A proposito della religiosità, dell’etnicità e…

… della cultura dei migranti: ambiguità, imposture e manipolazioni

di Salvatore Palidda

«Quando mi si parla di identità o religione penso sempre di avere a che fare con qualche sbirro che mi chiede i documenti»  

Premessa

Spero che questo testo possa essere uno strumento utile per chi si occupa di inserimento e integrazione, convivenza e socialità fra autoctoni e immigrati e in particolare figli di immigrati. Invito ad avere pazienza e tempo di leggerlo perché le questioni di identità, religiosità, etnicità e cultura sono – per tutti – aspetti che occorre “prendere con le pinze”, da sempre facilmente manipolabili da parte dei dominanti approfittando della ingenuità o della banalizzazione correnti. La prospettiva di questo testo è necessariamente pluridisciplinare perché si tratta di elementi e aspetti che sono cruciali rispetto alla “funzione specchio delle migrazioni” cioè rispetto all’assetto economico, sociale, culturale e politico degli stessi Paesi dominanti. Ho cercato di evitare di farne un testo con le pesantezze dell’accademichese (non ci sono note e citazioni) sperando di interloquire anche con chi s’è occupato poco di migranti, religioni, culture e imposture varie in questi campi così come di “funzione specchio” e di “fatti politici totali”.

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Così come, da tanti anni, fa la Caritas nel suo dossier statistico annuale, la pretesa di misurare la religiosità degli immigrati adesso interessa anche la Fondazione Ismu (che però a volte produce stime affidabili, per esempio sugli irregolari o senza permesso di soggiorno –anche se non si precisa mai che in generale sono sempre persone già schedate e che hanno perso il diritto al rinnovo non per aver commesso reati ma perché la gestione della regolarità e dell’irregolarità riproduce irregolari utili a manodopera al nero …).

Nel documento pubblicato il 27/3/2018 (“Immigrati e religioni in Italia” http://www.ismu.org/2018/03/italia-gli-ortodossi-superano-musulmani/?utm_source=ISMU+Newsletter+1&utm_campaign=572b93036a-EMAIL_CAMPAIGN_2018_03_27&utm_medium=email&utm_term=0_534c9b0acc-572b93036a-64860445) questa Fondazione mostra una sfilza di dati statistici che secondo gli autori permettono di affermare quanti sarebbero i cristiani ortodossi, i musulmani, i cattolici e i praticanti di altre religioni.

Come ha scritto qualche (raro) autore, questa pretesa di “misurare” la religiosità degli immigrati è di fatto la negazione sia della libertà di appartenenza, sia delle variazioni di questa, fatto che riguarda tutti gli esseri umani e in particolare gli immigrati. L’emigrazione e l’immigrazione sono un processo di cambiamento dalla socialità nel Paese d’origine a quella nel Paese di arrivo, ossia un processo in cui le persone sperimentano una continua pluralità di interazioni con diversi soggetti sociali in diversi contesti. Se degli immigrati restano rinchiusi in reticoli o gruppi o “gabbie” di appartenenze specifiche di originari di una stessa zona, mantenendo apparentemente abitudini e costumi che fanno riferimento alla cultura e alla religione d’origine, è sempre innanzitutto perché non hanno la possibilità della libertà di cambiare. Una possibilità che è negata proprio dagli ostacoli all’inserimento e all’effettiva integrazione nella società di arrivo. L’ostilità e il razzismo sono ovviamente i primi fattori che negano la libertà di cambiamento, cioè di emancipazione. Ostilità e razzismo non sono solo appannaggio di fascisti e destre varie ma anche degli “integralisti pseudo-laici” (che appunto praticano un laicismo ideologico-religioso).

