Alle origini del primo macello mondiale

di Bozidar Stanisic
Dall inizio del Novecento fino al 28 giugno 1914 come vittime in attentati erano caduti – fra numerosi altri – il re Umberto, il presidente statunitense William McKinley, il re serbo Aleksandar Obrenovi, il principe giapponese Ito. Ma nessuno sparo produsse un avvenimento così complesso come quello di Sarajevo. Da quel giorno

l’Europa avrebbe cominciato ad avvolgersi attorno all’attentato. E la facciata (di stabilità politica, sicurezza e prosperità economica) del Vecchio Continente cominciò a sbriciolarsi.

Francesco Ferdinando, uno strano erede al trono
Non ci furono molti monarchi al mondo così sfortunati riguardo ai loro eredi come Francesco Giuseppe, imperatore d’Asburgo (1846-1916). Quattro morirono prima di lui e per tre la fine fu violenta. Fra queste ferite del sovrano, una era più grave: la scomparsa del suo figlio Giuseppe Rodolfo, il 30 gennaio 1888 a Mayerling. Francesco Ferdinando (1866-1914) fu proclamato principe ereditario nel 1888. Il «re destino» aveva scelto per lui: l’arciduca Carlo Lodovico, fratello dell’Imperatore e suo erede, compiendo un pellegrinaggio in Terra Santa, aveva bevuto l’acqua del fiume Giordano e si era mortalmente ammalato dal tifo… Così era iniziata la carriera di Francesco Ferdinando d’Austria e d’Este, uno dei personaggi più odiati sia nell’Impero sia fuori, l’uomo che anche dopo la sua morte a Sarajevo il 28 giugno 1914 fu al centro di grandi polemiche fra gli storici.
Secondo statistiche “pedanti” nel sangue di Ferdinando c’erano le tracce di 112 famiglie aristocratiche; sua madre Maria Annunziata era la figlia di Ferdinando II, re delle Due Sicilie. Nell’anno della sua morte Ferdinando era un bambino di sette anni. La sua matrigna, la principessa portoghese Maria Theresa di Branca, fu una delle rare persone che Ferdinando amò. Grazie al padre, in lui fu impartito un «cattolicesimo di fuoco». Come tutti i maschi della casa asburgica anche Ferdinando fu educato con spirito militare. A quattordici anni divenne sergente e a ventotto ebbe la promozione a generale. L’avevano educato gli insegnanti più conosciuti e preoccupati che il loro allievo non venisse in contatto con idee liberali. Da adulto, Ferdinando si lamentava spesso: «Imparavo di tutto, e alla fine non conoscevo niente a fondo…».
La sua giovinezza era trascorsa avendo due modelli: l’amicizia di Giuseppe Rodolfo e l’influsso severo dell’arciduca Albrecht, suo parente e uno dei personaggi più potenti nell’Impero. La loro corrispondenza ci rivela il suo dramma giovanile, colmo di dilemmi. Ferdinando era attirato dal liberalismo di Giuseppe Rodolfo, personaggio del carattere delicato e sensibile, avverso alla religione, pieno di talento per la letteratura e filosofia. Mentre l’arciduca Albrecht era conservatore a tutto tondo, incapace di perdere, fedele alla dinastia che tendeva la mano alla spada. Da lui Ferdinando aveva imparato come confrontarsi con gli invidiosi e gli intriganti della corte di Vienna. La morte del principe cancellò il dilemma di Ferdinando. Sulla scena politica e militare diventò anche lui un esponente della corrente asburgica radicale. Dopo il congresso di Berlino (1878) e l’occupazione della Bosnia-Erzegovina, aveva considerato l’invasione della Serbia come la scelta migliore dell’Impero, cui doveva seguire l’espansione a Oriente, nella continuità del predominio asburgico nella politica della “duplice monarchia” austro-ungherese e nell’attesa del momento per dare un colpo all’Italia perché la ferita dell’ultima guerra era ancora aperta.

La scelta greve dell’Imperatore
Scegliendo Ferdinando come erede, l’imperatore Francesco Giuseppe, benché saggio e moderato, aveva dato forza proprio a questa corrente asburgica. A quel tempo si sapeva che il monarca non provava simpatia per il cugino ma non aveva altra scelta. Lo stesso Albrecht, pur convinto che la durezza della dinastia fosse la vera difesa contro i separatismi, non poteva condividere tutte le opinioni e le intenzioni di Ferdinando e soprattutto il suo odio contro le singole nazioni.
