Capezzuoli, De Marco, Hare, Lucius, Mankell, Winslow più le coppie Roslund-Hellström e Arpetti-Assouad

8 recensioni giallo-noir di Valerio Calzolaio

 

Henning Mankell

«Le ragazze invisibili»

traduzione di Giorgio Puleo

Marsilio

2017 (originale 2001)

316 pagine,18 euro

Svezia. 2001. Tea-Bag è una bellissima ragazza con un grande sorriso, in fuga. Dopo essere fortunatamente arrivata su un barcone salpato dall’Africa in un campo profughi nel Sud della Spagna, ha risposto che si chiama così quando un funzionario la stava interrogando, alla vista di una tazza sulla scrivania, scegliendo di non dire il vero nome e il Paese d’origine. Poi una troupe svedese la intervista e riesce a trasferirsi a Stoccolma, dove incontra Jesper Humlin, un famoso scrittore 42enne incerto su cosa scrivere per la propria carriera (l’editore insiste per un poliziesco). Se potete, non perdetevi “Le ragazze invisibili” dello straordinario Henning Mankell (1948-2015), la storia di tre profughe (anche di Tanja e Leyla) «ombre in movimento ai margini della luce»! Con acume e poesia, in terza persona, si parla di quel che accadeva e da quasi vent’anni accade nel Mediterraneo e nelle nostre città, di cosa può davvero emozionare e “ispirare” la nostra vita sociale.

 

Don Winslow

«Nevada Connection. Le indagini di Neal Carey»

traduzione di Alfredo Colitto

Einaudi

368 pagine per 15,50 euro

Terre Alte Solitarie (dopo Cina e California). Agosto 1981. Neal Carey, indigeno di New York, in teoria dottorando su Tobias Smollett alla facoltà di Letteratura inglese della Columbia, dopo la prima avventura è dovuto restare sette mesi in quarantena nel cottage in mezzo alla brughiera dello Yorkshire, dopo la seconda tre anni confinato nel Sichuan cinese, su e giù (con secchi d’acqua e fascine di legna) per pendii e cellette del freddo monastero. Ormai ha 27-28 anni e gli amici di famiglia lo richiamano in servizio per riportare alla madre un piccolissimo bambino scomparso tre mesi prima, quand’era “custodito” un weekend dal padre. È un lavoro sotto copertura. Anne Kelley, la bella mamma di Cody, è responsabile dei “creativi” nei Wishbone Studios di Hollywood, non ha potuto notificare la violazione di affidamento all’ex marito cowboy Harley McCall; il figlio ha poco più di due anni, pare che l’ex sia divenuto discepolo della Vera Identità Cristiana del reverendo Carter, bianchi suprematisti razzisti in una rete sotterranea di nazisti terroristi della Resistenza Ariana. Occorre rintracciare i fuggitivi, infiltrarsi nella comunità dove dovrebbero nascondersi, recuperare almeno il piccolo. Neal si ritrova in Nevada con una Chevrolet Nova di seconda mano in un’immensa valle a circa milleottocento metri di quota fra alte montagne, gole e grotte, poca gente, scarso bestiame, spazi aperti, molti animali selvatici, minuscoli borghi (Virginia City, Austin), un bar (Brogan), un saloon (Lucky Dollar), un motel (Comfort Rest), un bordello (Filly Ranch) e un paio di insediamenti agricoli. In uno dei due lo ospita la generosa simpatica famiglia di Steve Mills; nell’altra cresce pericolosamente la Hansen Cattle Company. E qui comincia la terza entusiasmante avventura.