A questo si aggiunge – vedi caso – l’etnicizzazione degli immigrati, cioè la spinta a ghettizzarsi, a chiudersi nella “gabbie” prima citate che va di pari con la “nominazione” spesso autoritaria (è qui sta anche la pretesa di classificarli in base alla presunta religione che professerebbero). Va peraltro ricordato che questo tipo di meccanismo ha segnato la storia di una parte degli immigrati di varie origini in diversi contesti, in diversi periodi storici, sovrapponendosi anche all’assimilazione al paese d’immigrazione. Si pensi alla storia degli italiani e di altre nazionalità negli Stati Uniti e in parte anche altrove (in Germania agli italiani si applicava d’ufficio la trattenuta per la Chiesa cattolica sulla bustapaga senza neanche chiedere se fossero o no cattolici e chi se ne accorgeva e voleva rifiutare tale trattenuta – rarissimi anche perché significava essere bollati come “comunisti” sospetti di chissacchè – doveva andare a farsi fare una certificazione dal consolato …). L’etichettamento induce spesso ad auto-etichettarsi (ancor di più nell’infanzia e nell’adolescenza, ma anche per ciò che riguarda la stigmatizzazione dello straniero … “sei italiano?” ovviamente dici di sì anche se certo non ami tanti aspetti e le autorità di questo belpaese …). Non va però dimenticato che c’è sempre stata e c’è sempre una parte degli immigrati che rifugge gli “intruppamenti” nelle “gabbie” degli originari di una stessa zona e riesce appunto a emanciparsi, approdando sia a una sorta di cosmopolitismo (come aspirazione a essere “cittadini del mondo”) sia all’adesione a cerchie sociali e culturali della società di arrivo.

Nell’attuale contesto neoliberista l’etnicizzazione degli immigrati è nei fatti la politica privilegiata perché corrisponde esattamente alla configurazione di una società divisa in segmenti eterogenei, discontinui e instabili che sono spinti a essere in competizione o anche in antagonismo. Si ottiene così una frammentazione che ovviamente favorisce i dominanti a tutti i livelli e in tutti i settori o segmenti, cioè l’impossibilità dell’agire collettivo. Una divisione che – com’è ben noto – riguarda anche gli autoctoni pur se compagni o colleghi di lavoro (la moltiplicazione dei contratti a fianco della precarietà e del lavoro nero è appunto tipica del neoliberismo odierno). Il caporalato etnico o il boss etnico-religioso sono soggetti che dal punto di vista della produttività e della riduzione dei costi del lavoro e dei rischi propri al neoliberismo imperante svolgono un ruolo prezioso. Perciò è peraltro assai discutibile esaltare la cosiddetta imprenditorialità degli immigrati senza distinguere il self-made-man o woman da chi è spinto a fare il subappaltatore, il caporale o il falso-indipendente (cosa che riguarda anche gli autoctoni). Il padroncino o caporale immigrato o “etnico-religioso” è ideale dal punto di vista del committente autoctono perché si assume i rischi e si fa carico di schiavizzare i suoi compatrioti che allo stesso tempo sono costretti a ringraziarlo perché hanno difficoltà a trovare lavoro regolare e stabile. Si ricordi anche che le cosiddette mafie etniche – fra le quali “cosa nostra” – nascono proprio per assoggettare gli immigrati a condizioni di lavoro e di vita inferiorizzate.

Fra i tanti esempi dell’utilità dell’etnicizzazione, si pensi agli indiani classificati come sikh: è grazie a loro che l’allevamento delle mucche e la produzione di latte ha avuto uno sviluppo pare assai positivo facendo superare le serie difficoltà dovute alla meccanizzazione di questa attività. Lo stesso dicasi per altre nicchie nell’agricoltura, nell’edilizia, nella conceria ecc. Si veda fra altri casi recentemente svelati quello della valle della gomma di Sebino-Val d’Iseo, un ricco feudo della Lega basato sulla schiavizzazione dei migranti “neri al nero” così come la “mafia padana” scoperta a Milano1.

