Per la liberazione di Julian Assange

di Robert Fisk

CON UN APPELLO DA FAR GIRARE, un’intervista a Patricio Mery Bell e le riflessioni di Michele Paris

il loro sogno si sta avverando: seppellirlo da vivo

La punizione finale di Julian Assange ricorda ai giornalisti che il loro lavoro è scoprire quello che lo stato tiene nascosto – Robert Fisk

Se faremo il nostro lavoro, renderemo pubblica quella stessa, vile menzogna dei nostri governanti che ha causato questo rigurgito di odio verso Assange, Manning e Snowden.

Comincio ad essere un po’ stanco dello US Spionage Act. Del resto, è  molto tempo che sono anche abbastanza stufo della saga di Julian Assange e di Chelsea Manning. Nessuno vuole parlare delle loro personalità perché sembra che a nessuno vadano molto a genio queste due persone, anche a chi aveva giornalisticamente tratto vantaggio dalle loro rivelazioni.

Sin dall’inizio, ero preoccupato dell’effetto Wikileaks, non sui brutali governi occidentali, le cui attività aveva rivelato con precisione sconvolgente (specialmente in Medio Oriente) ma sulla pratica del giornalismo. Quando Wikileaks aveva offerto a noi scribi questo piatto di minestra, ci eravamo saltati dentro, avevamo remato e schizzato le pareti del racconto con le nostre grida di orrore. E avevamo dimenticato che il vero giornalismo investigativo riguarda la costante ricerca della verità attraverso le proprie fonti personali, piuttosto che scodellare davanti ai lettori una vagonata di segreti, segreti che Assange e gli altri (e non noi) avevano scelto di rendere pubblici.

Come mai, ricordo di essermi chiesto quasi 10 anni fa, potevamo leggere le indiscrezioni su tanti Arabi o Americani, ma su così pochi Israeliani? Chi stava in realtà mescolando la zuppa che avremmo dovuto mangiare? Che cosa era stato lasciato fuori dal pastone?

Ma gli ultimi giorni mi hanno convinto che c’è qualcosa di molto più ovvio riguardo l’arresto di Assange e la nuova incarcerazione della Manning. E non ha nulla a che fare con il tradimento,  l’infedeltà o con qualsiasi altra presunta catastrofica minaccia alla nostra sicurezza.

Sul Washington Post di questa settimana, c’è un pezzo di Marc Theissen, un’ex scrittore di discorsi della Casa Bianca che aveva difeso l’uso della tortura da parte della CIA come “legale e moralmente giusta,” che ci informa che Assange “non è un giornalista. È una spia … Si è impegnato nello spionaggio contro gli Stati Uniti. E non ha rimorsi per il male che ha fatto.” Così facendo dimentica che la pazzia di Trump ha già fatto diventare un passatempo la tortura e le relazioni segrete con i nemici dell’America.

No, non penso che tutto questo abbia qualcosa a che fare con l’uso dello Spionage Act (per quanto gravi siano le sue implicazioni per i normali giornalisti) o i “rispettabili organismi di informazione,” come Thiessen stucchevolmente ci definisce. Né ha molto a che fare con i pericoli che queste rivelazioni avrebbero fatto correre agli agenti assoldati localmente in America e in Medio Oriente. Ricordo bene quanto spesso gli interpreti iracheni [che lavoravano] per le forze statunitensi ci dicessero di aver richiesto i visti [di espatrio] per loro e le loro famiglie quando erano stati minacciati in Iraq, e come alla maggior parte di loro fosse stato risposto che la cosa era impossibile. Noi Inglesi abbiamo trattato molti dei nostri traduttori iracheni con la stessa indifferenza.

