Servi & padroni. Dar da mangiare i conigli alle rape

Fra ermeneutica, cinema e tv, Giuliano Spagnul ricorda che abbiamo bisogno di “fare un giro su noi stessi”

Spagnul-LOSEY

«Nel mondo greco-romano c’era un modo per liberare gli schiavi. Il filosofo storico Epiteto era uno schiavo liberato. Il rito attraverso il quale si emancipava uno schiavo, la parola emancipare deriva da questo rito. ‘e manu capere’ prendere con la mano. […] si andava davanti a un pretore, il padrone imponeva la sua mano sulla testa dello schiavo e lo faceva girare su se stesso. Questo gesto compiuto davanti al pretore significava che lo schiavo era affrancato, era liberato. Seneca ed Epiteto, in due passi che Foucault cita nel corso al College de France del 1981-2 che si chiama “L’ermeneutica del soggetto”, citano questo rito, che era loro contemporaneo, come una sorta di metafora del potere della filosofia; filosofia che ha il potere di liberare l’uomo. Commenta a sua volta Foucault che effettivamente anche noi avremmo bisogno di fare un giro su noi stessi, di cambiare prospettiva. (…) Allora dobbiamo girare su noi stessi, dobbiamo conquistare un punto di vista diverso, dobbiamo più che capire e dichiarare dei diritti, che è giustissimo e non mi sogno neanche lontanamente di criticare questo genere di cose, ma trovo che anche da un punto di vista pratico, anche se volessimo, supponiamo alcuni di noi, contribuire alla costruzione di un movimento che superi lo stato di cose presente, che quindi diminuisca almeno, se non abolisca del tutto, la possibilità del capitale di schiavizzare gli esseri umani e la possibilità del lavoro morto di dominare sul lavoro vivo, se volessimo, per ipotesi, dare il nostro contributo a un movimento che limitasse un pochino la libertà di manovra del signor Marchionne, che dovrebbe essere un uomo libero come tutti noi ma forse che non dovrebbe essere libero di fare quel che gli pare della vita degli altri, forse per tutto questo abbiamo bisogno di fare un giro su noi stessi, abbiamo bisogno di strumenti come quelli che secondo me ci dà Foucault e si possono trovare in altri… però, lasciatemi che ve lo dica: NON ABBIAMO BISOGNO DI NESSUNO CHE CI TENGA LA MANO SULLA TESTA». Il brano è tratto da una “lezione pubblica” di Antonio Caronia, sulla schiavitù all’Accademia di Brera (Focus 2010-2011 – a cura di Mauro Folci).