Allora a chi e a che serve “misurare” la religiosità degli immigrati? Serve –come scrive la Fondazione Ismu – a “sfatare in particolare il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’Islam”? E in base a cosa si afferma, per esempio, che buona parte dei marocchini sono musulmani come gli albanesi, i bangladesi, i pakistani, gli egiziani, i tunisini e i senegalesi? Peraltro, non è forse ben noto che l’Islam di chi fra questi ci crede differisce per ognuno di questi?

Forse ai giovani e anche più attempati ricercatori farebbe bene studiare la storia delle pratiche religiose di alcuni gruppi di italiani nei diversi Paesi del mondo. Ricordiamo solo che anche quando si tratta del culto del santo o della santa patrono/a del paesello d’origine si ha sempre ricodificazione: è un grossolano errore antropologico parlare di riproduzione di villaggi o etnie. Il santo o la santa (e ce li hanno anche i musulmani) degli immigrati sono venerati e invocati in funzione dei problemi, vicissitudini, sfide e obiettivi nella società di immigrazione … in altre parole, anche se hanno lo stesso nome, non sono più il santo o la santa del paesello d’origine. Ma questo fenomeno ha riguardato quasi sempre solo i “primo-migranti” mentre i figli si sono quasi sempre assimilati, anche se ora ci sono persino terze e quarte generazioni che riscoprono le origini. Ma, queste riscoperte sono valorizzate soprattutto quando diventano anche “redditizie” (vedi i personaggi del cinema, ecc. oppure anche quelli del commercio di prodotti nazionali o di cucina che trova spazio di mercato, insomma è un po’ ethnic business).

 

Le imposture del multiculturalismo e della multietnicità

Per decenni anche in Italia – e spesso “in buona fede”- è stato di moda l’obbrobrio dell’auspicio di una società multirazziale come invito alla convivenza fra autoctoni e immigrati, senza rendersi conto che così si ripropone la distinzione degli umani in razze. Ricordiamo che la razzializzazione degli esseri umani, oltre che una teorizzazione ideologica senza fondamento, è nata innanzitutto per giustificare il dominio dei bianchi europei, cioè la colonizzazione che Colombo praticava anche con lo sterminio degli indigeni asserendo che erano animali senz’anima e per questo faceva benedire gli squartamenti dai preti al suo seguito. I lombrosiani andarono oltre la pseudo teoria del razzismo biologico (il “nato delinquente” e l’atavico criminale ossia non “evoluto da animale a umano”); “le razze inferiori da trattare col ferro e col fuoco” erano sia i meridionali che i colonizzati refrattari alla civilizzazione europea e anche tutte le “classi laboriose” diventate – dopo il 1848 – “classi pericolose” cioè solidali con i sovversivi in antitesi alla costruzione dello Stato moderno e all’ordine e alla disciplina necessari per il progresso e il benessere (ovviamente soprattutto se non unicamente dei dominanti). Ora è diventato più comune e più politicamente corretto parlare di multietnicità o di multiculturalismo. Ma cosa è stato questo pseudo “modello” (melting pot) nella storia della formazione degli Stati che si sono nutriti di immigrazione? Spingere o relegare gli immigrati a configurarsi come etnie vuol dire etnicizzare, ghettizzare, cioè mascherare la razzializzazione che serve alla gerarchizzazione economica, sociale, culturale e politica. Gli Stati Uniti sono diventati la prima potenza economica, militare e politica del mondo inghiottendo continuamente milioni di immigrati (si veda https://en.wikipedia.org/wiki/History_of_immigration_to_the_United_States) e mettendoli costantemente in competizione o in lizza nella conquista del gradino più alto della gerarchia economica e sociale. I wasp si autodefinirono “nativi”, sterminarono gli indiani e poi si accanirono contro gli irlandesi perché cattolici e non wasp (bianchi anglosassoni protestanti). Poi fu il turno dei polacchi, degli ebrei, degli italiani e degli altri: l’ultimo arrivato era ovviamente destinato a situarsi al più infimo rango della scala sociale permettendo al penultimo di avere infine qualcuno più in basso di lui, cioè da sfruttare e magari umiliare per rifarsi di quanto prima subito. Checché pretenda fare Trump, è impossibile che gli Usa rinuncino a nutrirsi continuamente di immigrazione tanto più oggi che il neoliberismo la gestisce soprattutto col metodo usa-e-getta, limitando l’integrazione regolare solo a chi si mostra “bravo servo” o “buon selvaggio” o “scimmia ammaestrata” o gourkha da mandare a morire nei teatri di guerra o a fare lo sbirro contro neri e latinos. Fra altro si noti: dal 1990 al 2015 la popolazione degli Stati Uniti è aumentata di 70 milioni innanzitutto grazie all’immigrazione; é questa che ha garantito l’enorme crescita economica dal 1990 al 2008 come afferma la società di studi per il Congresso, la Rand Corporation; ciò sarebbe stato impossibile senza questa immigrazione e anche i 13 milioni di “clandestini” – a forte turnover cioè usa-e-getta che però pagano tasse e un loro costo della vita quasi doppio di quello dell’american citizen di pari condizione.