Perciò dimentichiamo, solo per un momento, il massacro dei civili, la letale crudeltà dei mercenari statunitensi (alcuni coinvolti in traffici di bambini), l’uccisione dello staff della Reuters da parte delle truppe americane a Baghdad, l’esercito di innocenti detenuto a Guantanamo, la tortura, le bugie ufficiali, le false cifre delle vittime, le menzogne ​​dell’ambasciata, l’addestramento americano dei torturatori egiziani e tutti gli altri crimini scoperti dal lavoro di Assange e Manning.

Supponiamo che ciò che avevano rivelato fossero state cose buone, piuttosto che cattive, che i documenti diplomatici e militari fornissero un fulgido esempio di una nazione grande e specchiata e fossero la prova di quegli ideali nobilissimi e risplendenti che la terra dei liberi ha sempre fatto suoi. Facciamo finta che le forze statunitensi in Iraq avessero ripetutamente rischiato la vita per proteggere i civili, che avessero denunciato le torture dei loro alleati, che avessero trattato i detenuti di Abu Ghraib (molti di loro completamente innocenti) non con crudeltà sessuale ma con rispetto e gentilezza; che avessero privato del potere i mercenari e li avessero riportati in catene negli Stati Uniti; che si sentissero in debito, anche solo per scusarsi, per tutti quegli uomini, donne e bambini che avevano fatto una fine prematura nella guerra in Iraq.

Meglio ancora, pensiamo per un momento a come avremmo potuto reagire alla rivelazione che gli Americani non avevano ucciso quelle decine di migliaia di persone, che non avevano mai torturato neanche un’anima, che i detenuti di Guantanamo, tutti quanti, erano senza ombra di dubbio pluriomicidi razzisti, sadici, codardi, xenofobi, e le prove dei loro crimini contro l’umanità validate di fronte ai tribunali più imparziali del mondo. Immaginiamo persino per un momento che l’equipaggio dell’elicottero americano che aveva falciato 12 civili in una strada di Baghdad non li avesse “eliminati” con le sue mitragliatrici. Immaginiamo che la voce alla radio dell’elicottero avesse detto: “Aspetta, penso che quei ragazzi siano dei civili, e quel fucile potrebbe essere solo una telecamera. Non sparare!

Come tutti sappiamo, questa è una fuga dalla realtà. Perchè quello che rappresentavano queste centinaia di migliaia di documenti era la vergogna dell’America, dei suoi uomini politici, dei suoi soldati, dei suoi torturatori, dei suoi diplomatici.

C’era persino un elemento di farsa che, sospetto, aveva fatto infuriare tutti i Thiess di questo mondo ancor più delle rivelazioni più terribili. Ricorderò sempre lo sdegno espresso da Hillary Clinton quando era stato rivelato che aveva mandato i suoi scagnozzi a spiare all’interno delle Nazioni Unite; i suoi schiavi al Dipartimento di Stato avevano dovuto studiarsi i dettagli della crittografia usata dai vari delegati, le transazioni con carte di credito, persino le tessere dei frequent flyer. Ma chi, al mondo, vorrebbe sprecare il proprio tempo a studiare tutte le sciocchezze dell’assolutamente incompetente staff delle Nazioni Unite? O, per quel che importa, chi alla CIA aveva sprecato il suo tempo ascoltando le conversazioni telefoniche private di Angela Merkel con Ban Ki Moon?

Uno dei cablogrammi divulgati da Assange risale alla rivoluzione iraniana del 1979 e riguarda l’opinione di Bruce Laingen sul fatto che “la psicologia persiana è prioritariamente egocentrica.” Interessante, ma gli studenti iraniani avevano faticosamente rimesso insieme tutti i trucioli dei documenti triturati dell’ambasciata americana a Teheran negli anni successivi al 1979, e avevano già pubblicato le parole di Laingen decenni prima che Wikileaks ce le facesse avere. Talmente enorme era stato il primo rilascio da 250.000 documenti (che Hillary  aveva denunciato come “un attacco alla comunità internazionale,” mentre ancora oggi li chiama “documenti presunti,” come se fossero dei falsi) che pochi avevano potuto verificare cosa ci fosse di nuovo e cosa di vecchio. Così il New York Times si era affrettato a sottolineare la citazione di Laingen come se fosse stato di uno scoop straordinario.