E Ferdinando? I suoi bruschi pareri politico-militari in un primo periodo avevano colpito gli ungheresi. Perciò l’arciduca Albrecht e la regina Elisabetta l’avevano mandato a compiere un lungo viaggio attorno il mondo (1892-93). Prima di allora egli era stato in Italia, in Germania, in Egitto, in Siria, in Turchia, in Palestina, in Russia… (In tutte le sue biografie si ricordano le migliaia di animali uccisi a fucilate; ci sono anche fotografie con i trofei di caccia del suo viaggio per il mondo. In una si vede Ferdinando con una tigre del Bengala.) Ma questo viaggio gli riuscì quasi fatale. Ferdinando, non abituato ai Paesi dal clima umido, era tornato ammalato di tubercolosi, malattia conosciuta in famiglia, che aveva già colpito suoi due fratelli. Si era curato nell’isola di Lussin Piccolo (Mali Lošinj). Là aveva redatto il piano dell’Impero per rilanciarne la potenza marittima. Questo progetto militare lo avvicinò a Guglielmo, l’imperatore di Germania.

Ferdinando e Sofia – un matrimonio problematico
L’esperienza amara della malattia aveva allontanato ancor più Ferdinando dal popolo dell’Impero che, dopo il suo ritorno, non aveva pensato che egli fosse indicato come erede al trono. Poi la sua decisione di non maritarsi con Mary, la principessa inglese, sposando invece Sofia Chotek aveva alzato onde di tempesta nella corte di Vienna. Sofia era proveniente da una famiglia della bassa aristocrazia e ciò provocò la rabbia di Francesco Giuseppe. Nell’anno del matrimonio Ferdinando aveva trentasei anni, lei ventitré. Davanti alla commissione dell’Impero aveva dovuto sottoscrivere la rinuncia al diritto al trono per i suoi eredi.
Sofia, contessina di Hohenberg, spesso si sentiva umiliata nelle relazioni con la corte. Ferdinando, benché innamorato di lei, non poteva sempre difenderla. «E’ ambiziosa e intelligente. Chissà cosa c’è nella sua testa» si sussurrava attorno a lei. Molti volevano sapere cosa c’era dietro il suo forte sentimento cattolico. Dicevano che in società e in famiglia Ferdinando era sotto l’influsso di Sofia. Certo – lo vedevano tutti – lui era contento con Sofia, una buona madre per i loro tre figli.

La Bosnia, il 27 giugno 1914
L’arciduca Ferdinando, principe ereditario e ispettore generale dell’esercito dell’Impero asburgico, era molto contento per l’esito delle manovre militari sulle montagne bosniache. Svolte vicino al confine con la Serbia, dovevano dimostrare a Belgrado la forza militare di Vienna. L’arciduca era arrivato alle terme vicino a Sarajevo il 27 giugno 1914. Era stato accolto dalla moglie Sofia. Per gli illustri ospiti il governo della città aveva scelto l’albergo Bosna, dove una stanza era stata trasformata in cappella per la messa del mattino. Sofia sembrava serena ma percepiva la tempesta che stava alzandosi in occasione della visita del marito a Sarajevo proprio nel Vidovdan (il giorno di San Vito), la grande festa degli ortodossi serbi, in ricordo della battaglia del Kosovo. Sofia aveva già visitato ospedali, chiese, abbazie, orfanotrofi e una fabbrica di tappeti. Dappertutto era stata bene accolta. Anzi, a cena sorrideva alle facce impensierite di Josip Sunari, un alto parlamentare bosniaco, del dottor Gerde, il capo della polizia e del barone von Rumerskirch, responsabile della scorta di Ferdinando. Loro erano contrari alla visita, specialmente in quella data. Però, per l’aiutante dell’arciduca, von Merizzi, e per il capo del governo bosniaco, generale Potiorek, astenersi sarebbe stata una grande sconfitta politica per l’Impero.
La cena scorreva con buoni cibi, liquori, vini. L’arciduca era di buon umore. Aveva spedito un telegramma allo zio Francesco Giuseppe con espressioni di lode per le manovre ben riuscite. Inoltre divideva la contentezza di Sofia perché da Vienna erra arrivata la notizia dei buoni voti agli esami del loro figlio maggiore, Max.