L’impostura del multiculturalismo è peraltro evidente non appena si constata che è impossibile la parità di culture fra quella del paese di immigrazione e quella degli immigrati. La cultura di questi è spesso solo cultura folklorica, popolare, o a volte solo frammenti di queste culture locali che non hanno alcuna chance di competere con la cultura dominante del Paese di immigrazione. L’immigrato è costretto a stare “schiscio”, a “camminare radendo i muri” (Sayad) a far sempre “buon viso a cattivo gioco”, cioè a mostrare di accettare di essere inferiore in tutto e di voler solo apprendere “come un bambino che non sa nulla” o come il “buon selvaggio” che è accettato solo se mostra di capire che tutto ciò che offre la società di immigrazione è buono, ha grande valore, è superiore a ogni altra cosa, è la sola CULTURA che vale. Per “non avere problemi” l’immigrato apprende subito che deve quantomeno far finta di situarsi laddove gli è stato detto e di mostrare di esserne contento! I paternalisti o i più buoni possono anche concedergli qualcosa, magari i clichés della cultura dominante del suo Paese d’origine (“sei egiziano? Allora disegna una piramide” … in una scuola qualcuno ebbe il buongusto di disegnare all’ingresso una sorta di murales che mostrava bambini neri quasi nudi attorno a capanne … questo avrebbe dovuto essere il messaggio di “accoglienza multiculturale” anche ai ragazzini africani … è poi abitudine invalsa “nominare” gli allievi stranieri in base all’origine nazionale dei genitori: “allora tu che sei marocchino, raccontaci come sono le piante dei datteri…” – a un ragazzino che magari è nato in Italia e che in Marocco non si sa se c’è mai andato …). Si procede così nel continuo etichettamento; di fatto, si vuole configurare una società “multietnica”, “multireligiosa”, “multiculturale” (tutti sinonimi anche se spesso usati inconsapevolmente) ossia una società in cui se non appartieni a questa o quella etnia, religione o cultura diventi quasi un “anomalo” (“ma come? Non ti riconosci nella cultura del tuo Paese? Nella bandiera della tua “nazione?” “Nella religione del tuo popolo?”). Lo scopo del discorso dominante e assai pervasivo nel cercare di costringere tutti a un’appartenenza classificata anche statisticamente (come fanno le survey anglosassoni in etnie) non è solo quello di produrre una segmentazione utile alla logica economica e sociale neoliberista (cioè alla competizione e l’antagonismo per aumentare la produttività e riprodurre la gerarchizzazione sociale). E’ uno scopo squisitamente politico: in una società multietnica/multireligiosa le persone sono titolari di doveri e diritti innanzitutto se non esclusivamente rispetto alle regole dell’etnia o gruppo religioso del quale fanno parte e che è disciplinato e quindi controllato dal capo etnico-religioso. In altre parole, in questo regime multietnico/multireligioso non c’è più lo Stato di diritto democratico in base al quale gli individui sono titolari di diritti universali (uguali per tutti) e quindi di doveri (perché non si possono avere doveri se non si ha prima il diritto di esserne titolari). L’individuo non ha più la libertà di cambiare appartenenza o di rifiutare di averne una fra quelle offerte dal mercato multietnico/multireligioso. Questo spiega perché è proprio la componente più conservatrice e illiberale delle diverse religioni a sposare (a modo loro) la causa multietnica/multireligiosa mirando a smantellare lo stato di diritto democratico. L’ideale di queste autorità religiose conservatrici è un regime in cui la pubblica amministrazione è appunto governata da una cogestione di compromesso fra i capi delle diverse religioni, in cui ci sono soltanto scuole religiose e magari polizie (ben muscolose) di ogni etnia. Certo, oggi quasi nessuno osa dirlo esplicitamente, ma progressivamente si tende a condizionare sempre più le scelte pubbliche affinché siano reverenti delle diverse religioni (perciò reclamano sempre più finanziamenti e riconoscimento del diritto di condizionare tali scelte). Questa tendenza è palesemente favorita dalla cosiddetta crisi dello Stato di diritto democratico, crisi provocata appunto dal neoliberismo sino all’eterogenesi della democrazia (i sistemi elettorali hanno totalmente espropriato l’effettivo diritto di voto, cioè di scegliere e controllare i propri rappresentanti, le scelte istituzionali e governative non rispecchiano per nulla gli effettivi bisogni, problemi e malesseri della maggioranza della popolazione –basti pensare all’occultamento dei rischi che provocano più mortalità mentre il governo della sicurezza non provvede ad alcuna bonifica e prevenzione delle cause di tale mortalità). E non è casuale che il discorso dominante sulla crisi politica e sulle possibili prospettive non menzioni mai ciò che invece preoccupa la maggioranza della popolazione, ossia la mancanza di effettiva tutela rispetto a chi dispone di potere finanziario-economico e istituzionale e lo usa per impoverire, sfruttare sempre di più sino a schiavizzare, mettere a rischio la vita stessa dei lavoratori e della popolazione. Non è casuale che sia ben raro trovare referenti politici, etnici o religiosi che favoriscano la dinamica collettiva per la lotta per l’emancipazione che non può che essere lotta per la libertà di appartenenza. Ecco perché le migrazioni hanno una funzione specchio, cioè rivelatrice anche dei più cruciali aspetti della società di immigrazione e perché sono un fatto politico totale in quanto investe ogni elemento e tratto caratterizzante dei singoli e delle collettività e dell’organizzazione politica della società.