Parte del materiale non era così ovvio prima [della sua divulgazione], il suggerimento che la Siria avesse permesso ai ribelli antiamericani provenienti dal Libano di attraversare il suo territorio, per esempio, era assolutamente corretto, ma le “prove” degli attentati dinamitardi iraniani nel sud dell’Iraq erano molto più dubbiose. Questa storia era già stata felicemente passata al New York Times dai funzionari del Pentagono nel febbraio 2007, per essere poi riproposta in anni più recenti, ma erano quasi tutte stupidaggini. Di equipaggiamento militare iraniano ce n’era in giro in tutto l’Iraq fin dalla guerra Iran-Iraq del 1980-88 e la maggior parte degli attentatori che ne avevano fatto uso erano musulmani sunniti iracheni.

Ma questo è andare a cercare il pelo nell’uovo in quella montagna di carte. Una simile stupidaggine è insignificante in confronto alle mostruose rivelazioni sulla crudeltà americana; il resoconto, ad esempio, di come le truppe statunitensi avessero ucciso quasi 700 civili, tra cui donne incinte e malati di mente, solo per essersi avvicinati troppo ai loro posti di blocco. E le istruzioni alle forze statunitensi (questo frammento di narrativa è di Chelsea Manning) di non indagare quando i loro alleati militari iracheni frustavano i prigionieri con grossi cavi, li lasciavano appesi a ganci pendenti dal soffitto, gli bucavano le gambe con trapani elettrici e li violentavano. Nella valutazione segreta da parte degli USA su 109.000 morti in Iraq e Afghanistan (una grossolana sottostima), 66.081 erano stati ufficialmente classificati come non combattenti. Quale, mi chiedo, sarebbe stata la reazione americana di fronte all’uccisione di 66.000 cittadini statunitensi, 20 volte più delle vittime dell’11 settembre?

Naturalmente, noi non avremmo dovuto sapere niente di tutto questo. E si può capire perché no. Il peggio di questo materiale era segreto non perché fosse scivolato accidentalmente in una cartellina di un’amministrazione militare contrassegnata con “riservato” o “strettamente confidenziale,” ma perché rappresentava la copertura di un crimine di stato su vasta scala.

I responsabili di queste atrocità dovrebbero ora essere processati, estradati da qualunque luogo si nascondano e imprigionati per i loro crimini contro l’umanità. Ma no, noi stiamo punendo chi queste notizie le aveva divulgate, per quanto commoventi, a nostro avviso, fossero le loro motivazioni.

Certo, noi giornalisti, noi gente delle “rispettabili agenzie di informazione,” possiamo preoccuparci delle implicazioni di tutto questo perché riguarda la nostra professione. Ma, molto meglio, potremmo dare la caccia ad altre verità, ugualmente spaventose per l’autorità. Perché non scoprire, per esempio, cosa ha detto Mike Pompeo in privato a Mohammed bin Salman? Quali velenose promesse potrebbe aver fatto Donald Trump a Netanyahu? Quali relazioni segrete gli Stati Uniti intrattengono ancora con l’Iran, perché hanno persino mantenuto importanti contatti, saltuari, silenziosi e riservati, con elementi del governo siriano?

Perché aspettare 10 anni per il prossimo Assange che ci scaricherà un’altra camionata di segreti di stato?

Ma c’è il solito campanello d’allarme: quello che scopriremo attraverso i metodi del vecchio giornalismo convenzionale delle suole consumate a forza di camminare, delle storie che vengono fuori da gole profonde o da contatti fidati, rivelerà, se faremo il nostro lavoro, la stessa vile menzogna dei nostri padroni che ha provocato questo rigurgito di odio verso Assange e Manning e, indubbiamente, Edward Snowden. Non verremo chiamati in giudizio perché l’incriminazione di questi tre costituisce un pericoloso precedente legale. Ma saremo perseguitati per le stesse ragioni: perché ciò che riveleremo dimostrerà oltre ogni dubbio che i nostri governi e quelli dei nostri alleati commettono crimini di guerra e i responsabili di queste iniquità cercheranno di farcela pagare per questa indiscrezione con una vita dietro le sbarre.

