31 maggio 1972: strage di Peteano

L’esemplare storia di tre carabinieri uccisi dai neofascisti, coperti da altri carabinieri e da quel Giorgio Almirante al quale in alcune città oggi si vogliono intitolare strade e piazze (*)

 Peteano-Energu

La strage di Peteano (una frazione di Sagrado, provincia di Gorizia) è un atto terroristico compiuto dal reo confesso Vincenzo Vinciguerra e da Carlo Cicuttini, neofascisti aderenti a Ordine Nuovo. Provoca la morte di tre carabinieri: Antonio Ferraro (31 anni), Donato Poveromo (33) e Franco Dongiovanni (23 anni). Rimangono gravemente feriti il tenente Angelo Tagliari e il brigadiere Giuseppe Zazzaro.

L’attentato si colloca in un contesto storico-politico che all’inizio del 1972 si presenta assai intricato. Sarà bene ricordare almeno a grandi linee qualche fatto: il nuovo presidente della repubblica, Giovanni Leone, è stato appena eletto con i voti (contrattati sottobanco ma poi rivendicati pubblicamente anche da Giorgio Almirante) del Msi, il partito neofascista; il 14 marzo muore in circostanze mai chiarite Giangiacomo Feltrinelli, editore ed ex partigiano, sotto un traliccio che probabilmente si apprestava a minare; il 7 maggio 1972 si svolgono le elezioni anticipate, con pesanti provocazioni delle destre un po’ ovunque (a Pisa la polizia, schierata a difesa di un comizio del missino Giuseppe Niccolai, uccide a botte Franco Serantini); dopo il voto si vara un “debole” governo di centro-destra guidato dal democristano Giulio Andreotti e dal liberale Giovanni Malagodi (che in Parlamento saranno spesso salvati in extremis dai voti missini). Il 17 maggio a Milano venne ucciso il commissario Luigi Calabresi. Intanto le inchieste sulla strage di piazza Fontana sono costrette a prendere atto che gli anarchici non c’entrano e che bisogna imboccare la pista nera (in particolare intorno al gruppo di Franco Freda e di Giovanni Ventura) che è però fin dall’inizio protetta – se non guidata – da molti esponenti dei “servizi”; fra gli uomini della destra collegati alle stragi allora si fa il nome di Pino Rauti che però viene eletto in Parlamento dato che il Msi lo ha messo in lista.

Questo è sotto gli occhi di tutti…

Come è evidente che la perdurante offensiva di un movimento popolare impaurisce i padroni e preoccupa anche il super-padrone di là dall’Oceano. Ma, a completare uno scenario che molti definiscono “pre golpe”, c’è quello che si sussurra o che sarò rivelato poi.

Di certo nel febbraio 1972 si registra un episodio che sarà a lungo tenuto nascosto: lo scioglimento dell’intero comando della Terza armata, ritenuta completamente infiltrata da fascisti. Si saprà poi che nel ’72 Graham Martin, ambasciatore degli Usa (un “falco” mandato da Nixon per «mettere ordine» in Italia), finanzia con 800 mila Vito Miceli, allora capo dei servizi segreti e frenetico manovratore di molti fili che collegano estrema destra, forze dell’ordine e delinquenza comune. Il golpe non scatta: evidentemente in alto (e negli Usa) si preferisce puntare su una strategia più morbida: ma il colpo di Stato, preparato da quella «strategia della tensione» che in Italia data ormai dall’estate 1969, resta fra le carte di riserva (e infatti se ne riparlerà seriamente due anni dopo). Per inciso è questa preoccupante «aria da golpe» che spinge alcuni gruppi dell’estrema sinistra – come i Gap (Gruppi di azione partigiana) di Giangiacomo Feltrinelli – ad armarsi.

Dopo questa veloce digressione storica torniamo alla notte del 31 maggio: alle 22.35, una telefonata anonima giunge al Pronto intervento dei Carabinieri di Gorizia. Il testo – in dialetto – è il seguente: «Senta, vorrei dirle che xè una machina che la gà due busi sul parabreza. La xè una cinquecento bianca, visin la ferovia, sula strada per Savogna».

Sul posto giungono tre gazzelle dei carabinieri e trovano la Fiat 500 bianca con i due buchi sul parabrezza. La prima pattuglia è quella di Gradisca, con l’appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. Mango decide di chiamare il suo ufficiale, il tenente Tagliari, che parte accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo: arrivano sul posto alle 23.05, poi raggiunti da una terza pattuglia da Gorizia.

I carabinieri Ferrero, Poveromo e Dongiovanni tentano di aprire il cofano, provocando l’esplosione dell’auto. Rimangono uccisi.

