Adler-Olsen, Bussi, Carlotto, De Cataldo, De Giovanni, Greene e Manotti

7 recensioni (giallo-noir e spy stories) di Valerio Calzolaio

Dominique Manotti

«Il bicchiere della staffa»

traduzione di Francesco Bruno

Sellerio

(originale «À nos chevaux», 1997; prima edizione italiana Tropea 2003)

288 pagine, 14 euro

Parigi. Estate-autunno 1989. Il commissario della narcotici Théo Daiquin, spalle larghe e buoni muscoli per un metro e ottantacinque, volto squadrato, occhi castani, propensione per i maschietti (non esclusiva), ha superato i quaranta e vive nel XIV°, un’ora di cammino tutte le mattine fino al mitico Quai des Orfèvres. Il suo amante tedesco Rudi è attratto dai fatti di Berlino. Ora un’informatrice colombiana dell’ispettore Romero è stata trovata sgozzata nella toilette dell’ippodromo di Longchamp, contemporaneamente ad altri delitti e attentati nel mondo dell’ippica, sempre connessi a grandi traffici di droga. Vivida indagine di squadra. Buon secondo atto della stupenda serie per Dominique Manotti (Parigi, 1942), storica ed ex sindacalista, ancora in terza persona varia al presente, come flash di una sceneggiatura ben documentata sul capitalismo reale. Letteratura (nera) e musica (jazz) di qualità. Bellissimo pure “Il bicchiere della staffa”, ora opportunamente riedito da Sellerio.

 

Maurizio De Giovanni

«Una lettera per Sara»

Rizzoli

334 pagine, 19 euro

Napoli. Aprile 2020. Un lunedì mattina alle 11 il vecchio afflitto ex vicecommissario Fusco interrompe il sacro irrinunciabile rito del caffè dell’ispettore Davide Pardo nel solito anonimo locale. Era stato suo superiore e lo aveva aiutato in un momento cruciale, ora ha un tumore allo stomaco all’ultimo stadio e gli chiede di favorire, con procedura poco ortodossa, il colloquio con l’anziano detenuto 67enne Antonino Nino Lombardo che lo ha mandato a chiamare e sta messo pure peggio. Pardo è perplesso, ancora non sa che c’è un qualche nesso con una storia del maggio 1990, circa trent’anni prima: era scomparsa la brava calma ingenua commessa di una libreria antiquaria, dopo aver rinvenuto per caso nella guida Things Seen In The Bay of Naples una lettera scritta con grafia elementare nella quale si parlava di un regalo da consegnare a Maddalena, libro venduto da un figlio in cerca di una dose e riacquistato a seimila lire da un padre affannato e scortese, proprio per riprendere quel prezioso foglio. Come ogni lunedì sera Sara Mora Morozzi cucina a casa di Viola, la madre del nipotino Massimiliano, ex compagna del defunto figlio, fotografa e investigatrice nata, un appuntamento cui partecipa, in qualità di amico e zio acquisito, anche Pardo che racconta quanto gli è accaduto; il nome del carcerato dice qualcosa a Sara, ha un vago ricordo di un teso accalorato incontro col suo superiore e poi compianto amore Massimiliano Tamburi, dialogo che lei aveva seguito e interpretato a distanza. Torna a casa e va a verificare nel segreto archivio cartaceo ereditato proprio dal capo della segreta unità dei Servizi dove lavoravano, non trova nulla, molto strano. Prova a rivolgersi all’amico ed ex collega cieco Andrea Catapano, in pensione da sette anni; un lieve tremore del mento le fa capire che ne sa qualcosa ma lui dichiara di non ricordare nulla al riguardo. C’è una catena di segreti e misfatti da svelare e qualcosa che mette in crisi la fiducia sincera di Sara per l’amore.

