Alieno è… (prima parte)

Alieno è razziale, sessuale, sociale, mentale, antropologico, politico, biologico, funzionale, religioso… Un saggio pubblicato sull’ultimo numero di «HP-Accaparlante» (*)

Nella fantascienza il “primo contatto” con gli alieni (nel senso di et, extraterrestri) si traduce spesso in guerra. Gli umani del tipo sapiens sapiens delegati allo storico incontro o che casualmente si imbattono in “creature pensanti dello spazio esterno” di solito sono stupidi, spaventati e magari anche militaristi ed espansionisti. A mio avviso le parole stupidi e spaventati si possono sintetizzare in una sola: razzisti. Nella fantascienza reazionaria invece è ovvio, e soprattutto giusto, che si spari subito: non esistono alternative: l’unico alieno buono è quello morto.

Se qualcuna/o si stupisce vuol dire che non ha ben presente la storia del nostro pianetucolo. Infatti, prima di incontrare gli eventuali “et”, i gruppi dominanti della Terra – da un bel po’ l’Occidente, recentemente con spruzzate di Giappone e Cina – hanno avuto un lungo tirocinio con gli “alieni” di casa. Ecco in ordine alfabetico un elenco neppure completo: albini, ebrei, gay, handicappati, musi gialli, pazzi, pellerossa, sporchi negri, streghe, zingari. C’è chi, con purtroppo documentate ragioni storiche, propone di sostituire a streghe la parola donne.

Vi sono poi sempre nuovi razzismi: grazie alla dittatura di Pol Spot (non è un cambogiano ma l’abbreviazione di Polimorfo Spot ovvero la pubblicità dai mille volti e dai centomila martelli) rischia discriminazioni pesanti chiunque sia brutto/a o grasso/a – secondo i canoni dettati appunto da persuasori occulti e palesi – e perfino non abbastanza “alla moda”.

Un disastro lungo millenni. E non ancora concluso.

Cosa intendiamo per alieni?

Per iniziare vediamo qualche definizione.

I vocabolari, per esempio «Il grande dizionario Garzanti», di solito la mettono così: «aggettivo1 contrario, avverso 2 (di registro letterario) che appartiene ad altri, estraneo – sostantivo: nel linguaggio della fantascienza chi appartiene ad altri mondi, extraterrestre». Tutto qui.

Invece su Wikipedia si legge:

«La parola alieno (dal latino alienus col vario significato di: «appartenente ad altri, altrui; straniero; estraneo; avverso») assume diversi significati in funzione del contesto di riferimento. In generale indica una qualunque cosa o soggetto estraneo all’ambiente di riferimento.

Se preferite possiamo fare un bel salto nel tempo, dalle parti del 150 avanti Cristo, e ragionarne con Publio Terenzio Afro: «Sono un uomo: nulla di umano può essermi alieno». Che molti citino Terenzio o Publio Terenzio omettendo Afro è un caso? A ogni modo «Homo sum, humani a me nihil alienum puto» è esattamente l’opposto della scritta che campeggia sulle t-shirt degli attivisti di Forza Nuova (gruppo neonazista per chi non lo sapesse): «Difendi il tuo simile, distruggi il diverso».

Anche nella fantascienza (o science fiction o sf, fate voi)le definizioni sono assai varie. In un libro italiano per la scuola – Franco Ferrini, «La musa stupefatta o della fantascienza», D’anna editrice, 1974 – si azzardava questa definizione: «Alien è l’extraterrestre spesso ostile agli umani. L’idea di ostilità era già implicita nell’ aggettivo latino alienus». Diverso, nemico, perciò mostro: deduzioni rapide e conclusive. Elementare Watson.

