiamo raccolto il Suo consenso elettorale ieri, ma abbiamo ottenuto qualcosa di più, ovvero una interlocuzione importante che ci interessa in prospettiva e ci impone di migliorarci mediante il confronto.

    RingraziandoLa per l’attenzione che ha voluto dedicarci, Le invio cordiali saluti,
    Carlo Mazzei, Segretario del Pd “Porta San Giovanni”

    Gentile signor Carlo Mazzei,

    la ringrazio per la risposta. Ho inviato la stessa mail a non ricordo più quanti esponenti del suo partito, ma nessuno mi ha usato la stessa cortesia. Prendo atto, senza meraviglia alcuna. Il cittadino non conta assolutamente nulla, contano i capi. La comunità umana, in tutte le sue componenti, si configura come classista e mafiosa.

    Ho letto con attenzione. Frasi fatte e di circostanza, provenienti quasi certamente da una lunga educazione nelle scuole di partito. Tutti coloro che si cimentano con la politica istituzionale sono, innanzitutto, degli abili imbonitori, dei grandissimi attori. In realtà lei, da bravo quadro di partito, celebra le lodi e l’attività della sua organizzazione, ma non risponde a nessuna delle mie obiezioni, alle argomentazioni politiche. Anche di questo prendo atto.

    Non mi ha convinto. Mi permetto, quindi, di rimanere della mia opinione.

    Non abbiamo bisogno di tribuni del popolo, di arrivisti e di caste burocratiche. Abbiamo bisogno di una società radicalmente diversa, di liberi e di eguali.

    Astensionismo attivo, azione diretta, pratica immediata dell’obiettivo, autogestione.

    Cordialmente,

    sergio falcone

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