«Dowton Abbey», una serie televisiva dall’enorme successo mondiale si è rivelata un autentico flop nel nostro Paese. Curiosando tra il dibattito in rete si nota la consueta tiritera sull’arretratezza dell’italico popolo nell’apprezzare le cose ben fatte e raffinate. Il bel Paese manca di gusto. Forse perché servili lo siamo stati fin troppo. Un raro commento ha uno scatto d’orgoglio «…Il nostro pubblico semplicemente non trova realistici questi aristocratici illuminati. Forse perché i padroni spesso provano a farsi passare meglio di quello che sono ed il nostro popolo lo sa, forse anche meglio di qualche giornalista con una certa puzza sotto il naso. Pertanto comprendo molto bene il totale disinteresse dei miei compatrioti verso questo fiabesco mondo per ricchi aristocratici britannici»1. Ma nonostante ciò, a rendere interessante la visione di questo prodotto superleccato è proprio la sua smaccata falsità storica. Di fatto non il passato è quello che ci viene qui rappresentato, quanto piuttosto il nostro presente trasfigurato e imbellettato in abiti antichi. Che questo raffinato fake ci stia bellamente prendendo in giro forse lo dimostra meglio quell’errore, un classico nel genere dei film peplum in voga negli anni del secondo dopoguerra, nel dimenticare sulla scena un elemento temporalmente fuori posto (l’orologio da polso dell’antico centurione romano) che in questa serie televisiva si presenta nella forma di una bottiglietta anni ’60 sul camino che fa da sfondo alla coppia rappresentante della nobiltà britannica del primo dopoguerra.2 Un errore che sembra un tocco da maestro, un oggetto discreto, messo lì sembra quasi apposta. Un errore ma non troppo, per una ricostruzione che più che un passato sembra voler ricostruire un presente. La spia di una regia capace di assoggettare il tempo in modo discreto, senza traumi o ancor di più capace di governare anche i traumi come lezioni, come esperienze virtuali che ammoniscano, allarmino, ma non producano mai vere crisi dalla cui uscita non vi sia certezza. Nessuno dovrà mai girare su se stesso. Siamo tutti avvertiti. Ma lasciamo per il momento l’apparente tranquillità della campagna di Dowton Abbey e andiamo a vedere come il secolo che ci siamo lasciati alle spalle ha trattato il tema dei servi e dei loro padroni nel mezzo anticipatore della tv, il cinema, in quel che si potrebbe quasi definire un vero e proprio sottogenere. Una carrellata non esaustiva e veloce ci permetterà comunque di coglierne l’ampiezza e l’importanza per poi soffermarci su un film particolarmente indicativo per il nostro discorso. Abbiamo ovviamente il classico «Il servo» del 1963 di Joseph Losey nella sua splendida lezione sul rapporto servo-padrone ; il servo infedele di «Operazione Cicero» (1952) di Joseph Mankiewicz, capace di tradire anche la propria patria per inseguire l’illusione dell’emancipazione pensando di poter abbassare la sua ex padrona, caduta in disgrazia, al suo stesso rango. L’infelice idea che il denaro possa tutto; ma si sa, il sangue non è acqua. E proprio su denaro e sangue (e rango) giocano film come «Tovarich» (1937) di Anatole Litvak, nobili russi transfughi a Parigi che si fingono camerieri (ma che altro erano alla corte dello Zar?); «Intrigo a Parigi» (1964) di Jean-Paul Le Chanois, con il ricco banchiere Jean Gabin che si gode una vacanza, da mondo sottosopra, come maggiordomo; così come il maggiordomo di «L’impareggiabile Godfrey» (1936) di Gregory La Cava, finto barbone poi finto servo, ritorna ad essere il potente uomo d’affari dopo aver salvato la ricca famiglia borghese che rischiava il tracollo per le sue pericolose debolezze verso l’ozio, si sa, padrone di tutti i mali; e tutti i film di Ernst Lubitsch, in cima ai quali «Mancia competente» (1932) con la sua sovversiva lezione sul rapporto tra sesso e denaro. E per continuare la lista, «Pranzo alle 8» (1933) di George Cuckor e i due intitolati «Diario di una cameriera» di Jean Renoir (1946) e di Luis Bunuel (1964); e ancora «Il maggiordomo» (1935) di Leo McCarey, che come bene mobile passa da padrone a padrone dopo un’improvvida partita a carte e la cenerentola di «Sabrina» (1954) di Billy Wilder. Ci sarebbe da farne un voluminoso saggio, aggiungendo vari film di Totò («Miseria e nobiltà», «Signori si nasce», ecc.), «Un maledetto imbroglio» (1959) di Pietro Germi, con la serva traditrice (sempre per amore, cioè sempre per un’altra servitù), «L’idolo infranto» (1948) di Carol Reed e certamente molti altri, ma sopra tutti l’esemplare «La regola del gioco» (1939) di Jean Renoir. A compendio di tutti, all’alba del nuovo secolo, «Gosford Park» (2001) di Robert Altman compone un’opera manierista che non aggiunge nulla ma sembra voler dire la parola fine, questo è stato e questo non sarà mai più. A ragione ha potuto dire “questo non sarà mai più”, così. Tutti partono, tutti prendono le loro strade, diverse; ma la contessa, interpretata dall’attrice Maggie Smith, ritornerà dieci anni dopo a fare la contessa in «Dowton Abbey». Si ricomincia? Per una nostalgia dei tempi che furono si ricomincia da capo?

Per capire un po’ meglio sarà utile soffermarci un momento più a lungo su uno dei film di quella carrellata che abbiamo rapidamente scorso. Nei vari film di Lubitsch, attraversati tutti, chi più chi meno, dal tema servile, uno sembra approcciare il tema da un punto di vista affatto strambo, l’ultimo dei suoi film: «Fra le tue braccia» del 1946. Charles Boyer e Jennifer Jones , nell’Inghilterra alla soglia della seconda guerra mondiale; lui nei panni di un intellettuale rifugiato polacco, lei in quello di una ingenua e stralunata ragazza in cerca di un posto in cui la sua estrosità possa essere accettata. L’incontro tra Cluny Brown e il professor Belinski avviene in una casa signorile in cui entrambi sono capitati per una sorta di equivoci. Cluny, che convince il proprietario di essere una provetta stagnina, si accinge a riparare il lavandino guasto e ha un colloquio con Belinski.

«Hanno mai preso il tè al Ritz?» chiede Cluny Brown, tra una botta e l’altra alle tubature del lavandino. E così di seguito Cluny racconta che un giorno avendo trovato una sterlina nella calza si era detta: «Prendi un tè al Ritz» aggiungendo: «Le idee mi vengono così». «Era buono il tè?» chiede Adam Belinski e lei prontamente gli risponde: «Oh, non sono andata per il tè, ma per sentirmi dire: di qua signorina, prego signorina, passi signorina. Non si sarebbe detto che ero fuori posto». Belinski, con aria assorta, ribatte: «È molto interessante. Non mi sembra che abbia pregiudizi lei, ma cerchi di spiegarmi. Perché ha pensato di essere fuori posto?». E Cluny: «Oh, non l’ho mica pensato io, è zio Aldo; sta sempre a dirmi: Cluny Brown non conosci il tuo posto, stai al tuo posto, impara a stare al tuo posto». E Belinski di rincalzo: «E per zio Aldo qual è il suo posto?». Cluny: «Non l’ha detto». Così Belinski tira le fila del duetto: «Mah, perché non lo sa! Nessuno può dirle qual è il suo posto. Dov’è il mio posto, dov’è il posto degli altri. Le dico io dov’è. Dove lei è felice, lì è il suo posto. E la felicità non è l’adattamento individuale alle circostanze. Lei è il solo giudice. Al parco, vede, c’è della gente che dà le rape ai conigli, ma se lei è più felice a dare i conigli alle rape, perché dirle no, le rape ai conigli!?». E l’attonita Cluny: «Le rincresce ricominciare da capo?». In quel mentre il lavandino si disgorga ponendo fine alla conversazione.