Il grande Don Winslow (New York, 1953), miglior autore noir dell’ultimo quarto di secolo, californiano d’adozione, realizzò una vera e propria serie d’esordio letterario (1991-96), questo è il terzo (1993), in terza quasi fissa, soliti eccelsi dialoghi, ambientazione primi anni ottanta sulla base di quel che allora faceva lui stesso. Dopo aver studiato storia all’università, aver letto tanta narrativa poliziesca, girato per un paio di decenni (investigatore privato, regista e manager teatrale, guida di safari fotografici anche in Cina, consulente finanziario) Winslow inventò un personaggio parzialmente autobiografico: detective, base nell’Upper West Side di New York, studi in sospeso, vocazione narrativa. Per lui ogni storia inizia dai personaggi e Neal Carey è un ottimo primogenito, un passato tormentato, un carattere camaleontico anche per i personaggi che deve interpretare, questa volta impara a fuggire a cavallo e s’innamora perbene (dopo 4 anni senza stare con una donna) anche se deve poi tradire la fiducia dell’attraente forte alta maestra Karen per non farsi scoprire e metterla in pericolo. Si conferma il bel ruolo del padre putativo Joe Graham, un metro e sessantadue di cattiveria e astuzia, occhi azzurri e capelli color sabbia, braccio di gomma, irlandese nel midollo; maniaco della pulizia, si diverte mentendo e rubando ma gli vuole un gran bene; questa volta si fa pure torturare per salvargli la vita. I malvagi codardi razzisti sanno che, casomai, ancora se la possono cavare emigrando in Sudafrica. Segnalo le antichissime pitture rupestri difese dal vecchio Shoshoko, bassissimo indiano di una tribù che si riteneva estinta da almeno cent’anni. Cibi in scatola o di montagna, vino solo per i brindisi. Gran musica country, ovviamente, per un altro romanzo da non perdere.

Cyril Hare

«Un delitto inglese»

Sellerio

traduzione di Sofia Merlo

2017 (originale 1951)

236 pagine,14 euro

Warbeck Hall, Markshire, England. 1950. Natale è prossimo. Il dottor Wenceslaus Bottwink, laureato ad Heidelberg, dottore in Lettere a Oxford, già professore di Storia moderna all’Università di Praga, membro di varie accademie da Leida a Chicago, sta studiando antichi manoscritti conservati da illustri antenati in un’ala dell’edificio. Il maggiordomo Briggs lo informa che il vecchio padrone di casa lord Warbeck sarebbe lieto restasse durante le feste. Arriveranno il figlio nazistoide Robert, il cugino ministro Cancelliere dello Scacchiere, la nipote Camilla invano innamorata di Robert, la signora Carstairs moglie del collaboratore stretto del cugino. Robert muore, non sarà il solo, come Bottwink ben presto capisce. Ci deve essere un inconfondibile movente in “Un delitto inglese” secondo Cyril Hare, pseudonimo del giudice Alfred Alexander Gordon Clark (Mickleham, 1900-1958). Dal 1937 scrisse una 15ina di classici gialli a enigma, manierismo solido, aggraziato, garbato.

 

Walter Lucius

«La farfalla nell’uragano»

traduzione di Maria Cristina Coldagelli e Claudia Cozzi

Marsilio (originale 2013)

Amsterdam, Johannesburg, Mosca. Quattro giorni d’agosto di qualche anno fa. L’attraente irrequieta Farah, ricci capelli corvini, occhi azzurri, voce dolce, cresciuta a Kabul (nel ricco quartiere Wazir-Abkar-Khan, quasi nessuno sa che il padre era stato ministro), arrivata in Olanda a 9 anni, poi adottata e ben educata, vi vive ormai da 30; da 10 fa la giornalista di cronaca, lavora per il quotidiano di sinistra And; gira in Porsche Carrera nera del 1987, cambia spesso uomini (ora con il tarchiato documentarista e regista televisivo David sembra resistere bene, pur in appartamenti diversi); non crede nel matrimonio, nelle coincidenze e nel paradiso, è musulmana poco praticante; pratica il pencak silat, nobile arte marziale indonesiana appresa dal padre, se si arrabbia o commuove parla in dari. La sua lingua d’improvviso le serve quando in ospedale, di ritorno da un cruento combattimento spettacolo, incappa in un piccolo di 7 anni, travestito e truccato con leggiadre forme femminili, vittima di incidente e quasi ucciso: fratture multiple, emorragie interne, milza compromessa, due auto coinvolte e due cadaveri carbonizzati nel bagagliaio di una lì vicino. Il bimbo farfuglia una parola che solo lei capisce, si sente coinvolta, cerca di rassicurarlo, comincia ad andare spesso a trovarlo. Probabilmente era stato coinvolto in un bacha bazi, ragazzini comprati e venduti a signorotti vari da astuti criminali trafficanti, trasformati in ingioiellate danzatrici esotiche e in giocattoli sessuali, una forma di schiavismo e di prostituzione minorile coatta. Ci sono coinvolti uomini ricchi e potentissimi, pedofili e corrotti, governanti e imprenditori; vari cercano di insabbiare la storia e screditarla; l’intreccio s’allarga all’invasione sovietica del 1979, a Sudafrica e Russia di oggi; Paul (conosciuto da bimba) e suo zio Edward la aiutano, alcuni muoiono amaramente, tutti rischiano la vita.

