Alieno è… (seconda parte)

Alieno è razziale, sessuale, sociale, mentale, antropologico, politico, biologico, funzionale, religioso… Un saggio pubblicato sull’ultimo numero di «HP-Accaparlante»(*)

Un rompicapo

Gli alieni potrebbero anche essere un rompicapo biologico, cioè forme di vita e di intelligenza del tutto differenti da come noi le abbiamo sinora concepite. Esiste persino un’apposita disciplina – la xenologia – che studia queste “complicazioni” e ipotizza il modo migliore per comunicare con creature in tutto diverse da noi.

La complicazione risulta evidente sapendo che il termine xenologia è variamente usato: a proposito di extraterrestri ma anche di migranti e persino di parassiti; una triade curiosa vero?

In ogni modo gli extraterrestri potrebbero essere a tal punto differenti da noi che non riusciremmo neppure ad accorgerci della loro esistenza. Un certo numero di sognatori (ma anche qualche scienziato) ipotizza che anche sulla Terra esistono alieni che noi non percepiamo come tali: alcune “scimmie” forse ma soprattutto i delfini – che pare abbiano un linguaggio molto strutturato – con i quali però non vi è stato mai un serio tentativo di comunicare (se non per usi militari; in sostanza per convincerli a “giocare” portando inconsapevolmente ordigni esplosivi nelle acque dei “nemici”).

 

Chi comunque volesse approfondire nella fantascienza l’intrigante tema di questi organismi viventi del tutto incomprensibili (e che magari abbracciano un intero pianeta) potrebbe utilmente partire da «La nuvola nera» di Fred Hoyle (un altro scienziato/scrittore) del 1957, dai romanzi di Stanislaw Lem – in particolare «Solaris» e «L’invincibile» – ma anche da Hal Clement (uno “specialista” di questo sotto- genere), dall’immaginario pianeta Covenant di Greg Egan oppure da «Nemesis» (del 1990) di Asimov.

 

Fra i libri più appassionanti sull’alienità totale c’è «Ultima genesi» («Dawn» il titolo originale) di Octavia Butler, per inciso una delle rare afroamericane che abbia avuto spazio nella fantascienza. In Italia il libro, pubblicato nel 1987, praticamente passò inosservato. Peccato.

 

Xenogenesi?

Il tema del romanzo è la xenogenesi cioè la nascita di una nuova razza derivante dalla fusione dei terrestri con gli alieni che li hanno strappati – ormai pochi e moribondi – all’«inverno nucleare» dopo l’ultima, demenziale guerra fratricida. Protagonista è una donna, Lilith Iyapo, che un tempo – quando cioè esisteva la Terra – era una statunitense “di colore”. Lilith viene “svegliata” per l’ennesima volta (sono passati 250 anni ma lei al momento lo ignora) da invisibili, ma soprattutto incomprensibili, carcerieri. Quando decide di collaborare gli alieni si mostrano: vagamente umanoidi ma coperti ovunque di «peli» che, a distanza ravvicinata, si rivelano «organi sensori»… ma sembrano «tentacoli» e Lilith rabbrividisce.

Gli alieni Oankali spiegano a Lilith di essere affascinati dai terrestri ma turbati da «due caratteristiche incompatibili» della nostra razza: la prima è «l’intelligenza, la caratteristica più recente, quella che avrebbe potuto usare per salvarvi dalla guerra atomica»; mentre la seconda peculiarità è «una struttura gerarchica», primitiva e pericolosa.

Per capire come si colloca «Ultima genesi» in questo quadro dovrò purtroppo (e me ne scuso) svelare alcuni colpi di scena. Gli Oankali non sono astratti studiosi, tantomeno benefattori: ciò che chiedono ai terrestri sopravvissuti è di prestarsi a uno scambio genetico, in sostanza un incrocio razziale. Gli umani ne ricaveranno indubbi vantaggi (non più tumori a esempio) ma le loro caratteristiche di specie spariranno nel tempo. Per Lilith – un nome simbolico che rimanda al mito della donna che precedette Eva – gli Oankali sono, di volta in volta, ammirevoli, incomprensibili, rigidi e poi flessibili, impauriti, straordinari per intuito e capaci anche di imparare da lei e dal suo bisogno di conservare la dignità.