Consolida il successo la nuova interessante serie di Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958): Sara risolve anche tristi antichi intrighi, ancora nella stessa città contemporanea del tifosissimo autore. Mora era una brillante graduata della Polizia di Stato, sposata con prole, prima di entrare nella sede napoletana dell’unità speciale che veglia sulla sicurezza nazionale (fra misteriosi rituali e codici oscuri) e di innamorarsi del bravo leale democratico Capo, Massimiliano Tamburi, più vecchio di 23 anni, intensamente ricambiata. Per lui aveva abbandonato un marito fedele e un pargolo piccolo, conducendo poi con fermezza e coerenza un’altra esistenza in coppia, nel lavoro e fuori, finché si era ammalato. Sara aveva lasciato tutto, ritirata a invisibile vita privata per assisterlo. Da qualche anno sono morti prima Massi, 76enne, indi Giorgio, il figlio (abbandonato) in un incidente stradale. Lei ha ormai circa 55 anni, si è nascosta da tutto e tutti, pur colta e vivace, riservata e sostanziosa, finché non ha scoperto il nipotino. La narrazione è più che altro in terza persona, al passato sui vari personaggi alle prese con vicende (antiche e contemporanee) destinate a intersecarsi per il tramite di un ragazzo poco più che ventenne, dagli occhi scuri e penetranti, i ricci neri, la pelle olivastra, all’inizio conflittuale poi oggettivamente alleato rispetto alla squadra di Sara. La lettera del titolo appare nella prima scena, ma non è l’unica che contrassegna il romanzo e i destini intrecciati: vi sono quella non scritta che Lombardo consegna a un infermiere prima di morire (con conseguente senso di colpa di Pardo), quella forse indirizzata a Sara stessa dal reticente Massimiliano (all’insaputa pure dell’amica e attuale responsabile Teresa Bionda Pandolfi), quella con i risultati delle analisi del sangue del nipotino che annuncia un tema del prossimo romanzo della serie. Viola si difende dalla pessima madre con Marvin Gaye e Mamas & the Papas.

 

Michel Bussi

«Usciti di Senna»

traduzione di Alberto Bracci Testasecca

Edizioni e/o

(originale 2008, «Mourir sur Seine»)

474 pagine, 17 euro

Rouen, Normandia. 4-14 luglio 2008. Una mattina dell’ottobre 1983 Muriel era nel fuoristrada con marito e figlia lungo la valle e l’estuario della Senna, li stava accompagnando a immergersi nei misteri del fiume, lui sub esperto e parecchio ossessionato. Lei, nell’attesa di vederli riemergere, era solita passeggiare nei piccoli paradisi verdi. Quella volta la caletta era vicina al marais, a un terreno paludoso pieno di uccelli, una meraviglia! Il fatto fu che da una settimana si era aperta la caccia e Muriel non lo sapeva. La trovarono cadavere in una pozza di fango e sangue. In un attimo la figlia Marine fece in tempo a fissare l’orrore della spaventosa tragedia; quel giorno il suo sconvolto padre iniziò una lenta inesorabile discesa nella follia, che sarebbe diventata omicida col precipitare degli eventi. Venticinque anni dopo nella stessa magnifica area della Normandia, da Rouen verso l’oceano, si svolge la quinta edizione dell’Armada, la seconda più importante manifestazione popolare di Francia (dopo il Tour), esperienza avviata nel 1989 e ripetuta in genere ogni cinque anni (ma talora anche quattro o sei). Magnifici originali velieri ed equipaggi da tutto il mondo, otto milioni di visitatori (tantissimi ogni giorno in fila per salire a bordo), eccezionale copertura mediatica, trecento volontari permanenti che diventano migliaia nei dieci giorni della manifestazione, mille ricevimenti ufficiali e milioni di bagordi informali, parate gioiose dei marinai in divisa sul ponte e in città, trenta battelli per mini crociere e gite, serate danzanti, fuochi d’artificio, amori. La mattina del 10 luglio avvisano il commissario Gustave Paturel che uno splendido ricco marinaio messicano è stato trovato morto, pugnalato sul lungosenna. Sulla scena arriva anche Maline Abruzze, la giornalista del più importante settimanale regionale. Dettagli e indizi sono molto confusi, la maledetta scia di sangue sembra non arrestarsi.