La vergogna e la paura di dover condividere la responsabilità di ciò che era stato fatto dalle nostre autorità preposte alla “sicurezza,” non il fatto che chi aveva divulgato le notizie avesse violato la legge, ecco di che cosa si tratta.

(Fonte: independent.co.uk
Link: https://www.independent.co.uk/voices/julian-assange-trial-wikileaks-us-security-services-state-secrets-robert-fisk-a8936296.html
Tradotto da Markus per comedonchisciotte.org)

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Per la liberazione di JULIAN ASSANGE

Il Comitato Contro la Guerra Milano aderisce e partecipa alla mobilitazione del Comitato per la liberazione di Julian Assange:

Invitiamo tutti i sostenitori a mobilitarsi in tutte le città del paese al fine di diffondere e promuovere questa causa.
Diamo indicazione di farlo fisicamente.
Troppe volte si è visto che una causa sostenuta prevalentemente in rete non ha avuto poi le gambe per diffondersi materialmente.

Qui di seguito il testo dell’appello e in allegato l’appello con i moduli per la raccolta firme e il volantino.

Le firme raccolte vanno scannerizzate e inviate alla email: comitatoassange@libero.it

 

APPELLO PER LA LIBERAZIONE DI JULIAN ASSANGE

Siamo cittadini amanti della pace, della democrazia, della libertà e del rispetto dei diritti umani.

Julian Assange in queste ore versa in condizioni critiche dal punto di vista fisico e mentale, come riconosciuto dall’inviato speciale dell’ONU.

Da anni stanno cercando di annientare con ogni mezzo il fondatore di WikiLeaks: dopo aver imbastito nei suoi confronti un’accusa di stupro caduta nel vuoto, lo hanno prelevato con un blitz all’interno dell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra e incarcerato nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, soprannominata la Guantanamo britannica.

Ha già passato sette anni come rifugiato politico, privato delle proprie libertà: ha già pagato a caro prezzo il suo conto per aver svelato al mondo molte verità scomode, tra le quali i crimini di guerra degli USA nella guerra contro l’Iraq, una guerra motivata con la menzogna, com’è ormai ampliamente risaputo.

Julian Assange ha recato un contributo molto importante alla libertà, svolgendo il suo compito di diffusione delle notizie, senza conoscere le quali è arduo comprendere il mondo in cui viviamo.

Un uomo così si è messo in gioco sapendo quello a cui avrebbe potuto andare incontro, ora tocca a noi difenderlo perché, così facendo, difendiamo anche il nostro diritto alla conoscenza.

L’accanimento nei confronti di questo uomo è un insulto al concetto di civiltà.

Chiediamo una presa di posizione da parte delle nostre istituzioni e del Presidente Mattarella, in linea con La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (artt 11 – 14 – 19), e l’immediata scarcerazione per Julian Assange

Comitato per la Liberazione di Julian Assange – Milano, Italia

 

pagina FBhttps://www.facebook.com/Comitato-per-la-Liberazione-di-Julian-Assange-Italia-2124476570984287/

 

Julian Assange e quelle informazioni che possono cambiare il mondo

Intervista di Cristina Mirra a Patricio Mery Bell, giornalista, attivista cileno ed ex consigliere di Rafael Correa

 

Cristina Mirra: Puoi raccontarci il lavoro di Assange e di Wikileaks?

Patricio Mary Bell: Julian Assange è un eroe della libertà di espressione e del diritto di ricevere informazioni veritiere. Wikileaks segna un prima e un dopo nel modo di fare giornalismo. Ci ha mostrato lo stato profondo dei governi assetati di sangue *Deep State*.