E’ giusto «spartire il sesso» come viene chiesto a Lilith (anzi le viene “dolcemente” imposto) con questi alieni sensibili quasi fino alla telepatia?

Alla fine tutti, in qualche modo, sbaglieranno e «Ultima genesi» si conclude con un nuovo splendido inizio… che rimanda a due seguiti: lo sconvolgente «Ritorno alla terra» (che pure è stato pubblicato da Urania) e «Imago», purtroppo mai tradotto in italiano.

Lasciando (a malincuore) la xenogenesi della Butler, torniamo al «rompicapo biologico» solo per rapidamente ricordare che uno scrittore irlandese, James White, ha costruito un’intera serie di romanzi e racconti sulle biologie aliene, ambientandole in una «Stazione ospedale» (nell’originale «Settore generale») nello spazio: il taglio è dialogante e pacifista. White è ottimista: non nasconde i problemi ma insomma… ce la faremo.

Eppure ci possono essere minime differenze fisiche che risultano intollerabili a noi umani: le ali a esempio non dovrebbero impensierirci ma le corna e la coda sì (rimando soprattutto a «Le guide del tramonto», scritto nel 1953 da Arthur C. Clarke). Altra gran bella – o brutta? – diversità potrebbe essere la telepatia: che sia un’evoluzione degli umani o la caratteristica di una razza aliena. Ma qui non c’è spazio per vedere come la fantascienza ha affrontato l’inquietante telepatia e, più in generale, il «rompicapo» biologico (o linguistico): il tema pur interessantissimo, ruberebbe spazio e ci porterebbe lontano da quelle altre «alienità» che sono vicine al nostro modo di vivere e che qui esamineremo soprattutto sotto tre specifici punti di vista.

Ma prima…

 

Ursula suggerisce.

Dimessi i panni della famosa romanziera, Ursula K. Le Guin ha indossato quelli della saggista per ragionare di science fiction. Alcuni suoi scritti sono stati tradotti in italiano sotto il titolo «Il linguaggio della notte». C’è un passaggio («La fantascienza americana e l’Altro») che ci interessa particolarmente.

Parlando di socialismo e femminismo e «dell’infima condizione delle donne nella fantascienza» (almeno sino agli anni ’60 del secolo scorso) Le Guin scrive:

«Il problema qui sollevato è il problema dell’Altro, dell’essere che è diverso da te stesso. Tale essere può differire da te nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire o di agire; o nel colore della pelle; o nella quantità di gambe o di teste che ha. In altre parole esiste l’Alieno sessuale, l’Alieno sociale, l’Alieno culturale e infine l’Alieno razziale».

Poco più avanti Le Guin aggiunge:

«Se uno nega qualsiasi affinità con un’altra persona o genere di persona, se afferma che è completamente diversa da se stesso, come gli uomini hanno fatto con le donne, e le classi hanno fatto con le classi, e le nazioni hanno fatto con le nazioni, può odiare l’altra persona o deificarla; ma in ogni caso ha negato la sua eguaglianza spirituale e la sua realtà umana. L’ha trasformata in un oggetto con il quale un solo rapporto è possibile: un rapporto di potere. E così ha fatalmente impoverito la sua stessa realtà. Ha in effetti alienato se stesso»,

Ed è questo schema, un po’ ampliato, che ci servirà per andare avanti nell’esame della fantascienza alle prese con vari tipi di alieno.