Sarajevo, 28 giugno 2014
Alla mattina seguente, il 28 giugno, dopo la messa, alle 9.25 la coppia principesca era sul treno per Sarajevo. Là, alla stazione, li aspettava Potiorek. Il generale aveva ordinato un’accoglienza solenne, con la banda, con fiori. «Vostra maestà, è tutto pronto» disse Potiorek e mostrò l’auto. La coppia si sistemò sul sedile posteriore della vettura sportiva. Era del tipo “Greph und Stift”, costruita appositamente a Vienna, targata A-II-118 e ornata con la bandiera giallo-nera sistemata sul cofano del motore. L’autista Leopold Sojka, un ceco, prese la strada per la storia.
I sette attentatori – Danilo Ilic, Cvietko Popovic, Vaso Cubrilovic, Trifko Grabez, Muhamed Mehmedbasic, Nedeljko Cabrinovic e Gavrilo Princip – erano già nascosti fra la gente. Appostati per l’imboscata lungo la sponda di Miliacka (allora Sponda di Apel) aspettavano la scorta. Ognuno di loro aveva una pistola, una bomba e cianuro per il previsto suicidio. Era una giornata solenne e chiara come nessun’altra in quel mese: Sarajevo era infiorata, c’era tanta gente in strada per salutare i nobili ospiti di Vienna. L’arciduca aveva chiesto una guida non troppo veloce perché voleva osservare la città. La capitale del Paese, dal 1908 annesso all’Impero, sino ad allora aveva offerto una bella immagine e l’arciduca voleva essere visibile agli occhi dei sudditi.
Nel momento in cui Potiorek mostrava all’arciduca una nuova caserma su una collina, un giovanotto, alto, ben vestito, con un cappello nero, domandò a un agente: «per cortesia, qual è la macchina del principe?».
«Quella senza tetto» gli fu risposto.
Al che il giovane lanciò una bomba, poi si gettò nel fiume. L’autista nel vedere un oggetto nero volare verso l’auto frenò e la bomba cadde sul bordo del tetto abbassato. Poi rotolò via ed esplose davanti alla vettura che seguiva. Ci fu una ventina di feriti: fra i più gravi due ufficiali della scorta, uno dei quali era proprio von Merizzi.
«È stato un pazzo… Signori, vi prego, il programma va avanti» disse Ferdinando, volendo dimostrare il suo sangue freddo.
«Il pazzo» era Nedeljko Cabrinovic, figlio di un locandiere serbo, uomo molto leale al regime austriaco. Quella stessa mattina l’attentatore aveva diviso tutta la sua piccola proprietà fra le persone più care e con gli ultimi soldi rimasti in tasca aveva comperato fiori per una ragazza. Si era domandato perché il primo congiurato (Grabez) non avesse fatto niente e, senza aspettare il segnale degli altri cospiratori, aveva lasciato il suo posto sulla sponda. Di lì a poco dopo sarà nelle mani della polizia, vivo, benché avesse provato a uccidersi.
«Vostra maestà! I nostri cuori sono pieni di felicità in occasione della vostra visita alla capitale del nostro Paese…» cominciò a dire il sindaco di Sarajevo, non sapendo niente di quanto era accaduto.
«Signor sindaco, che profitto abbiamo dal suo discorsone? Vengo in visita amichevole e buttano bombe su di me! Una cosa dell’altro mondo» l’aveva l’interrotto l’arciduca.
Ma Sofia gli sussurrò qualcosa all’orecchio e Ferdinando aggiunse: «Va bene…Possiamo sentirlo!».
Anche se nervoso, e quasi deciso a sospendere la visita, Ferdinando non si fermò: davanti al “Museo del paese” l’aspettavano i membri del Governo bosniaco, ma lui era intenzionato ad andare all’ospedale per visitare gli ufficiali feriti…
Rimarrà sempre la grande domanda: perché l’autista non era informato delle intenzioni di Ferdinando? Altrimenti, l’auto non si sarebbe fermata in quel posto fatale per l’arciduca e la sua moglie. Colpito dalle grida del generale Potiorek che gli era seduto accanto, aveva fermato l’auto all’angolo fra le vie Apel e Francesco Giuseppe. Proprio là, davanti al negozio di Moritz Schiller, emozionato da quanto già accaduto, lasciando il posto fissato vicino alla Latinska (il Ponte latino che dopo il 1918 sarà il ponte di Princip, dopo il 1992 di nuovo Latinska) si trovava Gavrilo Princip. Lì i presenti avevano visto il giovanotto di bassa statura, dai capelli neri e lunghi, che sparava verso l’automobile dell’arciduca mentre un amico di Princip dava un colpo al ginocchio di un agente che cercava di ostacolarlo.
