qualcuno scriverà NO

no

senza essere di destra

 

Il 4 dicembre voterò no alla modifica costituzionale, perché è un regalo al mondo degli affari contro i cittadini. L’impegno di banche, assicurazioni, multinazionali e delle loro rappresentanze, per convincerci ad accettarla, né è una riprova. – Francesco Gesualdi (da qui)

 

Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti. – Andrea Camilleri (da qui)

 

Per mettere mano a modifiche della Costituzione si dovrebbe aspettare il prossimo rinnovo del Parlamento e un prossimo governo che affermi nel suo programma elettorale di volerla cambiare. Allora avrebbe titolo, mentre questo in carica: no.
Il riformismo un tempo aveva una tradizione e un progetto ideale. Opponeva alle rivoluzioni del 1900 una via diversa per raggiungere traguardi di uguaglianza. I riformisti sapevano fare le riforme.
Oggi la utile e ben intenzionata riforma della pubblica amministrazione è stata appena cancellata dalla Corte Costituzionale. Evidentemente era male impostata. Se ne ricava che oggi i riformisti non sanno scrivere le riforme. Se ne ricava che questo governo in carica non ha titolo per usare la parola riforma per le trasformazioni della Carta Costituzionale. – Erri De Luca (da qui)

 

 

 

non facciamoci incantare dal ritornello sul cambiamento a sostegno del Sì. Come accaduto per «riforma», parole che avevano un valore positivo si sono trasformate da tempo nel loro contrario. Il cambiamento d’altronde non è un valore in sé, bisogna sempre verificare se si tratta davvero di un miglioramento. La Restaurazione o la conquista del potere da parte di Hitler o dei talebani rappresentarono certamente dei cambiamenti, ma difficilmente qualcuno li considera come dei progressi. Sono almeno venticinque anni che in Italia in nome del cambiamento si torna indietro. – Maurizio Acerbo (da qui)

 

Tutto quello che il governo Renzi ci ha raccontato della sua controriforma è falso – Alessandra Daniele

“Questa riforma supera il bicameralismo”.
Falso.
Il Senato non viene abolito, ma trasformato in una lobby dalle competenze arbitrarie, e dai componenti non più eletti dai cittadini, ma nominati dai partiti…(continua qui)

 

Il mio cammino personale è al termine, e dunque non ho nulla da temere ma temo per questi giovani di oggi. Altro che lavoro come diritto, salario dignitoso, istruzione elevata. E il rischio, in tanta frustrazione, è la possibilità che vengano cacciati in nuove avventure. Ho negli occhi le manifestazioni giovanili per la guerra in Germania e in Italia nel 39 e nel 40, pagate poi con la catastrofe loro e di tutti. Le organizzavano i fascisti, ma trascinavano i molti. E non credo eccessivo l’allarme quando al fanatismo della setta dell’ISIS si risponde con il fanatismo antimusulmano nelle manifestazioni con Trump. O con il fanatismo antiimmigrati di certi ceffi nostrani o di quel paesino di una terra che fu rossa.

Sono solo i sintomi piccoli e grandi di una malattia che si aggrava. Mai come oggi è necessario il massimo di garanzie. Salvare la Costituzione è indispensabile, anche se non basta. Si dice che chi difende la Costituzione è un passatista. E lo dicono questi nuovisti che hanno combinato solo guai. L’attacco alla Costituzione è in realtà una volontà di ritorno al passato, quando chi comandava era sicuro di non essere disturbato. Oggi dire di no è il migliore modo di dire di sì all’avvenire, è l’unico modo di tenere aperta le porte alla speranza. – Aldo Tortorella (da qui)

In Italia due giovani su cinque sono disoccupati; il Prodotto interno lordo (Pil) sta a mala pena recuperando il livello di 15 anni fa (a prezzi costanti); i nuovi iscritti all’università sono diminuiti del 20% dal 2004 al 2015 (da 335 a 270.000 immatricolazioni); rispetto al Pil i fondi per la ricerca e l’innovazione sono meno della metà di quelli tedeschi e austriaci e quasi un terzo di quelli svedesi e finlandesi; l’analfabetismo di ritorno cresce; il paese si deindustrializza; la produttività per lavoratore diminuisce; la corruzione si mangia 60 miliardi di euro l’anno secondo le stime più prudenti, mentre l’evasione fiscale ne fa sparire 90 miliardi; per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale la speranza di vita degli italiani non si allunga ma si accorcia.

In questo panorama, il sistema politico disquisisce da più di un anno sulla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum il 4 dicembre. Nessuno dei drammatici problemi che ho appena elencato è affrontato da questa riforma, né è immaginabile che la modifica della natura di uno dei due rami del parlamento (perché è questa natura che viene “riformata”) possa prendere di petto i problemi del malgoverno e del declino italiano.