 

L’alienità “razziale” e le sue metafore

Perché razziale, qui sopra, è indicato fra virgolette? Perché se ci riferiamo ai terrestri il termine è insensato visto che le razze non esistono. Ma come il venerdì 17 (o 13 nei Paesi anglosassoni) porta “sfortuna” a chi ci crede, così la diffusa convinzione che sulla Terra esistano differenti razze causa guai. Non esiste insomma – come spesso si ripete – l’odio o il pregiudizio razziale ma l’odio razzista cioè un’ideologia, una bugia che immagina alcune razze migliori (più “umane”) di altre.

Ciò chiarito torniamo alla fantascienza.

Il periodo d’oro (almeno dal punto di vista della diffusione popolare) della science fiction coincide in gran parte con il periodo storico nel quale negli Usa erano negati agli afro-americani i diritti umani, dunque sino alla metà degli anni ’60 nel secolo scorso. Non c’è dunque da stupirsi che alcuni scrittori e scrittrici abbiano usato la metafora di “razze extraterrestri” per parlare – più o meno apertamente – dei pregiudizi e della segregazione allora dominante negli Stati Uniti (e, più a lungo, nel Sudafrica dell’apartheid).

Qualche esempio fra i tanti.

Nel romanzo breve «Benedizione oscura» (del 1951)di Walter Miller jr. un morbo spaziale contamina gran parte dell’umanità. E’ un’affezione benigna, anzi accresce i poteri sensoriali delle persone colpite. Ma… rende nero il colore della pelle e questo effetto collaterale scatena la violenza degli immuni che vedono concretizzarsi il loro peggiore incubo: i “neri” sono migliori di loro e dunque, a maggior ragione, vanno sterminati.

Su quanto l’arrivo dei marziani (o altri et) potrebbe influenzare il “comune sentire” dei terrestri verso gli alieni “casalinghi”, ci sono molte storie interessanti.

A esempio questa:

«Sai la novità?».

«Quale?».

«I negri… i negri».

«E allora?».

«Se ne vanno. Lasciano i loro paesi, le loro case, tutti insieme in massa».

[…]

«E dove vogliono andare? In Africa?».

«Su Marte».

Ray Bradbury ambienta nel “profondo sud” degli Usa un racconto (del 1954) che fa parte delle sue celebri «Cronache marziane». Quando la colonizzazione terrestre di Marte è consolidata, tutti i “negri” si organizzano segretamente per andarsene e si avviano in un’immensa fiumana verso le astronavi comperate coi loro risparmi. E qualcuno, lì intorno, commenta così:

«Non capisco perché siano partiti proprio adesso. Ora che le cose si stavano aggiustando. Ogni giorno si faceva loro una nuova concessione, voglio dire. Insomma che volevano di più? Gli abbiamo appena tolto la tassa sul voto e parecchi Stati hanno votato leggi contro il linciaggio e hanno accordato loro parità di diritti. Che cosa vogliono di più? Guadagnano quasi come noi bianchi e se ne vanno…».

Sembra di sentire il Campbell citato sopra.

Qualche anno dopo – nel 1963 – nella finzione narrativa capita il contrario di quanto immaginato da Bradbury. Nel racconto «Gli emigranti dal volto azzurro» di Henry Slesar pochi e pacifici extraterrestri (identici a noi ma con l’epidermide tendente al celeste) chiedono di essere accolti: il loro pianeta sta morendo e non sanno dove andare. Ufficialmente le accoglienze sono buone ma… cominciano gli omicidi. Alla fine le organizzazioni terroristiche costringono gli Azzurri a un nuovo, difficile esodo. Chi racconta questa storia è un loro discendente: sono passati ormai millenni e le guerre interne hanno distrutto la Terra. «Ho appreso – dice il narratore – che quel mondo meritava di morire».

Nel 1964 tocca a una scrittrice, Leigh Brackett, tornare sulla metafora del colore con il racconto «I negri verdi» (era migliore il titolo originale: «All the Colour of Rainbow): la guerra spaziale nascerà dalle discriminazioni alle quali i razzisti del Sud degli Usa sottopongono una coppia di turisti extraterrestri, giunti sulla Terra in crociera da un pianeta alleato, e colpevoli solamente di avere la pelle verdina.

