A (s)proposito di storytelling

Narrare storie: Pierluigi Pedretti torna su alcune riflessioni di John Berger

Oggi che anche lo storytelling è stato sottoposto all’ennesima operazione di mercificazione tipica del moderno capitale globalizzato e utilizzato dalle sue agenzie per convincere sulla bontà dei suoi prodotti – siano essi industriali o massmediatici – mi viene da recuperare dagli appunti un intenso incontro con l’allora (per me) sconosciuto John Berger proprio su quelle che erano – e sarebbero – invece le straordinarie e alternative possibilità del “narrare storie”. Un modo anche per ricordarlo a quasi un anno dalla sua morte (Parigi, 2 gennaio 2017).

«I cieli mutano non solo in funzione del tempo atmosferico, ma anche sulla base dei cambiamenti storici (…) e se guardo al cielo vedo qualcosa che attende, un movimento che, aspettando, prepara lalternativa per la sopravvivenza. Vedo una sorta di immanenza. Se guardo allo specchio che mi offre il cielo, vedo uno spazio che contiene dentro di sé tutte le persone che tentano di restituire un senso alle loro vite». Così Berger dichiarò dieci anni fa, nei giorni dell’XI edizione del Festivaletteratura.

Per il critico d’arte, pittore e scrittore britannico, che con il romanzo «G.» aveva vinto anni prima il prestigioso Booker Prize, tutto iniziava dallo sguardo, momento centrale delle nostre esistenze, non legato solo alla sfera dei sensi ma a quella più complessa fatta di vita vissuta, di memorie e di storie.

Era il settembre 2007 quando giunsi per la prima volta a Mantova. Da pochi mesi era morto mio padre. Avevo bisogno fisico di uscire dalla mia Calabria, era necessario per me elaborare il lutto andando a Nord, là dove potevo individuare le mie radici; avevo bisogno di due luoghi per me simbolici: Mantova, dove in quei giorni si concentra(va) l’amata letteratura, e il Trentino, la terra natia della mia famiglia paterna. Fra gli incontri del Festival a cui assistetti, uno in particolare mi colpì, quello con Berger, che si intrattenne nella città dei Gonzaga per due giorni. Accompagnato dallamica traduttrice Maria Nadotti, egli parlò la prima volta sul tema «La tenda rossa di Bologna», ispirato dallomonimo racconto, letto e interpretato nel Cortile del Castello di San Giorgio insieme a Giuseppe Cederna. Nume tutelare della serata lo zio Edgar, infaticabile ed eccentrico viaggiatore, che raccontava alladolescente nipote della città e di quanto fosse rossa. Di un rosso unico, non argilla o terracotta, ma di un rosso rosso. La storia del viaggio emiliano colpì tanto John Berger, che quando poté recarsi a Bologna (diversi anni dopo) vide quello che aveva già veduto attraverso i racconti dello zio: le immagini di passeggiate con lui sotto gli infiniti portici, di un bel piatto di tagliatelle, di acquisti di qualche metro di quella stoffa. Rossa. Eil fascino dello storytelling, che fu anche l’argomento principale del secondo incontro mantovano («Avere caro questo mutilato mondo») trattato insieme al tema della condivisione del dolore altrui. C’è un sesto senso che sovrasta gli altri cinque, raccontava Berger. Ha a che fare con la protezione delle storie. La gente associa il narrare normalmente allinvenzione. Il fatto vero è che però le storie sono già in mezzo a noi. Non si tratta di inventare (può accadere) ma di proteggere la storia, che di solito si trova per strada. Il miglior narratore di storie (storyteller) è quasi sempre una donna; luomo può esserne capace se si spoglia della sua virilità. Ma gli uomini narrano solo di vittorie o di sconfitte. Le donne di altro. Estato sempre così. La tradizione persiste ancora nelle campagne, dove le protagoniste rimangono sempre le donne. Lo scrittore inglese diceva di quanto esse siano incredibili narratrici (ricordavo, mentre lo ascoltavo, la straordinaria bravura di mia madre, della comare Zenaide, di mia nonna) limitandosi a consegnare le storie altrui come farebbe un postino con un pacco. Non solo, però. Il postino-narratore/trice deve scoprire il sentiero per giungere a destinazione. Per trovare la strada giusta bisogna individuare la voce che narra la storia. La narratrice deve capire qual è la voce giusta che deve usare per sostituire quella originaria. La lezione di Berger era chiara: all’interno di una umanità dominata dalla tirannia economica, che è puro caos, che ci strappa perfino il senso delle parole, è importante recuperare le innumerevoli storie della nostra vita.

Per ritessere i fili spezzati di questo mutilato mondo «dobbiamo respingere il discorso della nuova tirannide, perché le parole e i concetti di cui si serve non sono altro che sciocchezze. Ragionamenti, annunci, conferenze stampa e minacce si ripetono all’infinito usando termini come democrazia, giustizia, diritti umani, terrorismo. Ma ogni parola è usata in un contesto in cui vuol dire l’esatto contrario di quel che significava prima. (…) Dialogarci è impossibile. Per vivere e morire decorosamente, dobbiamo chiamare le cose con il loro nome. Reclamiamo le parole» (J. Berger «Abbi cara ogni cosa», 2007).

Redazione
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Un commento

  • Giovanni Martire

    Come sempre succede con i tuoi testi, ho letto qualcosa di godibile e come sempre riesci a suggestionarmi.
    Il brano che riporto sotto mi ha ricordato il mio casuale, personale, incontro con Nuto Revelli quando era qui a Cosenza per raccogliere parte dei materiali che avrebbe pubblicato nel suo “L’anello forte”.
    Nuto la pensava esattamente come Berger riguardo la capacità narrativa delle donne.
    “Il miglior narratore di storie (storyteller) è quasi sempre una donna; l’uomo può esserne capace se si spoglia della sua virilità. Ma gli uomini narrano solo di vittorie o di sconfitte. Le donne di altro. E’ stato sempre così. La tradizione persiste ancora nelle campagne, dove le protagoniste rimangono sempre le donne.”
    Chiudo inviandoti, forse non a (s)proposito, un link a uno scorcio di sito

    http://retedelritorno.it/quel-che-resta-litalia-dei-paesi-fra-abbandoni-e-ritorni-di-vito-teti/

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