«Sofia, Sofia, non morire! Devi vivere per i nostri figli»: così Ferdinando sussurrò, perdendo i sensi, alla moglie ferita mortalmente dalla pallottola destinata al generale Potiorek. Sofia, il volto diventato di gesso, aveva fra le mani un ventaglio destinato a rimanere chiuso per sempre. Poco dopo si sentì il gorgoglio del sangue dalla gola dell’arciduca. A pochi passi dai morenti, Princip provò invano a uccidersi prima con la pistola e subito dopo con il veleno, che però non era attivo. (Si pensa che l’errore non fosse casuale: alla “Mano nera” del colonnello Apis serviva di più il martirio degli attentatori sopravvissuti.) Preso, fu picchiato brutalmente dagli agenti e dai cittadini presenti. Agli orologi mancavano pochi minuti alle undici… Ferdinando e Sofia rimasero in vita fino alla porta della loro residenza a Sarajevo.
A Sarajevo, quel giorno, si fecero preghiere, messe e liturgie in tutti i templi della città. I serbi ortodossi, soprattutto dell’alta borghesia, maledicevano gli attentatori. Però già dal tardo pomeriggio del giorno dell’attentato e per due, tre giorni la folla degli estremisti musulmani e cattolici incominciò a devastare negozi, osterie e botteghe degli artigiani serbi senza particolari interventi della polizia. Una simile rappresaglia era accaduta anche a Zagabria. La polizia iniziò a imprigionare non solo i sudditi serbi più conosciuti ma pure persone di altre nazionalità sospettate di aver partecipato ai movimenti culturali e sociali di impronta jugoslava. Uno di loro era stato Ivo Andric, giovane poeta e studente, catturato a Spalato. La sua descrizione del trasporto degli internati verso Maribor quell’estate del 1914, in un treno che passava per diverse stazioni, rivela un odio crescente verso il popolo dell’attentatore.

Un ombrello che non entrò nella storia
Chi è l’uomo che aiutò Princip avendo dato un colpo a quell’agente di polizia che provava a fermare l’attentatore? Vladimir Dedijer (1914-1990), storico e autore di «Sarajevo 1914» – l’analisi sinora più significativa dell’attentato e delle circostanze dell’epoca – descrisse dettagliatamente quel momento. Vicino a Princip allora si era trovato Mihajlo Pušara, amico sia di Princip che di Ilic. Questo giovane impiegato del municipio di Sarajevo, secondo la ricerca di Dedijer, diede un colpo al ginocchio di quell’agente e così Princip riuscì a sparare. Poi difese Princip dal cavaliere Andreas von Morsey che scese dall’auto con la spada in mano. Nella sua dichiarazione von Morsey parlò di alcuni colpi sul casco presi da un giovane sconosciuto che gli disse in tedesco: «Non toccarlo».
Pušara riuscì a fuggire. E si mescolò fra i coristi della “Sloga” (Concordia) con i quali, da cantante, in realtà doveva stare, in occasione della festa di San Vito. Qualcuno dei presenti allora vicini al negozio di Schiller lo riconobbe e informò la polizia. Davanti al tribunale tutti i cospiratori volevano proteggerlo. Princip disse una falsità affermando che Mihajlo fosse poco affidabile perché un suo zio era molto austrofilo. Tuttavia, con i numerosi altri serbi di Sarajevo, Pušara finì nel lager di Arad. I testimoni sopravvissuti dissero che spesso veniva torturato. Morì nel 1916.
La cugina di mio padre (Savka) era sposata con Vido, fratello di Mihajlo. Ricordo il loro unico viaggio da Visoko, città nativa di Mihajlo, ad Arad, compiuto alla fine degli anni sessanta. Vido voleva visitare la tomba comune in cui era finito il suo fratello. Lui da sempre sosteneva che Mihajlo quella mattina del 1914 aveva avuto un ombrello, uno di quelli “di una volta” con il manico duro. E che con quell’ombrello aveva difeso Princip sia da von Morsey che da quell’agente di polizia. Nella sua dichiarazione von Morsey parlò di colpi secchi che avevano incurvato il suo casco. E la sua descrizione della persona che l’aveva aggredito corrispondeva al ritratto di Mihajlo.