La società ha il diritto di conoscere la verità con la minor manipolazione possibile delle informazioni. I grandi media dipendono e fanno parte del potere finanziario, sono strumenti di difesa e di attacco di un modello iniquo e ingiusto, che mantiene nella povertà metà della popolazione del pianeta, o anche di più, vittima di flagranti crimini contro i diritti umani. Dietro tutto questo c’è il sistema di concentrazione del potere e della ricchezza. Il volto più selvaggio del sistema che è protetto dal giornalismo corporativo. Trafficanti di pseudo verità.

In questo contesto Julian Assange e Wikileaks sono l’altra faccia della medaglia. Un giornalismo coraggioso, impegnato solo a favore della verità e di una vera società dell’informazione.

 

Quanto sapremmo di meno della guerra in Afghanistan e in Iraq e degli altri scenari, senza di loro?

Non sapremmo niente. Ricordate che queste guerre hanno avuto l’incoraggiamento e l’addolcimento dei media che hanno portato i nostri popoli a vivere amando l’oppressore e odiando gli oppressi.

Viviamo in un’epoca storica in cui la battaglia comunicativa è appena iniziata. Mai prima d’ora così tante persone hanno avuto accesso alle informazioni come ora. Oggi ogni cittadino può essere un canale di comunicazione, un meccanismo di controllo sociale, e ciò dispera il sistema che ha bisogno di mantenerci come degli idioti, manipolati e schiavi dei suoi interessi economici. La verità è la libertà e la menzogna è la schiavitù.

La lotta tra il governo degli Stati Uniti e la Huawei, la prigionia di Julian Assange, la censura e l’autocensura dei media sono battaglie dello stesso conflitto. Si confrontano due visioni culturali: il multilateralismo e la pace contro l’imperialismo e la violenza.

Julian Assange, come nel racconto di quel ragazzino che gridava a tutti che il Re camminava nudo, ha osato dimostrare che il “Re della Libertà” non era altro che un criminale assetato di sangue.

 

Perché Assange spaventa così tanto l’America?

Il sistema si sbaglia sempre, cerca di uccidere il messaggero per impedire che il messaggio raggiunga le persone. L’unica cosa che fa, ogni volta che ci prova, è ingrandire il messaggero e catapultarlo alla gloria. Julian Assange li ha già sconfitti, anche se per questo ha dovuto sacrificare la cosa più importante della vita, la libertà. Il suo modo di consegnarci la verità farà storia.

 

Cosa ne pensi della guerra in Iraq?

Penso che tutte le guerre siano brutte. Iran, Libia e Afghanistan sono la stessa cosa. Una strategia politica utilizzata a fini commerciali per appropriarsi del petrolio proveniente da quei paesi. Nessun paese che è stato invaso dagli Stati Uniti sta meglio di come stava prima.

 

Quali effetti ha avuto questo conflitto sull’Iraq?

Direttamente la generazione e il finanziamento di gruppi radicalizzati che hanno compiuto attentati terroristici in Europa. Il caos sociale in Iraq, la destabilizzazione del continente e la proliferazione della guerra come metodo di controllo.

 

Cosa ne pensi delle scuse di Blair, quando ha ammesso che c’era una mancanza di prove, vale a dire le armi di distruzione di massa?

Tardive e ipocrite. Queste scuse appaiono solo dopo che il mondo ha scoperto la verità.

La storia di Assange si riferisce alla libertà del giornalismo investigativo, che vuole informare il grande pubblico.

 

Perché ritieni che la figura di Assange sia particolarmente apprezzata in America Latina?

