Addio a Benedict Anderson, grande intellettuale controcorrente

di Marco D’Eramo (*)

BenedictAnderson
Il 12 dicembre a 79 anni è morto a Batu nell’isola di Giava Benedict Anderson, uno dei pensatori più originali e profondi, uno degli intellettuali più fini e colti della seconda metà del XX secolo. È stato anche una persona di incredibile umanità e calore umano: l’ho conosciuto nella primavera del 1993 all’Università di Chicago, dove era in visita, e poi abbiamo continuato a scriverci e a discutere.

La sua fama in tutto il mondo deriva dal libro del 1983 Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, che è stato tradotto in più di 25 lingue e di cui il sito Worldcat censisce 127 edizioni (oltre a 56 della versione francese): nel 1996 ne ho curato la versione italiana presso la manifestolibri (Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi).

Ma tra gli oltre 20 volumi che ha scritto, vi sono, tra le altre, perle come The Spectre of Comparision. Nationalism, Southeast Asia and the World (20 edizioni dal 1998) e Under Three Flags. Anarchism and the Anti-Colonial Imagination (19 edizioni dal 2005).

Cosmopolita e poliglotta (era fluente in giavanese, basa indonesiano, tagalog, thai, oltre che nelle più importanti lingue europee), Ben era nato in Cina nel 1936 da madre inglese e padre irlandese in quel momento funzionario delle dogane cinesi. Nel 1941 la famiglia si trasferì negli Stati uniti per sfuggire all’invasione giapponese, e quindi nel 1945 in Irlanda. Fratello dello storico (e animatore della New Left Review) Perry Anderson, Ben studiò nel prestigioso collegio di Eton, prima di iscriversi a Cambridge dove nel 1957 si laureò in antichità classica per poi stabilirsi negli Stati uniti e iscriversi per il Ph. D. all’università di Cornell, in cui scelse la politica indonesiana come soggetto della sua tesi di dottorato che discusse nel 1967: ebbe così modo di assistere all’esperienza di Sukarno, al colpo di stato militare del 1965, al massacro di 500.000 comunisti, all’ascesa di Suharto. Nel 1971 fu uno dei pochi occidentali che assisterono al processo farsa del Partito comunista d’Indonesia che raccontò nei Cornell Papers, ragion per cui nel 1972 fu espulso dall’Indonesia: vi poté tornare solo nel 1998 quando cadde Suharto. Anderson è stato ordinario a Cornell fino al pensionamento nel 2002, quando è diventato Emerito.

Imagined Communities è uno delle tre opere che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 imposero una svolta al pensiero storico. Gli altri due saggi erano Orientalismo (1979, trad. it Bollati Boringhieri 1991) di Edward W. Said e Invenzione della tradizione (1983, trad. it. Einaudi 1987) di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger. In comune a tutte queste tre opere c’è l’idea che un modo tipico con cui la modernità produce il domani è quello di costituirsi uno ieri. Plasmare il nuovo inventando una tradizione. Si crea una comunità inedita immaginando di appartenere a una remota e dimenticata: l’esempio più vistoso di invenzione della tradizione citato da Hobsbawm e Ranger è quello del kilt, il gonnellino simbolo di ancestrale scozzesità, che in realtà è stato prodotto per la prima volta dopo l’annessione della Scozia all’Inghilterra e per di più per opera di un industriale inglese.

La prima tesi del libro di Anderson è dunque contenuta nel titolo: individui anche lontani tra loro, che non si conoscono, immaginano di appartenere a una comunità, la nazione, che finiscono per considerare primigenia e sempre esistita da un tempo immemorabile. Ed in effetti le “nazioni” sono comparse solo alla fine del ‘700, ma si porgono a noi come se fossero sempre esistite. Anderson fornisce esempi a bizzeffe che convalidano questa tesi. Nazioni sono state immaginate nel XIX secolo quando in pochissimi parlavano il supposto “idioma nazionale” (come avvenne in Ungheria).

La seconda tesi è che non a caso il nazionalismo non è solo una dottrina politica, è una formazione culturale confrontabile con le religioni: “Il modo incredibile in cui, per migliaia di anni, buddismo, cristianesimo o Islam sono riusciti a sopravvivere in dozzine di diverse formazioni sociali testimonia la forza della loro risposta allo schiacciante fardello dell’umano soffrire – malattie, mutilazioni, dolore, vecchiaia e morte. Perché sono nato cieco? Perché il mio migliore amico è paralizzato? Perché mia figlia è ritardata? Le religioni cercano di spiegare. La grande debolezza di tutte le correnti di pensiero evoluzioniste-progressiste, incluso il marxismo, è che a tali domande rispondono con impaziente silenzio. (…) Il secolo dei Lumi, del laicismo razionalista, portò con sé la propria moderna oscurità. Con l’indebolirsi della fede religiosa, non scomparve la sofferenza che la fede leniva. Disintegrazione del paradiso: niente rende più arbitraria la fatalità. Assurdità della salvezza: niente rende un altro genere di continuità più necessario. Indispensabile era dunque una trasformazione laica di fatalità in continuità, di contingenza in significato. … Poche entità erano, o sono, più adatte a questo scopo dell’idea di nazione. Se le nazioni-stato sono considerate “nuove” e “storiche”, le nazioni a cui danno espressione politica affiorano sempre da un antichissimo passato e, cosa più importante, scivolano verso un futuro senza limiti (…) Non sto suggerendo che in qualche modo il nazionalismo “rimpiazzi” storicamente la religione. Quel che sto proponendo è che il nazionalismo va interpretato commisurandolo non a ideologie politiche sostenute in modo autocosciente, ma ai grandi sistemi culturali che l’hanno preceduto, e dai quali o contro i quali, esso è nato” (pp. 28-29) .