Il magnifico scrittore Michel Bussi (Louviers, 1965), professore universitario di Rouen (Normandia) e direttore di ricerca al Cnrs francese, ha pubblicato dal 2006 quattordici divertenti corpose avventure, tutte senza protagonisti seriali, ambientate in originali ecosistemi biodiversi, non solo della sua regione, e appartenenti al genere policier o noir. Oltre la metà dei romanzi ormai sono tradotti in italiano: dopo una sporadica apparizione nel 2014, dal 2016 le Edizioni e/o alternano la pubblicazione delle novità (è atteso il recente Au soleil redouté) con la proposizione dei primi romanzi. Questo è il godibilissimo terzo (2008) con un titolo tradotto con acuto rispondente gioco di parole. Come nelle altre occasioni, la trama risulta ben arzigogolata, ricca degli onesti trucchi e dei rovelli culturali del genere, impasto manipolato di irrazionalità e logica (anche per i lettori), questa volta attorno a cronache e finzioni connesse ai tesori dei pirati e alle utopie degli anarchici. La narrazione è in terza varia e minuziosamente cronologica sui vari protagonisti, con particolare affetto sui due che indagano, affiatati a distanza, il buon capo poliziotto di mezz’età, padre divorziato che non riesce a stare coi due amati figli (lasciati dalla ex moglie per andare alle Maldive), la reporter esperta e segnata dalla vita, single quasi 37enne che subito s’intende (non solo a letto) con l’affascinante meticcio responsabile stampa Olivier (originario di Réunion). Il bello è che l’autore è un ottimo geografo, s’intende di scienza e di storia, è attento con le citazioni di luoghi, tempi e termini, ci consegna pagine preziose di informazioni e leggende della Senna atlantica. Vien voglia di partire. Anche la musica è meticcia, il massimo della “creolitudine” se così di può dire (come afferma il primo dei due curiosi personaggi che arrivano dalla capitale, l’aitante giornalista di Le Monde e il criminologo esperto di serial killer). Per bere non ci si fa mancare nulla: vini e champagne, whisky e rum.

 

Graham Greene

«Il fattore umano»

traduzione di Adriana Bottini (originale 1978); con una nota di Enrico Deaglio; cura e postfazione di Domenico Scarpa

Sellerio

460 pagine , 15 euro

Londra. Anni settanta. Maurice Castle è uno stimato funzionario dei servizi MI6, vi lavora ormai da trent’anni. Una svolta l’ha avuta nel Sudafrica dell’apartheid, è tornato con una giovane amata moglie bantu e il figlio nero di lei. Ha scelto di riprendere casa nei luoghi natii di campagna, a Berkhamsted, ci mette meno di un’ora in treno per andare e tornare dall’ufficio; è il responsabile della Sezione 6 che segue gli affari africani. Viene scoperta una fuga di informazioni e inizia una storia di indagini e tradimenti con un certo peso da assegnare forse a “Il fattore umano”: una magistrale spy-story del grande scrittore e diplomatico inglese Graham Greene (Berkhamsted, 1904 – Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 1991), meritoriamente riproposta da Sellerio con aggiornati filtri critici. Il filo narrativo riguarda la slealtà, a chi e cosa riferirla, agli inevitabili tragici disperati incoerenti conflitti di molti fra vizi e virtù, patria e pianeta, interessi e famiglia, valori e fedi.

 

Massimo Carlotto

«Variazioni sul noir»

CentoAutori

166 pagine, 15 euro

1995-2020. Italia. Massimo Carlotto (Padova, 22 luglio 1956) ha avuto una vita involontariamente spericolata prima di cominciare a narrare fiction. Il primo libro fu Il fuggiasco (1995), noir parzialmente autobiografico sul periodo di latitanza. Presto è seguita la famosa serie – osannata nel nostro paese e nel mondo – dell’Alligatore (dieci, 1995-2017). Non ha mai abbandonato il genere ma ha narrato centinaia di belle storie anche attraverso vari generi in ogni modo, spesso con progetti che coinvolgevano altri scrittori o artisti diversamente celebri: romanzi, drammi teatrali, spettacoli musicali, sceneggiature di film, fumetti, reportage giornalistici, saggi. E ha scritto racconti: sette escono finalmente nell’ottima antologia “Variazioni sul noir”, tre letti nei periodici volumi collettanei della Todaro curati da Tecla Dozio, uno sul Corsera, uno grazie al comune di Perugia, uno in un’antologia francese, uno in un’antologia Guanda. L’autore è intervenuto ora solo con piccoli ritocchi.