Anticipiamo un più complesso punto di vista esaminando il ragionare di Guido Ferraro e di Isabella Brugo nel loro «Comunque umani» (sottotitolo: «Dietro le figure di mostri, alieni, orchi e vampiri») in particolare nel capitolo quarto centrato proprio sugli alieni nel cinema e, in misura minore, nella letteratura fantastica:

«L’alieno vale dunque come un modo tra gli altri – ma forse più forte ed estremo degli altri – per rappresentare il Male. Gli storici della cultura potranno notare che la tematica degli alieni si è sviluppata in concomitanza con il venir meno di altre figure di “estranei totali” che si trattasse di figure metafisiche (i demoni), leggendarie (orchi, vampiri, ecc) o razziali (i “selvaggi”). Se in tale prospettiva “malvagio” risulta essere chi è diverso da noi «» [il corsivo è nel testo – Ndr] l’alieno può ben rappresentare il diverso totale, interamente e incondizionatamente negativo dal punto di vista morale, con un grado di assolutezza che in effetto difficilmente può essere riconosciuto ad altri protagonisti negativi. Se si può sempre entrare nel modo di pensare di un gangster o di un terrorista, la costruzione della figura standard dell’alieno implica proprio questa impossibilità: la definizione stessa del concetto di “alieno” poggia sul fatto che esso non è semplicemente diverso e non umano, ma è del tutto estraneo e illeggibile».

Verso la fine del libro Ferrario e Brugo ci ricorderanno che «la questione centrale non riguarda più “che cosa sono” i mostri ma “come li creiamo” e come gestiamo il nostro rapporto con loro». Sostituite pure alieni a mostri; almeno in questo contesto sono intercambiabili.

Un ragionare analogo si trova verso la fine del saggio «Mostri» di Fabio Giovannini dove si esamina «l’inversione di rotta» al cinema: dall’alieno cattivo a quello buono sino «all’alieno dentro di noi».

D’altro canto il filosofo Adorno ci aveva già messo in guardia scrivendo: «la cosa più inquietante è scoprire quanto i mostri ci assomiglino».

Uffa gli Ufo

Per molte persone gli alieni restano però gli Ufo (i non anglomani preferiscono Onvi, oggetti volanti non identificati). Per capire «come e perché sono giunti tra noi» e dilagati nell’immaginario collettivo proprio in quel particolare periodo storico (gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso) consiglio il piacevole quanto dotto «Gli alieni» di Tommaso Pincio che incrocia Enrico ed Elvis (ovvero Fermi e Presley), l’hula hop e l’atomica, la lascivia e Von Braun, il nazismo ed Epicuro, Voltaire e il complottismo, strane cose che si vedono nel cielo e Jung, Giordano Bruno e i dischi volanti. E’ bravo Pincio ad allargare un ben ristretto orizzonte – gli Usa della guerra fredda – e qui si tenterà di fare lo stesso con tutti gli altri alieni raccontati dalla fantascienza che è letteratura inquietante (o non compresa) dunque rimossa dalla “gente seria”.

Nel 1983 «Newton» – un bel «mensile di scienza, tecnica e fantasia» che ebbe purtroppo brevissima vita – lanciò un concorso (addirittura con «100 premi») per chi avesse inventato un alieno o un mondo alieno. Interessantissima la motivazione: «un’ ottima base per un corso scolastico interdisciplinare e comunque un’interessante possibilità di imparare divertendosi anche per chi non va più a scuola». Senza premi qui su «Hp» vi invitiamo a raccontarci i vostri alieni per il 2013. Qui intanto, prima di scavare aq fondo nel tema, vediamo altre connessioni.

 

Alieni fuori e dentro

Nel presentare il romanzo «Il segreto degli Asadi» (scritto nel 1979) di Michael Bishop, osserva giustamente Piergiorgio Nicolazzini che «ciò che ci appare “alieno” è forse il riflesso di qualcosa che è anche nostro, ma ormai dimenticato e sepolto».

Alieni dentro di noi? «Eliminato l’impossibile, qualunque cosa rimanga per improbabile che sia deve essere la verità» raccomandava Sherlock Holmes ma gli si oppone Antony Boucher, buono scrittore di fantascienza (e altro) con puntate sull’ottimo: «Eliminato l’impossibile, se non rimane nulla una parte dell’impossibile deve essere la verità». In questo caso l’impossibile (per molte persone) è che gli alieni sono da sempre fra noi, anzi possiamo cercarli – avremmo sempre potuto cercarli – anche dentro di noi.