A dirigere le indagini è il colonnello Dino Mingarelli, vecchio braccio destro del generale Giovanni De Lorenzo il quale negli anni ’60 aveva organizzato un golpe, noto come «Piano solo», bloccato all’ultimo minuto: tale la fiducia di De Lorenzo che proprio Mingarelli custodiva i delicati elenchi del «Progetto Sigma» cioè gli arruolamenti (illegittimi) di neofascisti da affiancare ai carabinieri nel colpo di Stato previsto per l’estate del 1964.

Mingarelli dirige la sua inchiesta verso gli ambienti dell’estrema sinistra, in particolare Lotta Continua di Trento, un comodo capro espiatorio. Ma dalla magistratura milanese giunge l’informazione che la trappola è stata preparata da un gruppo di neofascisti, fra cui Ivano Boccaccio, che nell’ottobre successivo sarà ucciso nel tentato dirottamento di un aereo all’aeroporto di Ronchi dei Legionari. L’informazione arriva da Giovanni Ventura, nel frattempo arrestato (con Franco Freda) per la strage di Piazza Fontana che “collaborando” cerca – invano – di acquistare “punti” presso i giudici.

Scartata la inverosimile pista di Lotta Continua, il colonnello Mingarelli, con il capitano Antonino Chirico, si indirizza allora verso 6 giovani che si sarebbero vendicati di alcuni sgarbi subiti dai carabinieri. Il movente vago e l’assenza di prove inducono i giudici ad assolvere i 6 che, una volta liberi, denunciano Mingarelli per le false accuse, dando inizio a un nuovo processo. In quest’ulteriore indagine il colonnello Mingarelli viene condannato per falso materiale e ideologico e per soppressione di prove (condanna confermata in Cassazione nel 1992). Il reato di favoreggiamento aggravato viene addebitato all’allora segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante (poi amnistiato in modo rocambolesco). Ma attenzione: anche il generale Giovanbattista Palumbo, comandante della divisione Pastrengo di Milano, ha partecipato al “depistaggio” per attribuire l’attentato ai gruppi di estrema sinistra.

In seguito alle nuove indagini, il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra – reo confesso per la strage – rivelerà nel 1982 come il segretario del Msi, appunto Almirante, avesse fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a Carlo Cicuttini, dirigente del Msi friulano e coautore della “trappola” mortale di Peteano: quei soldi dovevano servire per un’operazione alle corde vocali grazie alla quale impedire che la sua voce venisse riconosciuta come quella della telefonata che attirò in trappola i carabinieri (che fosse proprio lui risultava evidente mettendo a confronto la registrazione della chiamata con quella di un comizio tenuto da Cicuttini).

Nel giugno 1986 emergono documenti che provano il passaggio del denaro (tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao e il Banco Atlantico) a favore di Cicuttini: Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli sono rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti. Pascoli verrà condannato per il fatto; Almirante invece, dopo un’iniziale condanna, si farà più volte scudo dell’immunità parlamentare, all’epoca riconosciuta a deputati e senatori, anche per sottrarsi agli interrogatori fin quando si poté avvalere di un’amnistia grazie alla quale uscì definitivamente dal processo.

Carlo Cicuttini, fuggito in Spagna, sarà catturato 26 anni dopo la strage, quando cadrà vittima lui stesso di una trappola: la Procura di Venezia gli farà offrire un lavoro a Tolosa dove verrà arrestato e poi estradato. Attualmente Vincenzo Vinciguerra sconta una condanna all’ergastolo in qualità di reo confesso della strage.

Con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più coperti dal segreto di Stato e sono perciò liberamente consultabili da tutti.

Vale la pena aggiungere stralci dell’articolo di Giorgio Cecchetti su «La Repubblica» del 26 luglio 1987.