Reincontrando i fratelli perduti

«Quante Terre esistono?».

«Credevo ne esistesse una sola».

«E una volta credevano che fosse piatta».

Siamo all’interno di un dialogo, tipicamente alla Philip Dick, verso la metà di un bellissimo romanzo, del 1966, che in italiano è apparso sia con il titolo «Vedere un altro orizzonte» che come «Svegliatevi dormienti». Ci sono gli ibernati cioè i disoccupati che si sono fatti congelare per attendere che passi la crisi economica; c’è il primo afroamericano alla presidenza Usa; e c’è – per quel che qui c’interessa – la scoperta di Terre parallele. E’ un cliché della science fiction ma anche (dal 1957) un’ipotesi scientifica: potrebbero esistere altre Terre (o universi) nascosti e/o nelle quali vigono leggi fisiche differenti dalle nostre oppure dove tutto è come sulla “Terra numero 1” però non esiste la specie umana. O ancora Terre dove, a un certo momento, la Storia si biforca, prende un altro sentiero perché la Germania ha vinto la seconda guerra mondiale (nel romanzo dickiano noto come «L’uomo nell’alto castello» o come «La svastica sul sole») o perché i cattolici hanno sconfitto i protestanti in tutt’Europa (in «Pavana» di Keith Roberts).

Ciò chiarito torniamo a «Vedere un altro orizzonte»: nella porta che d’improvviso si apre su un’altra Terra l’evoluzione ha preso uno sviluppo ben diverso: qui i Sinantropi «sono diventati la specie dominante» e «l’Homo sapiens non è apparso o per qualche motivo non ha vinto la lotta per la sopravvivenza». Noi eredi dei Cro-magnon e questi altri, più vicini ai pitecantropi, riusciremo a comunicare? Ovviamente per molti gli inquilini di questa (imprevista) porta accanto sono solo scimmie. E uno dei protagonisti del romanzo pensa: «Ora sì che il Ku Klux Klan ha veramente un lavoro fatto su misura». Alieni che vengono dal nostro stesso ceppo.

 

Questo tema dei nostri “fratelli perduti” (così simili eppure così alieni) in una delle svolte dell’evoluzione torna in una trilogia di Robert Sawyer (vedi box), uno dei più interessanti scrittori di oggi. In italiano è stata pubblicata con i titoli (meno belli di quelli originali, più asciutti) «La genesi della specie», «Fuga dal pianeta degli umani» per chiudere con «Origine dell’ibrido». Tre lunghi, avventurosi romanzi con delitti sulla Terra e in qualche Altrove; infatti sono ambientati in due universi paralleli, che imprevedibilmente entrano in contatto e si confrontano lungo diversi assi evolutivi…. dato che in uno hanno vinto i «barast» (ovvero la specie Homo Neanderthalensis) mentre nell’altro abbiamo prevalso noi «gliksin» o come presuntuosamente ci definiamo la specie – la razza? – «Homo Sapiens». Appare evidente che il canadese Sawyer oltre ad avere parecchie critiche da fare al suo vicino di casa (lo zio Sam ovviamente) è dubbioso che l’evoluzione su questa Terra sia andata nel modo migliore possibile. Eppure anche i cugini neanderthaliani – come ce li racconta – non sono “perfetti”. Così al termine della trilogia si è aperto un dibattito (su Internet e/o fra gli appassionati di fantascienza): potendo scegliere cosa terremmo del mondo gliksin e cosa invece dovremmo imitare dai barast?

E’ forse il caso di rammentare che il Neanderthaliano, vissuto circa 30.000 anni fa, appartiene a una razza parallela, non identica all’Homo Sapiens. Molto simile all’ uomo attuale, con una mandibola pronunciata e volume celebrale superiore a quello del Sapiens Sapiens. Gli studi ipotizzano una ibridazione fra le due specie (Neanderthal e Sapiens) avvenuta circa 50.000 anni fa.