Forse crescono dentro di noi e in questo caso nella fantascienza vengono indicati come «mutanti»; se ne accennerà più avanti.

Tirar sassate agli sconosciuti

Negli ultimi tempi quasi nessuno in Italia si dice razzista salvo poi precisare: «però sugli ebrei (o sugli zingari) Hitler non aveva del tutto torto». Già negli anni ’90 il «non sono razzista ma» imperversava e su «Cuore», una rivista satirica ma spesso serissima, Enzo Costa riassumeva così questa visione del mondo: «Non sono un razzista ma quando sull’autobus un negro mi siede accanto io cambio posto. Non sono un razzista, sono un bianco». Unendo ironia a rigore il genetista Guido Barbujani e il giornalista Pietro Cheli hanno scritto, nel 2008, «Sono razzista ma sto cercando di smettere» mentre, nel 2001, l’antropologa Genevieve Makaping aveva proposto in «Traiettorie di sguardi» l’istruttivo gioco del “io guardo come voi (bianchi) guardate me (nera)”. Solo due libri recenti sull’Italia d’oggi – che è multietnica ma fa finta di non saperlo – per pensarci su.

E torniamo subito alla science fiction e al suo modo di vedere gli stranieri. La dice lunga che perfino la fantascienza – una letteratura all’incrocio fra desideri e paure – abbia di solito invitato a “tirar sassate” agli sconosciuti senza neppure chiedere «chi va là?».

Lo ha fatto perché storicamente in molte persone prevaleva inconsciamente il timore sul desiderio – un lungo discorso che qui non affronteremo – e ne derivava una precisa scelta di campo, culturale e politica: in particolare gli autori (maschi con qualche femmina di puro complemento e perlopiù celata da pseudonimi) della prima science fiction erano wasp – cioè bianchi, anglosassoni, protestanti – perciò gli alieni venuti dallo spazio non potevano che essere bem (Bug Eyed Monster, cioè mostri dagli occhi d’insetto) dunque peggio delle “scimmie” negre e simili che circolano sulla Terra.

1818, l’anno zero

Bianchi, anglosassoni, protestanti… In realtà la fantascienza moderna pur anglo non era stata concepita maschia visto che il suo atto di nascita coincide con la pubblicazione – nel 1818 – del «Frankenstein» di Mary Shelley. Ma è nel passaggio fra ‘800 e ‘900 prima (con Verne, Welss più qualche comprimario) e poi nel pieno del XX secolo che, soprattutto grazie alle pubblicazioni popolari, diviene una letteratura di massa; in questo passaggio a scriverla – e a leggerla – sono inizialmente ometti del tipo babbuino aggressivo. Con qualche interessante eccezione.

Per fare qualche esempio della “regola” ecco uno dei padri – H. G. Wells – che per instillarci antipatia verso il cattivo di turno («L’uomo invisibile») ce lo descrive come albino. Presentando i marziani – in «La guerra dei mondi» – ne dà un visione talmente terrificante da concludere: «Sin da quel primo incontro fui sopraffatto dal disgusto e dall’orrore». Combinazione: «La guerra dei mondi» è del 1897, stesso anno dell’inquietante «Dracula». Torniamo a Wells: quando un normale finisce «Nel paese dei ciechi» constata che quei diversi sono stupidi e cattivi. E ancora lui nel suo libro più famoso, «La macchina del tempo», prevede che i proletari si abbrutiranno, un’evoluzione a rovescia. Era un uomo del suo tempo: pur dicendosi sostenitore del pacifismo e del socialismo era al fondo piuttosto reazionario.

Se vi interessano altri esempi di fantascienza razzista consiglio «Sei morto!» (con due lunghi e intriganti sottotitoli: «Il secolo delle bombe» e «Labirinto con 22 ingressi e nessuna uscita») di Sven Lindqvist che racconta benissimo i legami fra le guerre vere e quelle immaginarie.