PER LA STRAGE DI PETEANO CONDANNATI DUE ALTI UFFICIALI

VENEZIA – Per la prima volta nel nostro Paese due alti ufficiali dei carabinieri sono stati condannati a 10 anni e mezzo di reclusione perché ritenuti responsabili di aver deviato e depistato le indagini sulla strage che aveva provocato la morte di tre giovani che indossavano la loro stessa divisa. E tutto questo non per insipienza o incapacità, ma perché con decisione avrebbero obbedito agli ordini impartiti da un superiore, il comandante della divisione Pastrengo Giovambattista Palumbo, che se non fosse deceduto da alcuni anni avrebbe dovuto sedere sul banco degli imputati della strage di Peteano, accanto al generale Dino Mingarelli e al colonnello Antonio Chirico. Ieri alle 17,45, dopo 61 udienze e 3 giorni e mezzo di camera di consiglio, il presidente della Corte d’Assise di Venezia Renato Gavagnin ha letto la sentenza, che probabilmente aiuterà a spianare la strada ai magistrati che stanno cercando di chiarire i misteri di altri gravi delitti politici rimasti irrisolti. I giudici veneziani hanno condannato all’ergastolo Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini, gli unici due presunti responsabili dell’attentato del 31 maggio 1972; rispettivamente a sei, quattro e cinque anni i friulani Gaetano Vinciguerra, Cesare Benito Turco e Giancarlo Flaugnacco, a 12 il medico veneziano Carlo Maria Maggi, a 11 il romano Carlo Digilio e a 10 anni il maestrino Delfo Zorzi, tutti accusati a vario titolo di aver partecipato all’organizzazione armata Ordine Nuovo; a 3 anni e 9 mesi l’ex segretario del Movimento Sociale goriziano Eno Pascoli e a 11 mesi la moglie Liliana De Giovanni, accusati il primo di favoreggiamento nei confronti di Cicuttini e la seconda di falso; a 10 anni e sei mesi il generale Mingarelli e il colonnello Chirico e a 3 anni il maresciallo Giuseppe Napoli, imputati di favoreggiamento, falso, soppressione di atti e peculato; a 4 anni il colonnello dell’Arma Michele Santoro, accusato di falso e favoreggiamento. Una conferma ulteriore. La storia d’Italia, da piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna, ha ormai insegnato che ogni attentato firmato dai terroristi neri porta l’impronta di questo o quell’apparato deviato dello Stato. E il processo terminato ieri ne è stato un’ulteriore conferma. A raccontarlo molto lucidamente era stato lo stesso Vincenzo Vinciguerra, che dalla latitanza in Sudamerica si era consegnato alle forze dell’Ordine italiane per fare chiarezza come ha ripetuto più volte. Il neofascista udinese si è assunto la responsabilità della strage di Peteano, quindi ha spiegato prima al giudice istruttore Felice Casson, che per tre anni ha condotto l’inchiesta, poi alla Corte d’Assise che tutte le altre stragi in Italia sono state compiute con una strategia dettata da centri di potere internazionali e nazionali collocati ai vertici dello Stato i quali in certe occasioni hanno utilizzato falsi militanti rivoluzionari di destra. La linea di Vinciguerra è quella di Stefano Delle Chiaie, che in questo processo ha testimoniato per un giorno intero, facendo addirittura crollare l’alibi di un ex camerata, da lui considerato traditore e condannato dalla corte. Ma gli inquirenti veneziani avevano già raccolto prove sufficienti per accusare i due neofascisti e tutti coloro che li avevano protetti. In Friuli e a Udine, in particolare, nei primi anni ‘70, c’era un folto gruppo di Ordine Nuovo, che a cavallo della strage di Peteano aveva compiuto altri attentati e che si era sciolto dopo il tentativo di dirottamento aereo a Ronchi dei Legionari, finito con la morte del neofascita Ivano Boccaccio e con la fuga in Spagna di Vinciguerra e Ciccuttini (tuttora latitante, forse in Sudamerica). Ma a portare il giudice Casson agli imputati sono stati due bossoli trovati accanto alla Fiat 500 trasformata in trappola mortale. A spararli era stata una calibro 22 lasciata sulla pista dell’aeroporto di Ronchi dallo stesso Ciccuttini. (…) Quei bossoli il generale Mingarelli, il colonnello Chirico e il maresciallo Napoli, secondo l’accusa, li avrebbero fatti sparire, e con loro il primo rapporto che ne indicava il ritrovamento alla magistratura. Alle spalle della sparizione di una prova tanto importante e che avrebbe potuto portare ai responsabili della strage c’era, secondo il Pm Gabriele Ferrari, la regia di Licio Gelli e della P2 e la volontà di coprire gli autori dell’attentato. Mingarelli e Chirico, per riuscire a bloccare l’inchiesta sui neri, avevano indagato sulla pista rossa, confortati in questa direzione da una velina firmata dal colonnello Santoro. Quest’ultimo è accusato di essersi inventato, assieme al collega Angelo Pignatelli che la Corte d’Assise di Venezia ha però assolto per insufficienza di prove, una falsa confessione del pentito “br” Marco Pisetta, il quale avrebbe riferito che a compiere l’attentato di Peteano sarebbero stati i militanti dell’estrema sinistra. Quindi avevano battuto la pista locale e arrestato sei persone di Gorizia, che dopo 9 mesi di carcere e ben 3 processi erano state completamente scagionate. Nel processo terminato ieri si sono costituite parte civili contro i due ufficiali, ottenendo dalla Corte il risarcimento dei danni, che verrà quantificato in separata sede. Sul banco degli imputati avrebbero dovuto essere seduti anche il procuratore capo della Repubblica di Gorizia Bruno Pascoli, che secondo l’accusa avrebbe collaborato con i due ufficiali nel depistare le indagini, e il segretario del Movimento Sociale Giorgio Almirante, che avrebbe dovuto rispondere di avere inviato in Spagna al già ricercato Ciccuttini 35 mila dollari. Ma l’anziano magistrato è deceduto durante il processo e quindi la Corte ha decretato di non doversi procedere, mentre l’uomo politico aveva accettato l’amnistia prima dell’inizio del processo».