Allora, anziché blaterare di multiculturalismo, multietnicità, multireligiosità, si pensi a come costruire ex-novo convivialità, socialità e agire collettivo per ciò che appunto serve all’emancipazione di tutti da ogni subalternità economica, sociale, culturale e religiosa.

NB:

Questo testo si rifà a riflessioni e studi diversi fra i quali: La doppia assenza, Cortina; Mobilità umane, Cortina; http://www.agenziax.it/wp-content/uploads/2013/03/razzismo-democratico.pdf; https://www.academia.edu/31846189/Estratto_da_Emigrazione_e_organizzazioni_criminali; https://www.academia.edu/33844971/Migrations_as_a_Total_Political_Fact_in_the_Neo-_Liberal_Frame.pdf; https://remi.revues.org/7509; http://revistes.ub.edu/index.php/CriticaPenalPoder/article/download/20385/22504; http://www.deriveapprodi.org/2018/03/resistenze-ai-disastri-sanitari-ambientali-ed-economici-nel-mediterraneo/

1Vedi http://www.la7.it/piazzapulita/video/lo-sfruttamento-nella-valle-della-gomma-21-03-2018-237090

http://www.la7.it/piazzapulita/video/piazzapulita-torna-nella-valle-della-gomma-23-03-2018-237295