L’attentato, un retroscena complesso
Cosa c’era dietro l’attentato del 28 giugno 1914? Soltanto l’intenzione degli attentatori della “Giovane Bosnia” per la libertà degli slavi del sud, per la nascita di uno stato jugoslavo sotto lo scudo del “Piemonte serbo”? Molte delle ipotesi degli storici e dei contemporanei di Ferdinando si soffermavano sul ruolo delle grandi potenze mondiali, del governo ungherese o di quello della Serbia. E anche sulla frammassoneria europea e la moltitudine di organizzazioni anarchiche dalla Russia alla Svizzera. Due nomi sono i più ricordati: Apis, colonnello serbo (vero nome Dragutin Dimitrijevic), era l’eminenza grigia e capo del gruppo Mano Nera, che aveva già organizzato nel 1903 un attentato contro il re serbo Aleksandar Obrenovic; e Istvan Tisza, presidente del governo di Budapest, uno dei più accesi nemici della politica di Ferdinando.
Quanto fu importante nella tragedia di Sarajevo la vicinanza di Ferdinando al dottor Karl Lueger, fondatore dell’antisemitismo austriaco, il quale più tardi sarà lodato da Hitler? E quanto fu importante il suo legame con il generale Conrad, il primo falco tra i militari austriaci che volevano attivare il famoso ”Drang nach Osten” (la penetrazione a Oriente) a ogni costo? Per costoro, la vittima Ferdinando fu un utile strumento per l’ultimatum alla Serbia e, dopo, per la guerra. Appoggiarlo nella visita in Bosnia sembrava portare acqua al mulino del loro progetto.
Risulta piuttosto interessante il pensiero del figlio maggiore, il dottor Max Hohenberg, il quale nel 1937 concesse un’intervista al «Paris-Soir-Dimanche». Parlando del piano del suo padre per la riforma dell’Impero su base federalista (scelta pericolosa per l’Impero tedesco) aveva accusato la polizia segreta tedesca. Un anno dopo, con l’Anschluss dell’Austria al Terzo Reich, il figlio maggiore di Ferdinando fu deportato nel lager di Dachau proprio per aver formulato quell’accusa.

Un ritratto dell’attentatore
«Chi è Gavrilo Princip?»: così tutti si domandavano mentre la ruota della storia si era già messa a girare verso l’inizio della prima mondiale. «Il giovanotto era basso di statura, debole, con il volto di colore giallo pallido ed era molto difficile immaginare come un piccolino, a prima vista tranquillo e modesto si fosse potuto decidere per un simile gesto. E i suoi occhi! Come vengono ricordati dagli amici? Blu, chiari e allucinanti. Non erano selvaggi e malfattori, come li aveva descritto la stampa di propaganda belligerante asburgica. Anzi, vivi e penetranti, rivelavano l’intelligenza naturale e un carattere ordinato ed estremamente energico»: così di Princip scrisse Leo Pfeffer, giudice inquisitore nel processo contro gli attentatori. È vero: fra loro sette – che in quel giorno sulla sponda di Miliacka a Sarajevo, lungo la quale si stende la più lunga via della città, avevano aspettato per fare l’attentato contro il principe ereditario dell’Impero asburgico – non si contava proprio su Princip.
Princip non era un termine serbo, né croato, né turco: derivava dall’italiano. Era inesistente in Bosnia e il primo a portare questo cognome era stato il bisnonno di Gavrilo. Gli antenati di Princip erano arrivati al retroterra dalmata da Montenegro all’inizio del 17° secolo. Si erano trasferiti dall’altra parte della montagna Dinara, nella campagna di Grahovo, nel villaggio di Obljaj. Erano stati coloni di un feudatario turco e pure matrolozi , soldati turchi di stanza al confine verso la Serenissina e l’Impero asburgico. Là, al loro vecchio cognome di Jovic era succeduto un altro, perchè erano i più capaci di tendere un imboscata.