Perché sappiamo quanto danno può generare una menzogna, il piano Condor è stato promosso dalla cattiva stampa, giustificato da criminali che possedevano i media. Uno dei casi più emblematici lo abbiamo vissuto in Cile con la partecipazione di media come El Mercurio e il suo proprietario Agustín Edwards, a crimini contro l’umanità.
Anche perché Assange è stato accolto come rifugiato politico dall’ex presidente ecuadoriano Rafael Correa nell’ambasciata del suo paese nel Regno Unito. Ecuador e il Sud America si sono schierati a favore della verità e della libertà di espressione. Purtroppo, questa dignitosa posizione di fronte al mondo è stata gettata nella spazzatura dal governo di Lenin Moreno, che è un funzionario del sistema capitalista. Un giorno dovrà rispondere alla giustizia per aver consegnato Julian Assange e per aver violato le leggi e le convenzioni internazionali sui diritti umani.

da qui

 

In uno scambio di ruoli, per la prima volta nella storia contemporanea, un dissidente cinese chiede la libertà per un occidentale

L’artista dissidente cinese Ai Weiwei ha chiesto al Regno Unito e alle nazioni europee di bloccare l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti, dove rischia la prigione a vita.

Assange è il fondatore di WikiLeaks, che nel 2010, insieme a Chelsea Manning, ha diffuso nel mondo molti documenti riservati dell’intelligence Usa, creando innumerevoli problemi diplomatici a Washington.

In uno scambio di ruoli, per la prima volta nella storia contemporanea, un dissidente cinese chiede la libertà per un occidentale.

Ai Weiwei, che ora vive a Berlino, ha incontrato ieri Assange nella prigione di Belmarsh. Su Twitter ha dichiarato che la salute di Assange “si sta deteriorando”. Questi è in prigione da quando l’ambasciata ecuadoregna a Londra ha deciso di non dargli più asilo, dopo averlo ospitato per sette anni, per evitare l’arresto.

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Assange e le torture di Londra – Michele Paris

Il trattamento riservato dalla Gran Bretagna a Julian Assange dimostra in maniera indiscutibile come il governo di Londra stia sempre più agendo senza nemmeno la pretesa di rispettare le norme democratiche del diritto internazionale. Questa conclusione, tutt’altro che sorprendente, è stata confermata nei giorni scorsi dalla reazione degli ambienti conservatori di potere alla pesantissima accusa rivolta dalle Nazioni Unite ai carnefici del fondatore di WikiLeaks. Lunedì, intanto, un tribunale svedese ha deliberato parzialmente a favore di Assange, riducendo le possibilità di una sua prossima estradizione in Svezia.

Com’è noto, il “relatore speciale” ONU sulla Tortura, l’autorevole docente svizzero Nils Melzer, aveva espresso durissime parole di condanna per “la continua campagna di soffocamento, intimidazione e diffamazione” condotta contro Assange, “non solo negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, in Svezia e, più recentemente, in Ecuador”. Melzer assicurava di non avere mai assistito, “in vent’anni di lavoro con vittime di guerre, violenze e persecuzioni politiche”, a un complotto come quello in atto contro il giornalista australiano.

Un complotto orchestrato e condotto da “un gruppo di paesi democratici”, intenti “deliberatamente a isolare, demonizzare e abusare di un singolo individuo per un periodo così lungo e con così poco interesse per il diritto e la dignità umana”. A congiurare contro Assange, ha spiegato ancora il rappresentante delle Nazioni Unite, non sono soltanto i governi citati, assieme a quello australiano, disinteressato a difendere i diritti di un proprio cittadino, ma anche la stampa ufficiale – dal Guardian al New York Times – e addirittura i giudici coinvolti nel procedimento legale.

Melzer aveva visitato Assange nella prigione di massima sicurezza in cui è “ospitato” e ha concluso che quest’ultimo mostra “tutti i sintomi tipici di una prolungata esposizione a tortura psicologica”, fatti tra l’altro di “stress estremo, ansia cronica, intenso trauma psicologico” e “un senso di minaccia proveniente da ogni parte”. Il rapido deterioramento delle condizioni di salute di Assange era stato reso noto settimana scorsa da esponenti di WikiLeaks, i quali avevano diffuso la notizia del suo trasferimento al reparto medico del carcere di Belmarsh, comunemente noto come la “Guantanamo britannica”.