Il documentarista e produttore Walter Lucius – pseudonimo di Walter Goverde (Den Helder, Paesi Bassi, 1954) – si è occupato spesso di integrazione di migranti. Il romanzo è del 2013, primo di una trilogia (era pensata inizialmente come serie tv, il terzo pare sia quasi pronto). Narra in terza varia una palpitante storia noir di turbocapitalismo e di sfruttamento, attraverso tante diverse esperienze: Farah è la protagonista assoluta, olandese a tutti gli effetti con un passato orientale; i due poliziotti che seguono il caso sono il bel Joshua Calvino di origini italiane, occhi marroni e barba corta, impossibile non prendere una cotta per lui, e il più vecchio stressato imponente Marouan Diba che sta per partire con la famiglia verso il suo Marocco; la bionda sensibile medico che opera subito il bambino è appena scappata da un ospedale di fortuna in Africa attaccato da soldati armati di machete e mitra; uno dei possenti occulti registi del male parla in inglese con un forte accento slavo e vorrebbe in realtà ritirarsi a lontana vita privata con l’amato. Goverde ha spiegato in un’intervista: “la società non è un’entità statica, un’istituzione come il rock. La società è fatta di persone, che si muovono. Un movimento costante. Come nei nostri rapporti interpersonali, noi interagiamo con le persone. Se tutte le società interagissero bene tra di loro allora ci sarebbero molti meno problemi”. Il romanzo sviscera tre temi sensibili inevitabilmente permeati oggi dal fenomeno migratorio: il giornalismo spazzatura che distorce fatti, infanga individui, orienta strumentalmente paure; la moderna schiavitù dietro il traffico internazionale dei minori; il peso esplicito e implicito del passato (accaduto in terre più o meno distanti) nelle scelte attuali di ciascuno. Il titolo fa riferimento ai ricordi di Farah nel giardino del palazzo presidenziale di Kabul, all’antica farfalla portafortuna di stoffa acquistata da Farah in una bancarella e donata al suo mentore Parwaiz, anziano conservatore d’arte afghano, e all’uragano che si scatena nella vita di lei. Vino rosso. Cibi e musiche di tutti i continenti.

Anders Roslund e Börge Hellström

«Tre minuti»

traduzione di Katia De Marco e Alessandra Scali

Einaudi (originale 2016)

612 pagine, 22 euro

Colombia. Agosto 2015. Il 38enne Piet Hoffmann vorrebbe proprio tornare a Stoccolma, è sposato con Zofia, hanno due figli, Hugo (8) e Rasmus (6), ama la sua città e la sua famiglia alla follia. Da tre anni è infiltrato per conto dei governanti statunitensi fra i narcos del Prc, il movimento di guerriglia finanziato dal traffico di cocaina (più di cento chili a settimana), un secolo dopo la sua messa al bando. Si chiama Peter Haraldsson, snello e rasato, con un tatuaggio sul cranio nudo, senza indice e medio della mano sinistra, detto El Sueco. Per non essere scoperto mastica coca, beve intrugli, ammazza e tortura quando le circostanze lo richiedono. Zofia (Maria ora) si è trasferita con lui, insegna e sa tutto, i ragazzi no (Sebastian e William) e studiano. L’ultima impresa criminale è stata ripresa dal satellite, gli americani hanno istituito la nuova potente Unità Crouse sotto l’impulso di Timothy D. Crouse, speaker della Camera dei rappresentanti, la terza persona più importante degli Usa dopo presidente e vice, animato da uno spirito di crociata visto che l’adorata figlia 24enne Liz (dipendente da 12) era morta per droga. Tim decide di guidare personalmente la distruzione di una cocina, un accampamento chimico, mal gliene coglie. L’armatissimo organizzatissimo gruppo militare speciale viene devastato nella giungla, lui stesso fatto prigioniero, messo in una gabbia, torturato atrocemente, costretto a proporre un patto al proprio governo, che ha appena iniziato (coi droni) a uccidere tutti i 13 capi della guerriglia. Piet è il settimo della lista, la direttrice della Dea a Washington non può più proteggerlo e nessun altro sa che lui (in codice Paula) aiutava l’agenzia. Solo a Stoccolma un altro paio di importanti attempati poliziotti ne sono a conoscenza, a tutti loro spetta un triplo salto mortale carpiato. E nulla sarà impossibile, fino alla fine.