A parte le solite interessanti eccezioni (quasi invisibili nel diffuso andazzo) occorrono decenni perché nella sf inizi a essere ben visibile l’idea di un alieno che non è ostile e/o di una concezione del mondo (meglio: dei mondi) non bipedo-centrico. C’è qualche eccezione ovviamente (nel 1934 «Odissea marziana» di Stanley Winbaum o «Il costruttore di mondi» di Olaf Stapledon, nel 1937, tanto per citare due testi abbastanza famosi) ma la regola appunto è l’altra, ovvero l’alieno inevitabilmente resta il nemico nella science fiction di massa, quella cioè che conquista il pubblico poco dopo il 100 dF (dopo Frankenstein).

Prendiamo John Campbell, uno dei padri della science fiction moderna. Secondo lo scrittore Philip Farmer: «Alcuni suoi difensori sostengono oggi che Campbell non era razzista e che non considerava i neri africani come esseri umani inferiori; purtroppo i suoi scritti e le conversazioni private che ho avuto con lui dimostrano il contrario». A conferma anche un suo editoriale sulla rivista «Analog» nell’agosto 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King. Da un lato Campbell esalta la figura di King come apostolo della non-violenza ma dall’altro offre una conclusione in linea con il dominio dei bianchi: «Naturalmente il Nero vuole risultati definitivi oggi, e magari ieri. Quest’impazienza è vecchia come l’uomo… e come i bambini. Purtroppo, non è possibile che le cose vadano così. Non si puòfare così». Siete troppo alieni, la colpa è vostra.

Anche altri scrittori che hanno giocato un ruolo importante nell’evoluzione della fantascienza – in particolare Robert Heinlein – hanno esaltato la superiorità del terrestre wasp su chiunque altro.

 

Lentamente alcuni scrittori (e solo dopo scrittrici perché all’epoca erano emarginate) pongono il dubbio: se sotto quella pelle strana – azzurra o verde, i colori che sulla Terra mancano nella gamma delle epidermidi – vi fosse un’intelligenza, persino un’anima? All’inizio vengono accettati alcuni Hilf (Humanoid Intelligent Life Forms) talmente simili a noi da suggerire che sforzo di accettazione sia misurabile in decimi di millimetro. Poi ci si fa più audaci.

 

E se io fossi lui o lei?

Ovviamente assumere il punto di vista dello straniero (dell’alieno totale) fra noi può essere interessante, come già avevano dimostrato «Le lettere persiane» di Montesquieu e pochi anni dopo «Micromégas» (con gli extraterrestri al posto dei persiani) di Voltaire e, nel secolo scorso, «Papalagi» di Tuiavii di Tiavea. Prima che Fredric Brown re-inventasse questo genere per la fantascienza – lo vedremo fra poco – qualcuno (per citarne uno solo, l’allora quasi esordiente Isaac Asimov nel racconto «Homo Sol» del 1940) aveva già assunto il punto di vista degli et invece che dei terrestri; ma erano le classiche mosche bianche.

Nel 1954 arriva Fredric Brown con il breve, squassante racconto «Sentinella» che, anche se è abbastanza noto, vale riproporre per intero.

 

«Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.

Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.

Ma dopo decine di migliaia di anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le lori astronavi tirate a lucido e le loro super-armi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.

Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito: quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.

E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, con i denti e con le unghie.

Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo e il giorno era livido, spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni posizione era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportar a casa la pelle.

E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.

Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire».

 

Avviso per chi legge: «Sentinella» non è finito qui, mancano tre righe. Invito chi non lo conosce a cercare una soluzione.

Fermatevi un attimo a riflettere. Per non indurvi in tentazione (intendo a sbirciare) le tre righe finali sono alla fine del dossier.

 

Brown è tornato spesso, in forma più ironica, sul tema. Uno dei suoi racconti più famosi è «Il vecchio, il mostro spaziale e l’asino» del 1962. In uno sperduto paesino arriva un allampanato extraterrestre a dorso di un asino. Vagamente umanoide ma è alto quasi 3 metri, sottilissimo e ha la pelle che sembra scuoiata. Dichiara di essere venuto lì per verificare se i terrestri sono maturi per entrare nella Confederazione galattica. C’è un doppio colpo di scena che sarebbe un delitto rivelare. Purtroppo Brown fa intravedere come questa “maturità” sia ancora tutta da verificare visto che i terrestri giudicano in base alle apparenze fisiche.