Eppure nella stampa e nella radiotelevisione degli altri paesi europei (con la notevole eccezione del settimanale britannico The Economist) questo referendum è visto come una scadenza decisiva, addirittura come un rito di passaggio, allo stesso titolo, e con la stessa rilevanza per i destini dell’Europa, del voto sul Brexit inglese o delle elezioni presidenziali francesi nella prossima primavera. Il primo mistero da spiegare è proprio questo: la rilevanza epocale attribuita a un voto tutto sommato pretestuoso. È come se mass media e cancellerie europee stessero prendendo una cantonata, questa sì epocale. Intanto fraintendono la natura del voto. Non c’è da un lato un voto “di sistema” e dall’altro un voto “populista”, a meno di non ritenere che più dei due terzi del parlamento italiano siano eletti da cittadini “populisti”. Il No alla riforma costituzionale può vincere e non succederà un bel nulla: gli italiani, contrariamente a quanto si vuol fare credere, non voteranno sull’Italexit. Per cui colpisce fuori dal vaso la “campagna panico” che i grandi poteri finanziari stanno conducendo, con Wall Street Journal  e Financial Times che predicono catastrofi indicibili, uscita dall’euro, crollo del sistema finanziario, in caso di vittoria del No. L’idea di vincere minacciando future apocalissi si è già dimostrata un errore nel caso del Brexit, ma è del tutto fuori luogo per questo referendum italiano in cui la posta in gioco non riguarda affatto l’economia. Come scrive l’Economist, “gli italiani non dovrebbero esser sottoposti a ricatto”.

Il misunderstanding dell’Italia ha una lunga storia all’estero. Prendiamo il radicato luogo comune secondo cui il sistema politico italiano sarebbe instabile. Questo stereotipo sarebbe dimostrato dai 52 diversi governi che si sono succeduti dal 1946 (quando fu fondata la repubblica) fino al 1994. Ma in realtà questi 52 governi hanno mantenuto al potere sempre lo stesso partito, la Democrazia cristiana; e i vari cambiamenti di governo consistevano solo in un via vai degli stessi uomini da una poltrona all’altra, tanto che vi furono ben otto governi presieduti da Alcide De Gasperi, mentre Aldo Moro, Giulio Andreotti e Mariano Rumor ne presiedettero ognuno cinque e Amintore Fanfani quattro. Da questo punto di vista si può dire che nessun sistema politico europeo è stato tanto stabile quanto quello italiano: in nessun altro paese infatti il potere è stato detenuto da uno stesso partito ininterrottamente per tutta la guerra fredda (solo il Giappone ha conosciuto un destino uguale).

Un altro fattore d’incomprensione è la magica parola “semplificazione”, secondo cui la democrazia (come l’eguaglianza sociale) sarebbe intrinsecamente inefficiente. È un’idea che risale a un celebre rapporto del 1975 redatto da Samuel Huntington (quello dello “scontro di civiltà”), e commissionato dalla Commissione Trilateral. C’è soggiacente una visione militaresca del modo di funzionare delle società, che però non ha alcun fondamento (si sono viste democrazie e dittature sia efficienti che inefficienti), ma è una sorta di utopia disciplinare in cui tutto il mondo è riplasmato a immagine e somiglianza dell’industrioso e docile popolo di Singapore. In questa chiave, la riforma costituzionale sottoposta a referendum sarebbe il fattore che semplifica il sistema politico italiano permettendo decisioni rapide ed efficienti, approvando le leggi con maggiore snellezza. Però così si dimentica che è con la costituzione esistente che l’Italia ha conosciuto negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso i decenni di maggiore crescita economica, un vero e proprio boom che non parve affatto frenato dalla “democraticità” del sistema politico.

Non solo, ma contrariamente al luogo comune, il parlamento italiano approva troppe leggi, è afflitto da un eccesso di efficienza legislatrice, per cui poi i cittadini devono imparare a fare lo slalom o il surf fra una miriade di leggi e leggine spesso in contraddizione tra di loro, gonfiando a dismisura l’apparato giudiziario fino a ridurlo alla quasi paralisi: una causa civile nei suoi tre gradi dura in media 8 anni e 7 mesi, e l’Italia è al 157° posto (su 183 paesi) per la durata dei procedimenti e per l’inefficienza della giustizia, preceduta da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo.

Se le cose stanno così, ci si chiede come mai, negli ultimi due anni l’attuale governo presieduto da Matteo Renzi abbia trascurato tutte le questioni vitali per il paese e si sia concentrato solo sulla riforma costituzionale, accompagnata da quella elettorale. Da quando c’è Renzi, la lotta all’evasione fiscale è scomparsa dall’agenda politica del governo, proprio come ai bei tempi di Silvio Berlusconi: e proprio come lui, anche Renzi ha sbandierato agli elettori creduloni il miraggio del ponte sullo stretto di Messina. Il fatto è che la quasi abolizione del Senato va pensata insieme alla riforma del sistema elettorale, riforma grazie alla quale, visto il tasso di astensione che ormai si aggira regolarmente sul 35 %, basterà a un partito ottenere il consenso del 17-20 % degli elettori italiani per detenere il 54 % dei seggi di un parlamento le cui candidature sono decise a tavolino da una opaca leadership partitica.

Contrariamente a quel che sostengono Wall Street Journal e Financial Times, ma anche Deutschland Funk, una delle ragioni che spingono a votare No a questo referendum è che se vincesse il Sì, basterebbe a un partito “populista” raggiungere il 25-30% dei voti espressi per esercitare un potere quasi assoluto. Come ha scritto l’Economist, di uomini forti l’Italia ne ha avuti anche troppi (e il regime mussoliniano non fu particolarmente efficiente, anche se si vantava, a torto, di far arrivare i treni in orario). – Marco D’Eramo

 

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