 

Jussi Adler-Olsen

«Vittima numero 2117»

traduzione di Maria Valeria D’Avino ed Eva Valvo

Marsilio

504 pagine, 19 euro

Copenaghen, Barcellona, Nicosia e varie città tedesche. Settimane di fine 2018 (da ultimo). Nella capitale catalana il 33enne Joan Aiguader medita il suicidio, non riesce a sfondare da giornalista, è ricco di creditori, vede sull’enorme display digitale installato dal comune che il numero dei profughi annegati nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno ha appena raggiunto 2080 e stanno aggiornandolo con i corpi restituiti dalle onde quella mattina a Cipro. Ruba un po’ di soldi alla ignara ex e corre a prendere l’aereo. Sulla spiaggia di Avia Napa ce ne sono altri 36 e lui è particolarmente colpito da quello di una donna anziana, vittima numero 2117. Vi scrive sopra un pezzo, il migliore mai scritto, e l’Hores del dia il giorno dopo lo pubblica, solo che viene subito fuori da tutte le testate internazionali che quella signora era stata pugnalata sul barcone prima del naufragio, il giornale gli concede cinquemila euro e quindici giorni per andare a fondo della storia. La sua vita è così destinata a essere stravolta. Nella capitale danese il 53enne Carl Mørck e i suoi assistenti della sezione Q fanno la solita insolita vita, un loro collega più anziano è deceduto nell’ospedale dove era ricoverato. Si tratta di Lars Bjørn, lui e il compianto fratello Jess mentori di Assad, ex rifugiato dall’Iraq e ormai il collega più amato da Carl. Nessuno di loro sa (ancora) che il concittadino ragazzino Alexander, vittima di bulli e da mesi chiuso in camera nel suo mondo virtuale, ha letto un articolo su quella donna uccisa e ha deciso di vendicarla, farà una strage di ipocriti e indifferenti, dentro e fuori casa quando arriverà all’uccisione 2117 del gioco di cui è campione, Kill Sublime (è già a 1970 vittorie). Assad ha un secondo trauma in poche ore, conosceva l’anziana senza vita sulla spiaggia, decenni prima era stata una specie di madrina in Siria, non ha mai raccontato agli altri la sua vita precedente e intuisce che il trucido terrorista assassino ha due veri obiettivi d’odio: un attentato terrificante in Europa e lui stesso.

Il grande scrittore danese Carl Valdemar Jussi Henry Adler-Olsen (Copenaghen, 1950) è giunto all’ottava avventura della nuova avvincente serie (2007-2019), affronta qui con sensibilità e acume il dramma dei regimi mesopotamici, delle migrazioni forzate, del terrorismo fondamentalista, delle crisi psicotiche adolescenziali occidentali in un’unica trama ben congegnata. Il titolo ruota intorno al numero che intreccia tempi e luoghi. La narrazione è al passato in terza varia, su buoni e cattivi, comprimari e comparse assurti a protagonisti. Lo stile è secco, talora rudimentale, non lirico, coerente con vicende e pensieri terribili. Il tramite principale questa volta è una figura importante delle avventure precedenti, lo conoscevano e conoscevamo come Assad, in realtà è Zaid al-Asadi, ha una moglie e tre figli (due donne) prigioniere che non vede da tempo immemorabile (il più piccolo mai incontrato), non sapeva nemmeno che fine avessero fatto, le ha forse riconosciute vive nella foto accanto al cadavere della madrina fra i profughi morti a Cipro. Lentamente il culmine dell’azione si sposta in Germania dove stanno convergendo i terroristi e, in vario modo, tutte le parti in causa; mentre parte della sezione Q (il mitico Carl si sforza di essere ubiquo) rincorre i deliri omicidi (con la spada da samurai) di Alexander. I 61 capitoli sono intitolati ai vari personaggi che si alternano, alcuni ripercorrendo storie risalenti a decenni prima, e scandiscono il countdown verso l’epilogo del giorno 0. Al ricevimento dopo il funerale del giorno 10 Carl afferra un’intera bottiglia di rosso e sparisce con lei. Il giorno dopo si rimpinza di tavolette di Ritter Sport. Cosa non si fa per sopravvivere!

 

Giancarlo De Cataldo

«Io sono il castigo. Un caso per Manrico Spinori»