In famiglia era rimasta viva la fama del bisnonno Todor: alto, forte, coraggioso, rispettato dagli stessi turchi. Vestito con il costume nazionale montava sempre un cavallo bianco e andava a prendere il vino in Dalmazia. Agli italiani aveva lasciato un’impressione speciale tanto che l’avevano battezzato “il principe bosniaco”. Una volta, addirittura, aveva rapito una ragazza cattolica e l’aveva trattenuta per qualche settimana…
Gavrilo, uno dei nove figli di Petar e Marija, era uno dei tre sopravvissuti oltre l’infanzia. Di costituzione era debole e perciò spesso veniva preso in giro dai compagni delle scuole e dei licei che aveva frequentato a Sarajevo, Tuzla e Belgrado, ma poi anche dagli altri cospiratori. Gavrica (Gabriellino) era il soprannome e anche l’origine della sua frustrazione, superata dalla forte energia interna.
Un fatto della sua biografia è curioso: mancava poco perché diventasse ufficiale austriaco. Petar Princip faceva il postino in una terra, quella di Obljaj, molto avara. Così la scuola degli ufficiali gli sembrava buona per il figlio anche a confronto della tradizione militare della famiglia. A Sarajevo, nel 1907, proprio sulla via della scuola, Gavrilo e Petar avevano incontrato un compaesano e, in seguito alla sua proposta, il ragazzo si era iscritto alla scuola commerciale. Dopo i primi contatti con i membri del movimento culturale e rivoluzionario “Giovane Bosnia” e cominciando a conoscere la letteratura socialista e anarchica, era giunto a non desiderare più di diventare negoziante. Si era trasferito così nel ginnasio di Tuzla, dove aveva concluso la sua formazione rivoluzionaria.
Nei ricordi dei compagni di scuola c’è Princip, lo studente ambizioso. Aveva letto molto; era persona sensibile a ogni ingiustizia, ateo, spesso in rivolta contro l’insegnante di catechismo, un po’ chiuso ma sempre buon amico. Questo senso di amicizia ricordava il vecchio zio Jovan, fratello di mia nonna paterna. (La famiglia dei miei bisnonni paterni, a cavallo fra Ottocento e Novecento, si trasferì da Pljevlja, in Montenegro, a Sarajevo e abitò per diversi anni in via Oprkanj, come inqullina nella casa della madre di Danilo Ilic) Zio Jovan, sarto di mestiere, era uno dei primi sindacalisti in Bosnia. Era molto amico con Danilo che, alla vigilia dell’attentato gli regalò una ristampa di San Nicola. Oltre a Danilo, conosceva bene anche Princip e Cabrinovic. Anche lui, ma per un periodo breve, fu tra gli indagati. Avevo dodici anni quando lui morì. I suoi ricordi sugli aspetti umani di questi attentatori erano molto precisi.
La scontentezza di Gavrilo Princip verso l’Impero asburgico si trasformò a Belgrado, sotto l’idea della Serbia – “Piemonte” degli slavi del sud – nella volontà di far qualcosa di speciale per la liberazione e per l’unità nello Stato.
È vero, Princip non possedeva le capacità intellettuali che caratterizzavano i più importanti personaggi della “Giovane Bosnia”. Molto più conosciuto di lui era Vladimir Gavinovi , in Svizzera stimato da molti socialisti, comunisti e anarchici. Princip allora non si paragonava a Dimitrije Mitronovic, poeta e anima della Giovane Bosnia, né con Danilo Ilic, il quale era l’organizzatore di questo piccolo gruppo dei cospiratori. A Princip piaceva scrivere poesie ma era timido nel farle conoscere agli altri. La sera prima dell’attentato, quando Ilic espresse perplessità, Princip disse: «Basta! Domani andremo. Senza sangue non c’è libertà».
Nel gruppo Ilic era il più vecchio, con i suoi 26 anni, mentre i due più giovani ne avevano 16. Però, le parole di Princip ebbero il loro peso non soltanto quella sera. Più tardi, nel corso dell’interrogatorio, fu evidente che nessuno di loro credeva che proprio Princip fosse riuscito nella tragica impresa. La risposta era forse nella concorrenza fra di loro? E, in quel caso, l’analisi dell’attentato potrebbe darci un buon esempio di come intenzioni politiche, rivoluzionarie e anarchiche si intreccino con i percorsi personali. Intanto assomiglia a un racconto documentario ciò che sulle loro relazioni umane e ideologiche uscì dagli interrogatori di polizia. E il contrasto più forte risultò quello fra Cabrinovic, che per primo provò a uccidere l’arciduca, e Princip. Danilo Ilic a esempio dichiarò che Grabez e Princip pensavano che Cabrinovic fosse persona ingenua e incapace di fare un attentato. E lui invece dichiarò al giudice inquisitorio che Princip fosse un vero dittatore.