Decisamente umoristico il suo romanzo «Marziani, andate a casa» del 1955. Per quel che qui ci interessa la storia di Brown concerne un’invasione pacifica ma assai seccante. Infatti gli alieni più che cattivi o incomprensibili sono… no, lasciamolo dire all’autore con tutte le precisazioni necessarie:

«erano tutti insultanti, esasperanti, fastidiosi, sfacciati, brutali, insopportabili, caustici, sfrontati, odiosi, scortesi, esecrabili, diabolici, spudorati, irritanti, ostili, dispettosi, bruschi, insolenti, impudenti, ciarlieri, irridenti, guastafeste, maligni, pestiferi, malevoli, perfidi, nauseanti, perversi, stizzosi, litigiosi, sgarbati, maleducati, sarcastici, biliosi, bisbetici, infidi, truculenti, incivili, pungenti, xenofobi, sbraitanti e zelantissimi nel rendersi insopportabili e nel causare guai a tutti coloro con cui venivano a contatto».

E non si può far nulla contro di loro; perché in un batter d’occhio spariscono (in gergo: si teletrasportano altrove). Anche in questa geniale presa in giro Brown infila discorsi seri. E comunque anche trasformare i “mostri” in discoli è già una bella provocazione.

Anche chi è digiuno di fantascienza ma ama il cinema (o il rock) avrà forse incrociato il film «L’uomo che cadde sulla terra» di Nicholas Roeg, del 1976, con un bravo David Bowie, tratto dal romanzo omonimo – ancor più inquietante e struggente della riduzione cinematografica – scritto nel 1963 da Walter Tevis. Come in «Sentinella» il narratore assume il punto di vista dell’alieno che è sulla Terra per cercare un aiuto da parte dell’umanità per la sua razza morente. L’alieno rimarrà bloccato fra indifferenza e sospetti. Impietrito nella sua maschera umana, incapace di staccarsi dalla Terra per lui aliena. Morirà per alcolismo. La scena finale mostra il suo pianeta ridotto a un cumulo di asteroidi vaganti. Qualche esperto di cinema ha notato che il punto di vista dell’alieno è rappresentato anche in uno stile e in un montaggio di tipo surrealista; per quanto sia strano alcuni passaggi del film ricordano «L’uomo con la macchina da presa» di Dziga Vertov, uno dei padri del cinema.

Futuro, filosofia e sensi di colpa

Visti i precedenti storici, qualche senso di colpa inevitabilmente affiora anche nella science fiction. Significativa la quarta di copertina del romanzo «Chi è intelligente?» (del 1972; il titolo originario era «Conscience Interplanetary») di Joseph Green:

«Il Corpo dei Filosofi Ambientali deve proteggere i mondi abitabili della Galassia dall’ingordigia umana e impedire che si ripetano a danno delle razze extraterrestri le violenze e le stragi patite dagli indios, dai pellirosse, dai negri».

Perfetto sin qui, ecco però la trappola:

«Ma ci sono moltissimi casi dubbi: certe strane foche tirano sassi contro gli scienziati di un osservatorio, certe farfalle di 40 chili sembrano telepatiche, certe piante di cristallo emettono voci nella notte, certe scimmiesche creature hanno forse modellato un dio di argilla. Come decidere dove finisce l’istinto e dove comincia l’intelligenza?».

La domanda può essere dunque riformulata così: chi sono gli alieni e agli occhi di chi?

Rischiamo però di entrare in un corto circuito logico e/o filosofico. Possiamo capire un pensiero alieno? Ho un amico – Fabrizio Melodia – grande studioso di filosofia che leggendo la prima versione di questo saggio (o saggetto, chissà) mi ha suggerito qualche dotta citazione ad hoc. Per esempio questa:

«La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti. Non possiamo dunque dire nella logica: “Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no”. Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mondo; solo cosí potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare»: è il «Tractatus logico-philosophicus» di Wittgenstein.

Al quale però provo – timidamente e con qualche consapevole forzatura – a contrapporre Eraclito:

«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché l’avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada».

Nel senso che se tentiamo di capire l’incomprensibile forse ce la faremo.