(*) Questa scheda è curata da Remo Agnoletto e da db utilizzando vari materiali rintracciabili anche in rete. Delle stragi fasciste negli anni ’70, del ruolo di Almirante, della «strategia della tensione» in Italia si è parlato più volte in codesto blog. Di quei fascisti stragisti e golpisti, ancora in circolazione e “ripuliti” alla bell’e meglio, nei media nessuno si occupa più. Per questo va segnalato il prezioso lavoro di memoria e documentazione  dell’«Osservatorio nuove destre» e dei libri di Saverio Ferrari.

Come sa chi frequenta il blog/bottega per due anni ogni giorno – dall’11 gennaio 2013 all’11 gennaio 2015 – la piccola redazione ha offerto (salvo un paio di volte per contrattempi quasi catastrofici) una «scor-data» che in alcune occasioni raddoppiava o triplicava: appariva dopo la mezzanotte, postata con 24 ore di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; ma qualche volta i temi erano più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi.
Tanti i temi. Molte le firme (non abbastanza probabilmente per un simile impegno quotidiano). Assai diversi gli stili e le scelte; a volte post brevi e magari solo una citazione, una foto, un disegno… Ovviamente non sempre siamo stati soddisfatti a pieno del nostro lavoro. Se non si vuole copiare Wikipedia – e noi lo abbiamo evitato 99 volte su 100 – c’è un lavoro (duro pur se piacevole) da fare e talora ci sono mancate le competenze, le fantasie o le ore necessarie.

Abbiamo deciso – dall’11 gennaio 2015 che coincide con altri cambiamenti del blog, ora “bottega” – di prenderci un anno sabbatico, insomma un poco di riposo, per le «scor-date». Se però qualche “stakanovista” (fra noi o all’esterno) sentirà il bisogno di proporre una nuova «scor-data» ovviamente troverà posto in blog; la redazione però non le programmerà.

Nell’anno di intervallo magari cercheremo di realizzare il primo libro (sia e-book che cartaceo?) delle nostre «scor-date», un progetto al quale abbiamo lavorato fra parecchie difficoltà che per ora non siamo riusciti a superare. Ma su questa impresa vi aggiorneremo.

Però…

(c’è quasi sempre un però)

visto il “buco” e viste le proteste (la più bella: «e io che faccio a mezzanotte e dintorni?» simpaticamente firmata Thelonius Monk) abbiamo deciso di offrire comunque un piccolo servizio, cioè di linkare le due – o più – «scor-date» del giorno, già apparse in blog.

Speriamo siano di gradimento a chi passa di qui: buone letture o riletture

La redazione (in ordine alfabetico): Alessandro, Alexik, Andrea, Barbara, Clelia, Daniela, Daniele, David, Donata, Energu, Fabio 1 e Fabio 2, Fabrizio, Francesco, Franco, Gianluca, Giorgio, Giulia, Ignazio, Karim, Luca, Marco, Mariuccia, Massimo, Mauro Antonio, Pabuda, Remo, “Rom Vunner”, Santa, Valentina e ora anche Riccardo e Pietro.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Franco Astengo

    REVISIONISMO STORICO di Franco Astengo
    Roma Tor Bella Monica :Giardini a Almirante, minisindaco: “Solita polemica della sinistra pelosa’”. Comunità ebraica: “Provocazione vergognosa”
    Commento:

    Si tratta di una polemica da non lasciar perdere, di un atto istituzionale da non minimizzare: Almirante è stato un personaggio di secondo piano del regime, ma di primo piano nella persecuzione razziale (segretario di redazione della “Difesa della Razza” di Telesio Interlandi) e nella persecuzione dei partigiani, come capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, poi fucilato a Dongo.

    Nell’MSI di cui è stato segretario per un lungo periodo aveva mantenuto intatto il culto della memoria fascista. Questa operazione di intitolazione fa parte di un disegno di revisionismo storico che va respinto con puntiglio e determinazione, senza concessione alcuna.

    L’antifascismo rimane il valore fondativo della nostra Repubblica e costituisce un punto inalienabile dell’identità della democrazia italiana da cui non deflettere.

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