Anders Roslund (1961) e Börge Hellström (1957-2017), premiatissimi scrittori a tempo pieno dal 2004, narrano ancora con grande ritmo (in terza persona varia) l’avvincente saga di Piet, un uomo interessante in una società regolata dalla droga, all’interno della serie sul suo persecutore e (ora) difensore, il non più giovane commissario Ewert Grens, alto e cocciuto, mole imponente e andatura zoppicante. La scena si sposta di continuo; le città colombiane (Bogotá, Cali, Medellín) e i campi base smontabili nella foresta inaccessibile, i bordelli e i mercati, ospedali e bunker, le capitali di Svezia e Usa, le vite private e la Casa Bianca, i trasporti della merce e le fughe rocambolesche, di terra e di mare. Violenza a iosa. I dialoghi sono serrati e coinvolgenti, per quanto autorevoli possano essere i protagonisti, bimbi sicari o potenti del mondo. Il titolo fa riferimento a due dei tanti conti alla rovescia, i (pochi) minuti di preavviso che Piet ha prima dell’ennesima operazione per eliminarlo, la finestra temporale in cui un satellite lascia scoperta una singola coordinata di latitudine-longitudine del pianeta, un’eternità rispetto ai tre secondi del romanzo precedente (2010). Lui sa da molto e si ripete che deve fidarsi solo di se stesso. Doppie identità e tradimenti, traditori e traditi si accavallano in tutto il suo ultimo decennio: spacciatore arrestato, nove anni da informatore della polizia svedese, reati nuovi inventati per risultare credibile, portato in un carcere di massima sicurezza per infiltrarsi nella mafia polacca, bruciato e abbandonato da capi corrotti, infame evaso e condannato all’ergastolo in contumacia essendo morto per (quasi) tutti quelli che lo volevano tale, segretamente ingaggiato dal governo (bloccate 7 raffinerie e 15 partite grazie alle sue informazioni) che ora cerca di eliminarlo, una vita d’inferno finora. Il vino per gli anniversari è costoso, Moulin Touchais del 1982; il buon rum colombiano; la musica sacra.

 

Jonathan Arpetti e Christina B. Assouad

«Delitto dietro le quinte»

Fanucci

282 pagine, 13 euro

Macerata. Primi d’agosto, di questi tempi. Gabriella Lattanzi vive con il figlio Christian a Montanello, una piccola mitica contrada collinare sopra la frazione di Villa Potenza. Va a gettare il sacchetto giallo dell’indifferenziata nel grosso bidone metallico della spazzatura e inizia a urlare: dentro c’è il cadavere di una donna strangolata. Indagano il commissario Luca Bonaventura e l’ispettrice Francesca Gentilucci, ben assortiti. La vittima è Chiara Palmucci, 25enne danzatrice di talento a una settimana dal debutto nel “Nabucco” che deve inaugurare il Macerata Opera Festival. I due scrittori marchigiani Jonathan Arpetti e Christina B. Assouad narrano in terza varia un “Delitto dietro le quinte”, classico giallo a enigma scritto con garbo a quattro mani, prendendo spunto da un dramma realmente accaduto: il 4 luglio 2006 un marito separato (direttore artistico dello Sferisterio) tentò di uccidere la ex moglie, lasciandola poi infilata in un sacco nel cassonetto di quel quartiere.

 

Romano De Marco

«L’uomo di casa»

Piemme

322 pagine per17,50 euro

1979 e oggi. Virginia, USA. A Richmond erano stati rapiti e uccisi sei piccolissimi bambini. La giovane detective afroamericana Gina Cardena aveva indagato sei mesi, senza successo, prima di dimettersi dalla polizia. Ora la logopedista Sandra Morrison scopre che il marito Alan Sandford, trovato sgozzato in un parcheggio con i pantaloni calati mentre lei e la figlia adolescente Devon lo aspettavano a cena nella loro casa di Vienna, era ossessionato da quell’irrisolta vicenda e conosceva Gina. Passato e presente si accavallano, tempi pericolosi per Sandra: chi era veramente Alan? Romano De Marco (Francavilla al Mare, 1965) è un professionista della sicurezza integrata – persone, valori, dati – negli istituti di credito, e da quasi dieci anni si cimenta con successo e fantasia nel giallo e nel noir. “L’uomo di casa” è il suo ultimo romanzo, finalista allo Scerbanenco 2017, in terza varia al presente; talora in prima Sandra e, a brevi tratti, in corsivo e prima, chi sa.