«Io non sono un criminale. Ho eliminato colui che agiva male. Non volevo uccidere Sofia» disse Princip. Poco dopo la tragedia aveva chiesto di vedersi con Ilic, arrestato come quasi tutti i partecipanti all’attentato. Di cosa avranno parlato? Si sa soltanto che dopo quell’incontro i congiurati non volevano nascondere nulla. Così il processo servì a pubblicizzare le idee della “Giovane Bosnia”: la liberazione dall’Impero e l’unità degli slavi del sud.
«Io sono un nazionalista jugoslavo» ripeteva Princip davanti al tribunale nell’ottobre 1914. Era già cominciata la Grande Guerra mondiale che doveva fare 12 milioni di vittime ed era in corso la caccia ai notabili serbi mentre il governo austriaco aveva già messo “al lavoro” i primi campi di concentramento.

La capitale asburgica del 28 giugno 1914
Quale eco produsse a Vienna la morte dell’arciduca Ferdinando e di Sofia? «Al contrario di quello che si pensa oggi, la notizia non aveva provocato nessuna costernazione, né fra noi, né fra i viennesi, e si poteva sentire la musica fino a sera» scrisse Miloš Crnjanski, scrittore serbo, allora studente a Vienna. «Solo più tardi qualcuno si ricordò di metterla a tacere… La costernazione fu provocata solo dalle bare del principe ereditario e di sua moglie (che Princip, sparando al governatore della Bosnia, Potiorek, ha involontariamente ucciso). Tutta la stazione era coperta in nero. E la locomotiva era arrivata con luci rosse come occhi piangenti. La bara dell’arciduca era molto più grande e con le ghirlande più numerose di quella di sua moglie, una semplice contessa. In Austria non c’era parità né a corte, né fra i morti, e tutto fu misurato con il cerimoniale spagnolo degli Asburgo. Nelle mie orecchie, qualche volta, in sogno, io ora sento il rumore dei passi dei generali austriaci a quel funerale. Avevano camminato con passi simili a quelli dei pazzi, al ritmo della marcia funebre di Chopin; avevano portato i cappelli bicorni decorati con le penne verdi delle code dei galli. Si era sentito il calpestio dei cavalli. Era cominciato il grande silenzio. La bara di Francesco Ferdinando era coperta della bandiera degli Asburgo, gialla, con l’aquila bicipite nera, vecchia di mille anni. Il figlio di un povero, di un proletario, di un contadino, ancora minorenne, con gli spari della pistola l’aveva atterrato dal cielo. L’attentatore aveva un nome particolare, che univa i nomi di principe e di arcangelo…».

Una cella della fortezza di Teresino
Fra i tredici cospiratori e i loro collaboratori condannati al carcere (mentre gli altri, maggiorenni, furono condannati all’impiccagione) Princip, benché poco dopo si fosse ammalato di tubercolosi ossea, resistette più a lungo di tutti, fino al 28 aprile 1918. Una cella umida e scura della vecchia fortezza di Teresienstadt (Teresino, nella Repubblica Ceca) ci ricorda silenziosamente il prigioniero con i ferri ai piedi e, negli ultimi mesi di vita, privo dell’avambraccio destro – amputato o necessariamente o per l’analisi “psicofisica” in un laboratorio di Vienna – di quella mano che non aveva tremato quel giorno. Fino all’ultimo respiro, benché ammalato e sottoposto a torture, rimase in possesso delle proprie facoltà mentali. Fu sepolto segretamente, nella notte fra il 28 e il 29 aprile 1918, senza segni sulla tomba. Un ex soldato austriaco, d’origine ceca, due anni dopo l’avrebbe identificata. Così i resti mortali di Princip, assieme a quelli degli altri cospiratori, poterono essere trasferiti a Sarajevo, in una tomba comune. Sulla parete della cella erano rimasti i versi di Princip: «Le nostre ombre cammineranno a Vienna / Vagheranno a corte per far paura ai signori».