– http://bergamo.corriere.it/notizie/cronaca/17_settembre_07/al-lavoro-balconi-garage-cortili-nero-valle-gomma-bergamo-af15168e-9397-11e7-8bb4-7facc48f24a3.shtml)

– http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/07/11/mafia-padana-organizzata-feroce.html?ref=search

LA VIGNETTA – scelta dalla redazione della “bottega” – è di MAURO BIANI

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • antonella selva

    Sono molto d’accordo, però mi piacerebbe leggere/ascoltare un commento dell’autore anche sullo “stile” di dominazione apparentemente contrapposto a quello “multi”-qualcosa, cioè l’assimilazione come obbligo sociale per poter essere “integrati” (parola cruciale) in società. Campione dell’assimilazionismo, come sappiamo è la Francia, al punto da sentirsi offesa da una donna che indossi un foulard in luogo pubblico, ma ho l’impressione che a livello popolare sia un paradigma molto diffuso in generale e nello specifico anche da noi, perché se ingenue maestre insistono a voler celebrare differenze e specificità africane o asiatiche trovate forse più nei libri che non tra i bambini in carne ed ossa in classe, non dimentichiamo le la masse di genitori che puntualmente insorgono se – dio non voglia – in una mensa scolastica per cambiare viene servito cuscus o malsopportano che qualcuno chieda l’esenzione dal maiale, chiaro segnale che si tratta di un nemico interno che prima o poi ci pugnalerà alle spalle (e sì, sono sempre quelli che intendono difendere i pargoli dal temibile gender). L’assimilazionismo si ammanta di quell’universalismo cui fa riferimento l’autore, ma nasconde in realtà la solita realtà rigidamente gerarchica: l’universalismo veramente universale è solo quello bianco (e ancora piuttosto maschio, nonstante tutto). E’ chiaro che l’assimilazionismo fa finta di aprire la porta ma in realtà la chiude, perché nessun nero (o arabo, o comunque immigrato) riuscirà mai competere con i francesi nella francesità, o con gli italiani nell’italianità, e comunque per entrare dovrà spogliarsi di tutto ciò che i dominanti ritngono non conforme (e se uno è abbastanza ubbidiente si può anche far finta di non notre il colore della sua pelle – ogni riferimento è puramente casuale, ovviamente). Forse è (anche) per questo che molti migranti scelgono di inalberare la propria “cultura” come una bandiera (e spesso anche molti/e loro figli/e, si pensi al fenomeno delle giovani musulmane “orgogliosamente velate” che stanno sempre più affollando le università italiane): sospettano che l’universalismo sia una trappola ai loro danni, rivendicano la legittimità di non conformarsi. Come gli afroamericani hanno gridato black is beautyful, gridano muslim is beautyful o qualsiasi altra cosa is beautyful – e hanno ragione.
    A me pare che dai migranti venga innanzitutto una domanda di diritti – è ovvio – ma in larga parte anche una domanda di riconoscimento della loro specificità e “non conformità” rispetto al modello dominante. Starei attenta al rischio del laicismo idelogico (e fanatico) d stigmatizzare le identità e le appartenenze: proprio perché non sono entità statiche e date una volta per sempre non è affatto detto che un’identità abbracciata in opposizione a un dominio che si veste di universalismo non venga poi rielaborata e produca qualcosa di nuovo o riscopra antichi significati di emancipazione accuratamente seppelliti dalle élites. Le religioni sono polisemiche e di una elasticità sconcertante, ricordiamoci che nella nostra storia il cristianesimo ha dato copertura ai poteri più oppressivi e alle rivolte più anarchiche e estreme.
    Quindi sono molto d’accordo con l’auspicio dell’autore in conclusione all’articolo, di puntare a costruire ex novo convivialità, socialità e agire collettivo, senza preoccuparsi troppo delle identità che vanno a formare questa colletitvità

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