Del disfacimento avanzato della democrazia in Gran Bretagna si è avuto un altro assaggio con la risposta al relatore ONU sulla Tortura da parte del ministro degli Esteri di Londra, Jeremy Hunt. Su Twitter, Hunt ha definito “sbagliate” le accuse di Nils Melzer, visto che Assange aveva “scelto di nascondersi nell’ambasciata [dell’Ecuador]” ed era “sempre stato libero di andarsene e affrontare la giustizia”. Per il capo della diplomazia britannica, l’intervento dell’ONU comprometterebbe perciò la libertà e l’imparzialità della giustizia nel considerare il caso Assange.

La valanga di menzogne di Jeremy Hunt non è rimasta senza risposta. Melzer ha infatti scritto a sua volta sul profilo Twitter del ministro conservatore, affermando correttamente che Assange era libero di lasciare l’ambasciata ecuadoriana a Londra esattamente come “qualcuno che si trovi su un gommone in una vasca di squali”. I timori del numero uno di WikiLeaks di essere estradato negli USA, che lo spinsero appunto a chiedere asilo al governo di Quito, sono stati definitivamente confermati qualche settimana fa, quando il dipartimento di Giustizia americano ha reso noti 17 capi d’accusa nei suoi confronti in accordo con il cosiddetto “Espionage Act” del 1917, mettendolo a rischio di una condanna fino a 170 anni di carcere sostanzialmente per avere praticato la professione del giornalista.

Sempre Melzer ha poi ricordato di avere descritto nel dettaglio il comportamento tutt’altro che imparziale e obiettivo dei tribunali britannici in una lettera indirizzata al governo di Theresa May. La persecuzione di Assange è stata evidente non solo dall’atteggiamento arrogante e intimidatorio dei giudici che hanno valutato la sua situazione, ma anche e soprattutto dalla sentenza sommaria emessa nei suoi confronti poco dopo l’arresto illegale della polizia di Londra all’interno dell’ambasciata ecuadoriana lo scorso 11 aprile.

Assange era stato condannato a una pena senza precedenti di 50 settimane di detenzione solo per avere violato i termini della libertà vigilata, oltretutto per sfuggire alla concreta minaccia di estradizione negli Stati Uniti. Non solo, il verdetto era stato formulato letteralmente poche ore dopo il suo rapimento per mano della polizia. Per il relatore ONU sulla Tortura, ciò è incredibilmente insolito, poiché, “secondo le consuete norme di legge, ci si aspetta che a un arrestato vengano concesse almeno un paio di settimane di tempo per preparare la propria difesa”. Il meccanismo della vendetta politica contro Assange si è infine concretizzato con la detenzione nella prigione di Belmarsh, solitamente destinata a ospitare terroristi e pericolosi assassini.

Nella vicenda di Julian Assange è così in gioco il principio stesso della libertà di stampa e il diritto di pubblicare documenti anche riservati che rivelino i crimini di un determinato governo. Parecchi media “mainstream” sembrano perciò avere riconosciuto, sia pure tardivamente, la minaccia rappresentata dalle accuse mosse contro il fondatore di WikiLeaks da parte dell’amministrazione Trump. A parte alcuni editoriali dai toni più o meno allarmati, non vi è tuttavia traccia di una mobilitazione a favore di Assange, mentre gli attacchi personali contro quest’ultimo sono continuati anche nelle settimane seguite al suo arresto illegale.

In definitiva, i media ufficiali in tutto l’Occidente continuano a essere sostanzialmente disinteressati alla sorte di Assange perché il suo lavoro e quello di tutti i membri di WikiLeaks rappresentano un esempio dell’integrità e dell’impegno giornalistico che la stampa odierna ha in larga misura abbandonato, essendo ormai controllata in buona parte da grandi interessi privati e ridotta a poco più di una cassa di risonanza della propaganda governativa.

