Addis Abeba cuore africano

di Gabriella Ghermandi (*)

Nonostante tutto pulsa,

Pulsa ancora Addis Abeba, cuore africano.

Ai bordi delle arterie un tempo verdi di prati e colline 

ora sorgono palazzi,

lucidi di vetrate,

nello stile di Dallas,

E’ il risultato della diaspora

di ritorno dall’America.

Ne sorgono in quantità infinita,

pronti ad assemblarsi in foresta.

E giù vecchie case in stile indiano,

E giù vecchie case in stile italiano,

Bisogna fare posto alle torri di cemento,

fiore all’occhiello di chi crede alla decorazione delle cornici,

più che alle misure, alle proporzioni.

E il contenuto?

Per quello ci penseremo… nel tempo futuro.

Pulsa ancora Addis Abeba ma tutto sembra cambiare

E piango pensando ai tempi in cui

andavo a cavallo dove ora sorge friendship building,

Boston SPA, Alem Cinema…!

Piango e mi chiedo: dove sei finita Addis mia?

dov’è il fiume in cui ci bagnavamo da bambini?

Al suo posto ora c’è solo uno scorrere di acqua sporca e puzzolente.

Il fiume mio è morto.

Ma poi dalla grande arteria mi inoltro in una strada laterale,

e da quella svolto ancora, in uno sterrato,

e ancora dentro, più dentro, nel centro del quartiere.

E lì che ti ho ritrovata, nei luoghi della gente comune.

Dove i bambini giocano come un tempo,

con la palla di stracci, che penzola legata con una lunga corda

al palo di legno della luce.

E tutti attorno al palo e pronti a colpire.

E si parte.

Un calcio, un altro, un altro ancora.

Perde chi non calcia al momento giusto,

e la palla va ad arrotolarsi al palo.

E chi perde paga penitenza:

portare in groppa tutti i compagni di gioco, uno alla volta,

fino alla strada asfaltata.

Più in là

Le donne stendono le spezie e il peperoncino

su stuoie intrecciate,

perché le spezie hanno bisogno di sole prima di essere macinate,

serve a saldare il sapore.

Oltre ancora c’è l’angolo.

L’angolo sacro del consiglio degli anziani,

le matasse delle liti le sbrogliano tutte loro,

e in ringraziamento i litiganti offrono loro

bottiglie di areki.

Ci sono settimane in cui gli anziani del consiglio

sono sempre ubriachi.

Ma non la smettono mai di litigare in questo quartiere

urlano all’aria i loro famigliari

quando li vanno a ritirare dall’angolo.

Addis Abeba mia bella,

sei diventata una metropoli africana,

ma per chi conosce la tua anima,

tu mantieni un centro segreto.

Dopo un primo disorientamento,

Ho cercato il coraggio,

tolto uno ad uno veli che ci separavano e

tu mi sei apparsa .

Nel tuo grembo pulsa ancora la malia del piccolo villaggio

dove tutti hanno un volto,

anche i barboni,

che in amharico hanno un nome poetico Beranda Adarì

Dorme nella veranda

Beranda, storpiatura della parola veranda ,

una delle tante vecchie reminiscenze del tempo degli italiani.

Anche l’idea di barbone appartiene a quel tempo.

Prima non esisteva il concetto che chi dorme per strada

sia uno senza fissa dimora.

Era uno che dormiva per strada e basta.

Nel mio pezzo di strada interna c’è un Beranda Adarì.

Si chiama Alex, sta sempre seduto vicino al suk del garage,

nella speranza che gli acquirenti di Qaat,

gli mollino qualche foglia da masticare.

Lo conoscono tutti Alex,

lo ha adottato tutta la gente del rione,

con i suoi denti rotti, i capelli rossicci,

scoloriti dal sole.

Qualche vecchia mamma gli rammenda gli abiti

e glieli bonifica dai pidocchi,

qualche vecchio padre gli rasa i capelli quando

diventano troppo lunghi e indecenti.

I tassisti gli offrono da bere.

E Alex, vive e sorride e canta le canzoni di Tlahun Gessese.

Gli piace cantarle quando è ubriaco.

Seduto, si dondola, restando pericolosamente in bilico su un’anca,

in quella strana arte che è accessibile solo agli ubriachi

Alex guarda che cadi, cadi! dice la gente

ma Alex non cade mai, resta miracolosamente, a dondolare.

