Alessandro De Roma: il primo passo nel bosco

«Si compie un primo passo nel bosco e poi non è che un disperato attenersi al sentiero, per paura di perdersi». La simbologia del titolo è spiegata quasi subito, dopo due pagine che hanno piombato chi legge in una fuga automobilistica, in un mistero svelato da un lunghissimo flashback.

Con «Il primo passo nel bosco» (Il maestrale: 200 pagine per 17 euri) Alessandro De Roma conferma quanto di buono c’era nei suoi due romanzi precedenti.

Il primo bosco della sua vita fu la natia Ghilarza, «un non-vero paese sardo su un non-vero lago». E’ qui che Serafino Pinna inizia a camminare e subito a smarrirsi nel bosco. Poi a Cagliari si trasforma in un noto commercialista. Una vita squallida: niente amici, zero passioni («anche il calcio cominciò a disgustarlo»), senza amori («cominciò a farsi le seghe senza pensare a nulla, con meccanica competenza»). Ricco ma infelice: «il mondo non riusciva ad essere all’altezza del suo astio».

Essendo intelligente «sapeva benissimo che è esattamente quando si fa a meno dei sogni che si ha bisogno di tutto. E’ un segreto fra economisti, il principio che fa girare i consumi e i capitali».

Sui quarant’anni Serafino incontra Amalia. Ricca, impaurita e devotissima. Ingorda e dunque grassa, come lui. Si sposano e vanno a vivere (di rendita) a Scoglio Fiorito. Vegetano «nella felicità imperfetta delle normali creature del mondo» ma, avvisa l’autore, «la normalità esiste solo nello sguardo pigro degli altri; nessuno nell’intimo può credere alla propria».

Tirare avanti con «la noia di vivere», loro due come tante e tanti altri: «se non mangiavano, non sapevano che altro fare; e se non parlavano di quel che stavano per mangiare non sapevano che dirsi». Serafino trova brandelli di umanità nella solidarietà verso il fratello di Amalia che ha un segreto (di Pulcinella) e che, per suo tornaconto, sfrutta gli ambigui istinti caritatevoli del giro cattolico attorno a lui. Il cinico Serafino commenta: «Mica stupido il cognato. Alla gente, specialmente alla gente che frequenta le chiese, non importa davvero se sei felice, importa che ti lasci aiutare».

Amalia invece non ha neppure un vizio segreto, uno scatto, l’ironia sofferta di chi capisce: è lì, accanto al marito, pende «dal suo braccio come una mucca appesa al gancio del macellaio».

Il sogno di Amalia è dare un figlio a Dio. Senza il minimo entusiasmo, Serafino prova ad accontentarla. Invano. Poi a Scoglio Fiorito arriva «la sera in cui tutto doveva cominciare davvero» sotto forma di una giovane coppia con «un pestifero pargolo». Qui bisogna fermarsi nel racconto per non togliere a chi legge il gusto amaro di scoprire verso quale bosco le vite di Amalia e Serafino si stanno incamminando.

Nel 1972 l’austriaco Peter Handke scrisse un breve romanzo, ispirato dal suicidio della madre, che intitolò «Infelicità senza desideri». Libro straordinario, carico di comprensione e perfino d’amore nonostante quel titolo che sembra così crudo. In questi paraggi si muove Alessandro De Roma con un romanzo che ipnotizza e ci spinge a guardarci intorno (e dentro) alla ricerca di Serafino e di Amalia, dei vizi, della «urgenza di tradire se stessi». A chiederci se per caso ci si ama «soprattutto nel dolore» A ricordarci che «chi ha scritto le leggi non può sapere lo spazio che racchiude un’anima».

Li seguiamo in fuga, «verso il bosco più fitto» con Amalia che finge di dormire e Serafino sempre più «entomologo di se stesso»: aspettando un finale che si immagina drammatico ma si rivelerà ancor più tragico perché riporta tutto a una «normalità» che può essere comprata solo con i consueti 30 denari del tradimento. E tutto può riprendere come se nulla fosse accaduto anche perché, come spiega l’autore nelle prime pagine, «ai margini dello stagno le rane, che non sanno di esserci, non conoscono lo stagno, non sanno di essere rane».

Un famoso slogan, che tuttora gira in forma di t-shirt, ci ricorda che «visto da vicino nessuno è normale». Tanti romanzi e magari i migliori episodi del fumetto «Dylan Dog» ci hanno sprofondato nella silenziosa crudeltà dei mediocri, nella violenza pronta a esplodere di questa pretesa normalità, una quasi non-vita. Il quarantenne Alessandro De Roma aggiunge a quanto sappiamo, vediamo e spesso preferiamo dimenticare il nulla assoluto di Amalia e la cattiveria intelligente, così contraddittoria, di Serafino. Un romanzo bellissimo.

A mo’ di post scriptum per automobilisti in Sardegna. La frase d’apertura del libro è stata per così dire rubata a ognuna/o di voi, appartenendo al comune (quanto giustificato) mugugnare. Provate a dire che non è così visto che le prime parole sono: «La statale 131 è un calvario».

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