Il tema dei Neandhartal e/o di scimmie evolute si è intrecciato spesso con la science fiction. Dall’ingenuo romanzo «Gorilla Sapiens»(del 1944) di L. Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller sino alla celebre serie de «Il pianeta delle scimmie», all’origine (nel 1963) un romanzo di Pierre Broullee poi una serie difilm e telefilm, apertamente – seppure superficialmente – antirazzisti e simpatizzanti verso i “fratelli scimmioni”.

Cornelius e Taylor

Un accenno al film, fra i più amari e tormentati di una certa produzione fantastica impegnata. Dopo un esperimento di viaggio a velocità iperluce, durante il quale l’equipaggio è ibernato, l’astronave atterra nel laghetto di un pianeta presunto alieno per scoprire che le scimmie si sono evolute e tengono gli uomini in stato di semi animalità, perfino incapaci di parlare. Il potere scimmiesco presenta alcune caratteristiche del peggior medioevo oscurantista: i sommi sacerdoti detengono i segreti della zona proibita, dove sarebbe nata la loro stirpe che avrebbe schiavizzato gli uomini. Cornelius, un “peloso” scienziato dissidente, porta il suo collega umano Taylor (un Charlton Heston in gran forma) nella zona, dove rinvengono manufatti umani. Dopo uno scontro con le scimmie ortodosse e la fuga di Taylor, la necropoli della zona proibita viene fatta saltare, per cancellare ogni traccia. Finale choccante: Taylor si imbatte nella parte superiore della Statua della Libertà, semisommersa dal mare. Gli uomini hanno distrutto la Terra in un conflitto atomico e le scimmie cercano – con qualche ragione? – che quella “civiltà” venga dimenticata.

Sono simili a scimpanzè e gorilla è la sprezzante accusa che si legge tuttora – in purtroppo tanti libri e siti razzisti – verso i “negri” o altri non bianchicci. In un certo senso l’affermazione è scientificamente fondata visto che noi (neri, gialli ma anche bianchi) abbiamo in comune con gli altri primati, insomma con le “scimmie” il 98 per cento del patrimonio genetico. Anzi, se vogliamo pignoleggiare, le percentuali sono state riviste al rialzo. Un articolo del 2005 sulla rivista «Nature»http://www.nature.com/nature/journal/v437/n7055/full/nature04072.html – parla di somiglianza al 99% (98,8): dunque la specie Homo Sapiens Sapiens nel Dna differisce dai Pan Troglodytes (gli scimpanzè) dell’1,2%.

Ma solo i razzisti usano le somiglianze fra gli umani e i nostri cugini più pelosi per offendere. Affermazioni del genere oggi si leggono difficilmente in libri di science fiction. Pur se esistono – è triste ma doveroso ricordarlo – anche fantascienza e fantasy con evidenti simpatie naziste che girano in circuiti semiclandestini. Tanto per fare un nome di casa nostra, Gianluca Casseri, cioè il killer dei due senegalesi (a Firenze nel dicembre 2011) che era attivo in Casa Pound, aveva pubblicato «La chiave del caos», vagamente fantascientifico, con la prefazione del ben più noto, Gianfranco De Turris, fascista anche lui ma “in guanti bianchi”.

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(*) «HP-Accaparlante» è la rivista del Centro Documentazione Handicap di Bologna, edita dal Centro Studi Erickson di Trento. Esiste ormai da quasi 30 anni, ed è un riferimento essenziale per chiunque si muova intorno agli intrecci e alle trappole della normalità e della diversità. Già una dozzina di anni fa avevo avuto il piacere di scrivere per loro, in pratica raccontando il rovescio di questo «Alieno è…» che infatti si intitolava (alla Philip Dick) «Umano è…». Aggiungo che mi farebbe molto piacere presentare in giro questo saggetto – biblioteche? librerie? associazioni? centri sociali? cunicoli e gallerie? – e dunque chi è interessata/o mi contatti. (db)

 

 

Redazione
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