Einaudi

Roma. Novembre 2019. Il melomane sostituto procuratore della repubblica di Roma Manrico Leopoldo Costante Severo Fruttuoso Rick Contino Spinori della Rocca dei conti di Albis e Santa Gioconda sta godendosi un calice di vino nel foyer del Teatro Costanzi, è appena finito il secondo atto della Tosca (col cadavere caldo di Scarpia), ma il cellulare vibra, lui è di turno, legge il messaggio e prende rapidamente un taxi per raggiungere la scena di un decesso cruento. Trova il cadavere di un personaggio famoso vittima di un incidente stradale sul tratto discendente di via delle Fornaci dal Gianicolo verso San Pietro, era a bordo ma non guidava una Iso Rivolta Fidia del 1973, notevole macchina d’epoca, roba costosa da collezionisti. Un testimone oculare aveva avvertito un botto e poi un urlo, l’auto schiantata sulle antiche mura, il passeggero senza cintura sbalzato dall’abitacolo, l’autista coperto di detriti e sangue uscito dallo sportello accartocciato. Spinori si fa portare dalla macchina di servizio all’ospedale Santo Spirito, dove era stato ricoverato il conducente, Gilberto Mangili, tuttofare del testaccino signor Stefano Diotallevi, in arte Mario Brans o Ciuffo d’Oro, settantaquattro anni, cantante pop nei Sessanta, poi bravo e sincero intrattenitore nel mondo dello spettacolo, ancora molto attivo come produttore discografico e conduttore televisivo, sempre donnaiolo. Sembra non ci sia molto da indagare, finché presto non viene fuori che qualcuno aveva tagliato il tubo che porta il liquido ai freni, la Fidia era stata sabotata: si tratta di un omicidio e bisogna scovare chi e perché ha ucciso. Nello stendere la lista di potenziali nemici (interessati ai soldi o illuse esordienti, “priffe o pelo”) si capisce che i nomi non mancano, Diotallevi aveva il vizio delle ninfette, era moralista e strafatto, al limite il colpevole poteva essere provvisto di coscienza. Tutti gli investigatori hanno altre beghe: Spinori una madre 76enne un po’ svampita, il bel figlio Alex aspirante musicista e Maria Giulia Lodi, una nuova affascinante conoscenza femminile, alta e mora, informatica.

Ho cercato a lungo un personaggio che potesse tenermi compagnia per molti libri. Ora l’ho trovato”, spiega nella fascetta gialla il bravo magistrato e grande scrittore Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956). L’autore non è un melomane di gioventù (ben conosce Cohen e Zappa), a un certo punto ha riscoperto l’impatto emozionante con l’opera lirica, che gli ha scombussolato la vita e ora anche l’identità letteraria. Manrico (dal “Trovatore”) è un gran bel personaggio, perfetto per mescolare l’esperienza professionale e la passione musicale di De Cataldo con due differenti generi narrativi. Il credo è rigoroso: “non esiste esperienza umana – delitto incluso – che non sia già stata raccontata da un’opera lirica. Bisogna individuarla. E rimettere al centro della scena il melodramma della realtà”. Si comincia con due cadaveri, così, come da copione giallo. Seguono tutti i riti dell’indagine, sia letterari che istituzionali. Uno degli investigatori, però, ovvero il garantista protagonista, è concentrato sulla ricerca dell’opera (lirica) giusta di riferimento per quel caso reale, altrimenti non tutto potrà tornare. Ecco perché mantiene sempre la calma e ha una prodigiosa statistica di successi. Certo, l’unica altra fonte potrebbe essere Shakespeare (peraltro molto musicato da Verdi), qui comunque siamo soprattutto fra melomani che si fanno l’occhiolino, anche se il godimento è per tutti, rockettari compresi, basta avere il piacere di intrattenersi con letture intelligenti. La narrazione è in terza fissa al passato, con toni divertiti e romaneschi. Il titolo è tratto dal “Rigoletto” ma ho contato almeno altre dieci opere esplicitamente citate con simpatia e arguzia, musiche e libretti di tanti. Spinori non è De Cataldo, è sì gentiluomo ma per antiche origini nobiliari (ricche e ora dilapidate), è sì affascinante e godereccio ma separato e frivolo, è sì immerso in turbinanti storie di vita ma ha una madre ancora ludopatica, non scrive capolavori e altri romanzi ma ha un autore che si fa il verso per suo tramite (pure descrivendolo alto e bello). Vero è che i punti di vista di entrambi sul lavoro giudiziario a piazzale Clodio tendono ad assomigliarsi (anche sulle intercettazioni invadenti e sui vizi mediatici): non può che diventare uno splendido personaggio seriale mite e ironico, contornato da una variegata squadra di donne; tre poliziotte, la gentile coordinatrice Vitale, la bassa sarda Orru, la nuova bella “fascista” Cianchetti, e l’efficiente segretaria Brunella. Un goccio di Sancerre per addolcire la pillola, bollicine per festeggiare. Whisky torbato (e non rum) col cioccolato fondente.

 

Redazione
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