Un sabato aveva deciso di allietare la nostra casa,

si era messo davanti al nostro cancello,

per cantare a squarciagola Ewedish nebere .

Il proprietario del caffé Bright ha mandato il suo giovane guardiano Kedir,

per cacciarlo,

E Kedir è arrivato, e lo ha portato via,

come si farebbe con un bambino piccolo, molesto,

a cui la madre indulgente non ha insegnato l’educazione.

Io sono uscita quel giorno,

sono stata in giro fino al tardo pomeriggio.

Quando sono tornata al tramonto

Kedir stava seduto sullo scalino del negozio di souvenir di terrecotte,

in mano un bastone,

davanti a lui Alex in piedi, ubriaco e con la faccia sorniona

Oggi ha dato fondo alla mia pazienza ha detto Kedir

indicando Alex con un mezzo sorriso

Non c’è stato verso di togliergli la sua idea dalla testa.

Voleva cantare, cantare per te e la tua famiglia, perché

presto partirai per tornare nella terra dei bianchi e lui

vuole salutarti oggi perché del domani nulla è certo.

Alex, mi spunta in mente spesso,

con le sue stravaganze che non si lasciano scordare,

come quella di dormire sulla moquette verde che ricopre gli scalini,

nell’entrata del negozio di tendaggi,

perché il figlio dell’uomo è nato per dormire nei prati, dice,

e in mancanza di quelli… si accontenta della moquette.

Mi spunta spesso in mente perché in occidente non sarebbe possibile avere un Alex.

Come tante altre persone di questa magica città,

come la vecchia monaca eremita che vive di elemosina.

I suoi occhi sono avvolti da una cataratta stellata.

Il bordo scuro si è scolorito facendosi azzurrognolo.

E’ quasi cieca e quando la incontro mi abbraccia

Ah! – dice sei tu? Ti riconosco dall’odore ,

Io ricambio l’abbraccio e le allungo cinque o dieci birr Mi scusi madre, non ho di più

Lei sorride con un sorriso birichino, da ragazzina.

Sventola la banconota Mi hai fatto dono di un pezzo grosso, con questo ci vivo tanti giorni

e poi come a leggermi nel pensiero

I soldi li riconosco dalla carta. I pezzi da un birr sono lisi come i miei vecchi vestiti

e ride, ride e si incammina, appoggiandosi al bastone,

verso la sua chiesa: Bole Medania Alem.

Addis Abeba mia bella, speriamo che resti sempre

il tuo centro nascosto, la tua anima di villaggio.

Mi viene paura quando mi trovo a camminare nei nuovi quartieri,

i quartieri dei ricchi,

con il muro di cinta alto, il filo spinato con l’elettricità.

Ci stanno provando in tutti i modo a cancellare la tua magia,

la capacità di far vivere ricchi e poveri uno a fianco all’altro.

Ci sono certi tuoi figli che credono che la felicità si trovi nella materia dell’appariscenza:

stappare una bottiglia di un costoso champagne allo Sheraton,

bere all’Hilton un cappuccino che costa quanto metà dello stipendio del cameriere,

la villa con la vasca idromassaggio,

mescolare con un atteggiamento di superiorità l’amharico con l’inglese,

dimentichi della loro infanzia,

quando si lanciavano in volo giù per una discesa,

seduti su un carretto di legno rimediato

con le ruote fatte di cuscinetti a sfera.

Giù, verso il centro di quel tuo cuore pulsante

che oggi cercano di cancellare.

E mi chiedo se sia mai possibile trovare un modo per

avere il benessere senza il veleno della dimenticanza,

avere bene in mente che la dolcezza della vita si trova nel nocciolo dell’essenziale,

e tu ce lo hai sempre donato Addis Abeba.

Ricordarsi che non è nell’opulenza la radice della felicità,

che la crescita economica può servire per tante cose,

a condizione che non cancelli il sacro preesistente.

E fin che i ricchi non capiranno ciò,

Addis mia, ti prego, tu nasconditi come sai fare,

renditi inafferrabile

e rivelati solo a noi che ti sappiamo amare.

(*) Gabriella Ghermandi è una regina di perle e di fiori ma anche di storie intrecciate, di canti e di suoni (vedi qui in blog il 29 dicembre 2013); per saperne di più digitate il suo nome in “cerca”. Ancor meglio però andarla a sentire quando racconta e/o canta (db)

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