Anderson va controcorrente anche quando mostra che in realtà il nazionalismo è nato prima nelle Americhe, nelle borghesie creole iberica e britannica e che solo poi questo modello americano è stato “piratato” dai nazionalisti europei. Per capire il modo di ragionare di Anderson ecco un esempio. Egli si pone la questione: perché non si sono formati gli Stati uniti dell’America ispanica? Una delle ragioni sta nel ruolo che, nel costruire la comunità immaginata di nazione, gioca la comunità reale dei “pellegrini burocratici”, cioè dei funzionari creoli che amministrano le colonie e che per assurgere a queste cariche devono compiere pellegrinaggi nella madrepatria. Ora, mentre nei futuri Stati uniti del Nordamerica, un aspirante funzionario andava a Londra per la sua formazione professionale e poi tornava a esercitare la sua funzione ovunque (poteva farlo nel Massachusetts anche se era della Georgia, e viceversa), invece nell’America spagnola non era così: il funzionario creolo di Lima andava sì a formarsi a Madrid, incontrando altri creoli, ma poi doveva tornare a esercitare in Perù, e non poteva farlo a Bogotà o a Buenos Aires: così nessuno di questi funzionari sentì mai di appartenere a una stessa comunità.

Un altro concetto introdotto da Anderson è quello “di capitalismo a mezzo stampa” (print capitalism). Oggi sembra assurdo, ma l’editoria, che ora è un settore minore, periferico e di nicchia, è stata per un periodo, nel XVI e XVII secolo, l’industria più avanzata, la forma di capitalismo più evoluta dell’Occidente, con un mercato multinazionale e, per la prima volta, una diffusione di massa dei suoi prodotti (nel 1500 erano stati stampati già più di 20 milioni di volumi che erano diventati 200 milioni nel 1600). È questo print capitalism che sancisce il declino delle grandi lingue sacre (come il latino) a favore dei vernacoli nazionali. Anderson ci fa notare che solo nel 1780 la burocrazia asburgica smise di usare il latino come lingua di stato e adottò il tedesco: ma da quel momento in poi i sudditi croati, veneti, magiari e lombardi che prima erano governati da una lingua neutra furono comandati in una lingua straniera.

Anderson ti fa pensare a cose che avevi sotto gli occhi ma non vedevi. Un memorabile capitolo di The Spectre of Comparisions racconta come alla fine della prima guerra mondiale furono inventati i “cimiteri militari”, i “sacrari”, in cui le tombe dei soldati defunti erano schierate in parata come da vivi, con croci tutte uguali. Le croci degli ufficiali non erano distinte da quelle dei soldati semplici, né gli scozzesi potevano differenziarsi dai gallesi (o i pugliesi dai toscani, potremmo aggiungere noi). Addirittura in Gran Bretagna un’apposita Commissione per le Tombe decise che a ogni famiglia era consentita un’iscrizione il cui contenuto doveva essere approvato e lunga non più di 66 caratteri (un dazio era applicato a ogni carattere).

Senza farla troppo lunga, il mio consiglio è che chi non ha ancora letto Imagined Communities dovrebbe affrettarsi a farlo, e magari cominciare a riflettere su quali comunità sta permettendo d’immaginare il “capitalismo a schermo”, dopo che il “capitalismo a stampa” ha nutrito i nazionalismi.

C’è un’ulteriore ragione che dà ad Anderson una dimensione classica, ed è la sua sensibilità estetica che ne rende la scrittura ineguagliabile. I suoi saggi sono nutriti dai romanzi (che non per nulla, insieme ai giornali quotidiani, sono le grandi forme del nazionalismo borghese), di filippini (José Rizal), indonesiani (Eka Kurniawan), thai (Chit Phumisack). Per quanto riguarda la sua scrittura, solo un esempio tratto da un saggio del 1992 sulNew World Disorder” (New Left Review n. 193) che avevo tradotto e incluso nella versione italiana delle Imagined Communities:

“I corpi umani, trascinati nel vortice del mercato, non sono semplicemente un’altra forma di merce. Come seguono la scia di grano e oro, gomma e tessili, petrolchimica e chip di silicio, portano con sé memorie e abitudini, credenze e usi culinari, musiche e desideri sessuali. E queste caratteristiche che, nei paesi d’origine, sono portate con leggerezza e quasi inconsciamente, acquistano un risalto drasticamente diverso nelle diaspore della vita moderna. La dimensione e la velocità di queste moderne migrazioni guidate dal mercato ha reso difficilissime tutte le forme tradizionali di assimilazione graduale ai nuovi contesti.”

Forse il modo migliore per onorare un grande come Benedict Anderson sarebbe pubblicare in italiano anche altre sue opere. Ciao Ben.

(*) da «MICROMEGA», 16 dicembre 2015

 

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