Il caso Assange ha dunque accentuato le tendenze autoritarie di governi come quello di Londra, non a caso in perenne crisi politica e di legittimità. L’ex diplomatico britannico e commentatore indipendente, Craig Murray, ha sostenuto che la classe dirigente d’oltremanica “semplicemente si rifiuta di riconoscere le preoccupazioni sollevate dalle Nazioni Unite su Assange” e si affida “allegramente alla bolla di pregiudizi creata dalle élites politiche e mediatiche”.

Lo stesso ex ambasciatore britannico ricorda opportunamente come l’indifferenza di Downing Street per i richiami dell’ONU, oggettivamente umilianti per una presunta democrazia, non sia un fatto isolato, ma faccia parte di una deriva in atto da tempo che ha portato il Regno Unito a comportarsi da vero e proprio “stato canaglia”. In quanto tale, il governo di Londra “ha abbandonato il proprio appoggio”, anche formale, “al sistema basato sul diritto internazionale che, in buona parte, la Gran Bretagna stessa ha contribuito a creare”.

Se ciò è vero per questo paese, lo è evidentemente ancora di più anche per gli Stati Uniti, e vale anche per la Svezia, dove è stato riaperto il procedimento di estradizione in base alle vecchie e ultra-screditate accuse di stupro nei confronti di Assange, e l’Australia, paese di cui quest’ultimo è cittadino e che ha di fatto collaborato con Londra e Washington nella sua persecuzione. Per quanto riguarda la Svezia, lunedì un giudice di Uppsala ha respinto la richiesta di arresto presentata dai procuratori incaricati del caso Assange. Questi ultimi dovranno perciò limitarsi a interrogare il fondatore di WikiLeaks in Inghilterra, rinunciando invece all’estradizione.

L’accanimento contro Assange continua ad accompagnarsi a una condotta pubblica all’insegna della massima ipocrisia, necessaria a mostrare un’apparente aderenza ai principi democratici, senza la quale la vera natura di politici moralmente insignificanti come Jeremy Hunt sarebbe clamorosamente smascherata. A riprova di ciò, mentre Assange languiva nel lager di Belmarsh in condizioni di salute sempre più precarie, nei giorni scorsi lo stesso ministro degli Esteri britannico ha partecipato a un evento organizzato a Glasgow, in Scozia, per celebrare pubblicamente l’importanza della libertà di stampa e del lavoro dei giornalisti indipendenti, chiamati a rivelare i fatti sgraditi ai potenti.

In realtà, come dimostra il trattamento riservato a Julian Assange, l’unica forma di libertà di stampa tollerata dai governi di Londra o Washington è quella che si adegua alla linea ufficiale e le uniche voci del giornalismo “indipendente” che essi intendono sostenere sono eventualmente quelle che risultano convenienti alla promozione dei propri interessi in paesi rivali dal punto di vista strategico, come Russia, Cina o Iran.

La condotta del governo britannico nel caso Assange è notoriamente da collegare al servilismo nei confronti di Washington e, ancora una volta, a confermare questa realtà è stato in questi giorni lo stesso ministro degli Esteri di Londra, con un atto pubblico di vigliaccheria e di totale sottomissione agli interessi americani difficilmente eguagliabile.

Intervistato domenica da CBS News sulla sua candidatura alla successione di Theresa May alla guida dei “Tories” e del governo britannico, Hunt ha affermato falsamente che i “crimini” di Assange hanno causato la morte di numerose persone e che, in caso di successo nell’imminente voto interno al suo partito, non si opporrebbe alle richieste che intendono costringerlo ad “affrontare la giustizia” negli Stati Uniti. Ciò che l’aspirante leader conservatore intende per “giustizia” significa in realtà consegnare un autentico giornalista alla vendetta del governo USA ed esporlo alla minaccia concretissima di passare il resto della propria vita in un carcere americano.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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