Qualche annetto dopo Eraclito, irrompe sulla scena Albert Einstein e, dandoci speranze almeno sul versante più scientifico, aggiunge:

«Tutti sanno che quella cosa è impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa».

 

Con queste due citazioni nel bagaglio proviamo a vedere se la fantascienza e il desiderio riescono a forzare la logica wittgensteiniana secondo la quale non arriveremo mai al “non pensabile”.

Tenendo anche conto che nel nostro immaginario lavorano – o meglio si confrontano e scontrano incessantemente – paure e desideri ben più profondi che nel conscio: così non è indifferente che la fiction di massa oggi proponga in bella vista uno Spock (sto parlando ovviamente della serie di «Star Trek») cioè un alieno ben accetto piuttosto che i perfidi carciofoni marziani i quali, grazie allo strano duo Welles-Wells, in passato terrorizzarono lettori e soprattutto ingenui radioascoltatori.

Sulla strada della progressiva presa di coscienza della fantascienza si potrebbero riportare molti esempi. Nessuno forse è letterariamente efficace come il brevissimo «Sentinella» ma molti – e alcuni li vedremo nelle varie sezioni – restano efficaci e/o inquietanti ancor oggi.

 

Ovviamente ci sono almeno altrettanti romanzi o racconti che continuano a immaginare lo scontro fra i terrestri e “gli altri”. Vediamo brevemente uno dei più interessanti, «Il gioco di Ender» scritto nel 1985 da Orson Scott Card.

Per quel che qui ci interessa è la storia di un ragazzino “speciale” che viene addestrato in una scuola militare a verificare strategie contro gli “Scorpioni”, cioè i nemici spaziali che sono una sorta di entità unica con un cervello collettivo. Ender va in crisi perché per vincere le battaglie deve identificarsi con il nemico al punto da amarlo, e in questo modo lavora a distruggere… chi ama; sull’altro piatto della bilancia (o della schizofrenia) però c’è l’obiettivo del suo addestramento: salvare la razza umana da un avversario che sembra molto più potente. Alla fine del romanzo, Ender si troverà a vincere nell’ennesimo difficile gioco ma scoprirà che è stato ingannato: non stava affatto “combattendo” contro un simulatore ma comandava una vera flotta. Ender ha distrutto il mondo di origine degli Scorpioni, sterminando per sempre la loro razza.

Fra i tanti temi sollevati da questo romanzo c’è anche quello del nemico invisibile; uccidere in un videogame (o nella sua versione montata a bordo di un aereo) crea una rassicurante distanza “psicologica”. Niente fastidiosi schizzi di sangue, niente volti delle vittime (soldati ma anche vecchi o neonati) dunque nessun dubbio. Per evitare che il soldato moderno cada nel vecchio difetto – così Brecht nella celebre poesia – ovvero pensare, oggi il nemico (o l’alieno) va reso immateriale.

Anche se la guerra con gli alieni in «Il gioco di Ender» si trasforma addirittura in xenocidio, comunque il romanzo di Scott Card è tutt’altro che manicheo: non ci racconta di “tutti noi buoni” contro i cattivi, i tempi sono cambiati. Anche se gli assassini di massa coprono d’oro i cantori delle «guerre umanitarie» ben pochi credono alle loro ragioni.

Ma torniamo al discorso principale o meglio a una delle sue diramazioni.

SEGUE DOMANI

(*) «HP-Accaparlante» è la rivista del Centro Documentazione Handicap di Bologna, edita dal Centro Studi Erickson di Trento. Esiste ormai da quasi 30 anni, ed è un riferimento essenziale per chiunque si muova intorno agli intrecci e alle trappole della normalità e della diversità. Già una dozzina di anni fa avevo avuto il piacere di scrivere per loro, in pratica raccontando il rovescio questo di «Alieno è…» che infatti si intitolava (alla Philip Dick) «Umano è…». Aggiungo che mi farebbe molto piacere presentare in giro questo saggetto – biblioteche? librerie? associazioni? centri sociali? cunicoli e gallerie? – e dunque chi è interessata/o mi contatti. (db)

 

Redazione
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