In seguito Cluny e Belinski si rincontreranno in una ricca dimora di campagna, lei come serva (mandata per castigo dallo zio, suo tutore) e lui in qualità di rifugiato di prestigio. Il mondo che li ospita è ben esemplificato dal dialogo che Milady ha con Belinski per sollevarlo dall’imbarazzo di non aver uno smoking per la cena: «Questa sera non importa, ma se lei volesse, non che sia importante veramente, ma mio marito ha piacere che io mi cambi per la cena. Se lei non lo facesse, lui non lo potrebbe e se lui non lo potesse… io non lo farei». Bilinski: «Con che semplice grazia lei si esprime».

Parole che tessono tutta la trama di cui è fatto il potere, scoprendone i riti e gli intrecci. L’intero film è un contro-manuale del rapporto servo-padrone, ma sarebbe troppo lungo da sviscerare qui; diciamo ancora, per quel che ci è utile a noi, che i due finiranno per fuggire insieme (in America) ma solo dopo aver corso il serio rischio, lei di sposare il rigido farmacista del paese, uno che conosceva perfettamente il suo posto, nella libera scelta di una schiavitù integrale; lui di essere tentato dalla ricca, giovane e disillusa rampolla della nobiltà. Entrambi infine fuggiranno al potere disciplinare, quello che foucaultianamente assegna «ad ogni individuo il suo posto; ed in ogni posto il suo individuo»3 . Una fuga nel nonsense? Ma sono le parole senza senso? E se provassimo veramente a dar da mangiare i conigli alle rape? Non ci troveremmo così costretti a togliere i conigli dalle loro gabbie e a portarli nei campi, dalle rape e vederli così inevitabilmente scappare, con la conseguenza, se mai, che uno di loro, poniamo uno di color bianco, possa incontrare una ragazzina bionda, che potrebbe rispondere al nome di Alice, e quindi… Ecco allora che le parole sono anche loro delle pratiche, e in quanto tali hanno conseguenze, provocano accadimenti, esperienze. Immaginiamo allora che per un altro sentiero Alice e il coniglio bianco sbuchino proprio davanti alla dimora di Dowton Abbey ed eccoci di nuovo all’inizio. Ora forse possiamo osservare con più attenzione questo immacolato quadro di ricostruita pace sociale, una pace che non teme il cambiamento; il potere sa di dover mutare, cambiar pelle, non è questo che lo spaventa. Perché lo spavento c’è, e ben evidenziato in questa compita oleografia. È sempre palpabile ed esplode in quella terrificante scena in cui il padrone vomita sangue in faccia ai convitati durante una cena con ospite altolocato. È un copia-incolla dal primo «Alien» di Ridley Scott, del primo vomito di un umano ospitante l’alieno. Dowton Abbey non inneggia al ritorno dei tempi che furono, ci racconta i tempi che sono; ci parla del nostro servilismo, del nostro aspirare ad essere servi (avere un posto finalmente) e ci parla del terrore che i corpi docili che servono il potere non siano più tali, che possano domandarsi qual è il loro posto, se debbano avere un posto e pensare di conseguenza che si potrebbe anche andare a dar da mangiare i conigli alle rape.

Spagnul-servi

N O T E

1 http://lastella.blogautore.repubblica.it/2014/01/07/il-flop-di-downton-abbey/#comments

2 http://www.repubblica.it/spettacoli/tv-radio/2014/08/15/foto/downtown_abbey_ma_che_ci_fa_quella_bottiglia_l_-93845480/1/

3 Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi 1976

 

L’IMMAGINE IN APERTURA E’UNA LOCANDINA DEL FILM DI LOSEY; QUELLA IN CHIUSURA INVECE E’ DI GIULIANO SPAAGNUL

 

 

Redazione
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Un commento

  • Daniele Barbieri

    Leggendo quest’ottimo articolo, che ovviamente è particolarmente godibile per chi conosce bene il cinema, mi veniva in mente un vecchio film statunitense “parallelo” a questo discorso: più che di servi&padroni lì si parlava di «poveracci» che devono stare al loro posto… C’è un regista “impegnato” che si finge vagabondo e viene arrestato, così in carcere capisce che anche lui “deve stare al suo posto” e fare solo film comici (o almeno questa è delle possibili interpretazioni). Ricordavo abbastanza bene la trama ma mi sfuggiva il titolo. Ma ecco il piccolo colpo di scena, quasi freudiano: il film è «I dimenticati» di Preston Sturges; in effetti trama e regista sono stati… dimenticati.

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