A proposito del mito dell’imprenditorialità degli immigrati

di Salvatore Palidda

 

razzismo-vauro

L’Unioncamere ha diffuso un articolo pubblicato anche da «MigrantiTorino» dal titolo: «Imprenditori immigrati. 335 mila ditte individuali, in testa marocchini e cinesi».

Alcune conclusioni della ricerca a cui si rifà questo articolo possono essere considerate alquanto discutibili. In esso si asserisce che «le imprese individuali degli immigrati siano più capaci di affrontare la crisi rispetto a quelle degli italiani». E il commento del presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello è: «La crescente diffusione di queste iniziative imprenditoriali dimostra che l’impresa resta una delle strade migliori per l’integrazione e la coesione sociale».

Grazie ad alcune ricerche, già negli anni Novanta – vedi «Le développement des activités indépendantes des immigrés en France et en Europe» in “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 1992, vol. 8, n°1, pp. 83-96 http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/remi_0765-0752_1992_num_8_1_1596) – e poi all’inizio del 2000 (vedi «Immigrazione e imprenditorialità : il continuo adattamento» in “Impresa & Stato”, 59/2002, pp. 28-30
 http://www.mi.camcom.it/immigrazione-e-imprenditorialita) si era osservato che l’imprenditorialità degli immigrati è anche (e ora anche troppo spesso) l’effetto di una etnicizzazione funzionale alla logica liberista che si accentua anche a causa della crisi. Il lavoratore autonomo straniero è disposto ad accettare condizioni di lavoro, costi, oneri vari che l’autoctono è restio ad accettare. E l’immigrato imprenditore ha anche ricorso frequente a manodopera di connazionali spesso super-sfruttata o anche al nero. Nel subappalto, queste imprese sono l’ideale dal punto di vista liberista perché si fanno carico di ogni costo e anche di ogni rischio, mentre colui (italiano) che subappalta non rischia. Inoltre, in diversi casi, l’imprenditore immigrato si configura come una sorta di piccolo boss etnico (o anche etnico-religioso) che ha interesse a rinchiudere i suoi connazionali nella “gabbia” del gruppo o reticolo il che rende ancora più improbabile il loro inserimento e l’integrazione sociale e culturale perché queste persone non hanno interazioni con gli italiani! Ricordiamoci che da sempre l’immigrazione è spesso usata come straordinaria risorsa nell’interesse del Paese di immigrazione e di buona parte dei suoi cittadini, una risorsa pagata a caro prezzo dagli immigrati con anni di umiliazioni, angherie, super-sfruttamento se non neo-schiavitù e a volte neanche la chance di arrivare a godersi una modesta pensione. L’immigrazione è sempre servita alla riproduzione della gerarchizzazione sociale proprio perché l’ultimo arrivato è collocato al più basso rango della scala economica e sociale e se vuole “riuscire” la sua scommessa migratoria deve competere con i suoi stessi fratelli e con chi è arrivato prima e se è più capace e forte degli altri “sale”: per questo l’immigrazione si può combinare perfettamente con lo “spirito del capitalismo” (si pensi ai self made men e a tutti gli immigrati che hanno fatto degli Stati Uniti la prima potenza economica, militare e politica del mondo e lo stesso vale per tutti i Paesi d’immigrazione – vedi Mobilità umane e anche Emigrazione, immigrazione, mobilità: un fatto politico totale).

Ecco perché l’aumento del lavoro autonomo fra immigrati, in quanto tale, non è un buon indicatore di integrazione! Occorre invece sostenere la causa di un effettivo risanamento delle economie sommerse che riproducono immigrazione irregolare e neo-schiavitù, evasione contributiva e fiscale ma che possono essere risanate solo con la regolarizzazione di tutti (e fra i lavoratori al nero o semi-nero la maggioranza è di italiani). Ma ovviamente questo non si concilia con gli interessi dell’UnionCamere né del governo Renzi.

 LA VIGNETTA E’ DI VAURO

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