 

Fulvio Capezzuoli

«Il commissario Maugeri e il fantasma di via Ariosto»

Todaro

236 pagine per 15,50 euro

Milano. Ottobre 1948. Il commissario Gianfranco Maugeri, già comandante partigiano durante la Resistenza, sprovvisto di senso dell’umorismo, vive in una casa per funzionari di Polizia con la moglie Giovanna e il figlio Giacomo (influenzato). L’amico vice questore gli ha chiesto di parlare con una vecchia signora, la 62enne Susanna Bellingeri, occhi scuri e labbra carnose, alle prese con strani rumori (da “fantasmi”) nel solaio della bella palazzina Liberty di via Ludovico Ariosto, zona Magenta. Quel sabato va e ascolta, poi attiva qualche procedura di verifica e sorveglianza. Eppure la mattina presto del lunedì successivo il bel serio cameriere Enrico Bonavita trova Susanna morta, seduta in poltrona. Abitavano con la sorella Elisa, malata e invalida, talora con la bella infermiera Franca, talora con Giovanni, architetto 35enne residente a Londra, figlio di Simone, il terzo fratello, deceduto suicida durante il conflitto. Marco Fulgenzi, il medico di famiglia spiega che Susanna non aveva particolari malattie, proprio mentre sentono il suono di un campanello. E nel solaio trovano un campanello con alcune impronte, che la Scientifica dirà essere appartenute ad Attilio Colombo, un condannato a morte nel 1938 per uxoricidio, fucilato dunque dieci anni prima. Per altro l’ispettore Valenti si era accorto di una macchiolina di sangue, caduto da una minuscola puntura al centro della nuca, più o meno in corrispondenza della parte terminale del tronco encefalico: Susanna è stata uccisa, e con le stesse modalità della moglie di Colombo. La vicenda appare molto ingarbugliata, in un intrico di relazioni affettive e politiche che chiama in causa famiglie ebree e affari svizzeri, foto di nudità e identità occultate. Poi anche Enrico viene ucciso, in solaio. I brividi (paranormali) non si placano.

Il bravo storico critico cinematografico Fulvio Capezzuoli (Cava de’ Tirreni), milanese d’adozione, dal 2014 scrive un’avventura l’anno, ricca di particolari sulla città nei primi anni del dopoguerra, 4 storie con il commissario Maugeri dall’estate 1946 all’autunno 1948 (finora), volute dalla compianta Tecla Dozio per la collana “Impronte” (gialle) che dirigeva. La narrazione è in terza fissa, quieta e sorniona, i brevi pensieri del protagonista in corsivo. L’autore getta uno sguardo documentato sulle politiche della neutrale Svizzera nella prima metà del Novecento, l’attrazione nei confronti di capitali e affari, le resistenze verso gli ebrei (anche ricchi), la chiusura (in parte conseguente) verso tutti i richiedenti asilo. A un certo punto, tutte le piste investigative convergono su Lugano: la sede della Società Anonima Telerie del Lago Maggiore di Simone Bellingeri e la sua stessa residenza quando si era sposato con l’ebrea Elisabetta Modena, prima di trasferirsi a Milano; la destinazione di lei poco prima del suicidio del marito, dopo che lui aveva forse quasi dilapidato le fortune accumulate dal padre con la fabbrica di Gironico (Como); la residenza d’origine di Enrico (anche lui circonciso). Ed è lì che Maugeri mostra il suo grande spirito organizzativo, profilo basso e poche ciance, ottimi risultati. Se Maometto non può andare alla montagna (per gli intoppi burocratici internazionali) persone e spunti decisamente interessanti gli arriveranno in treno da Lugano. Il riso giallo non manca mai, non c’entra il lusso del gran ristorante (che i poliziotti non possono permettersi), ove il vino va in bicchieri di cristallo.

Redazione
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