Un attentato del tutto particolare
È vero: nella storia europea del ventesimo secolo non c’è un atto singolo così intensamente strumentalizzato come quello di Princip, atto che non si era esaurito con l’ultimatum asburgico alla Serbia, né con l’esplosione della guerra mondiale, né con il Congresso di Versailles e neppure con la creazione del primo Stato degli slavi del Sud. E quello Stato non era una repubblica come lo immaginava la maggioranza dei cospiratori, ma una monarchia.
Centinaia di storici e di testimoni dell’epoca hanno cercato di capire cosa ci fosse dietro l’attentato, quante polizie segrete, gruppi di anarchici, e via dicendo. «È possibile che un gruppo di giovani formati dalla letteratura socialista, dalle idee della “Giovane Italia” e dai circoli dei cospiratori russi, collegati alla “Mano nera” del colonnello Apis, l’eminenza grigia della corte di Belgrado, avesse potuto preparare da solo l’attentato contro Ferdinando?». La domanda è un luogo comune che figura nelle pagine di libri e ricerche scritti sull’attentato di Sarajevo. È vero anche questo: nella patria degli attentatori l’atto era ben visto dai giovani e dai poveri mentre la stessa borghesia serba, a Sarajevo, a Belgrado e altrove, disapprovava l’attentato. Risultava molto chiaro che il successivo passo della Giovane Bosnia sarebbe stato l’invito alla rivoluzione sociale. Fu Cabrinovic a dire al processo che lui non aveva nulla di personale contro l’imperatore come uomo, ma ce l’aveva con lui perché egli ogni giorno aveva 60.000 zecchini… Sì, fu lui pure a scrivere una lettera ad Otto, figlio maggiore di Francesco e Sofia, in cui chiedeva perdono per la morte dei suoi genitori. E che fece il giovane nobile? Lo perdonò.
Fra le molte situazioni collegate con l’attentato ce n’è una molto significativa: la vendetta di Hitler contro i serbi – così sostenevano persone a lui vicine – si fondava sul risultato della prima guerra mondiale e sull’evento del 28 giugno 1914.
«L’Europa celebra ancora gli assassini del tiranno di Atene, Pisistrato, Armodio e Aristogitone sono citati nei testi scolastici (ad usum delphini). Celebra i senatori romani che avevano ucciso Giulio Cesare. Però non ha mai avuto buone parole per gli attentatori di Sarajevo. E anche il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni non è stato solidale con quei sudditi. Per lungo tempo non permise il trasferimento dei loro resti mortali. Si pensava a Princip come al serbo, al provinciale, allo sciovinista, al fanatico, giocattolo nelle mani del capo dell’Ufficio informativo dello stato maggiore serbo, il citato colonnello Apis. Però, l’attentatore ci ha chiaramente parlato anche dall’Aldilà – scrisse Milos Crnjanski – e dei figli del periodo in cui, secondo Ivo Andric, erano svegli soltanto poeti e attentatori. Il linguaggio, sia di Crnjanski sia di Andric , ricorda anche l’antico discorso sulla resistenza all’oppressione attraverso l’uccisione del tiranno.
La stampa ufficiale non menzionava il fatto che fra gli attentatori c’erano pure croati e mussulmani. Intanto l’esercito imperiale muoveva la grande offensiva alla Serbia. (In una cittadina serba, vicino al fiume Drina, alcuni ufficiali austriaci allora avevano trovato un documento della polizia di Belgrado. Nel documento c’era scritto che probabilmente un gruppo di giovani stava organizzando un attentato che a ogni costo doveva essere impedito! Ma era materia inutile per i falchi di Vienna, da tempo pronti a dare inizio alla guerra per gli interessi dell’Impero)
È interessante notare che nel corso del processo alcuni degli attentatori parlavano di sé al passato remoto, come Cabrinoviv: «Noi morimmo per i nostri ideali». Queste parole erano scritte sul muro del Museo della Giovane Bosnia, l’ex negozio di specialità gastronomiche di Moritz Shiller a Sarajevo. Nella Bosnia di Dayton sono cambiati sia il nome del Museo (ora è Museo del 1978-1914), che le parole sulla lapide del muro.
A questo punto si passa facilmente alla Sarajevo e alla Bosnia del ricordo e della percezione odierna sull’attentato. Che, per sé, sono quasi in perfetta sintonia con la ventennale storia del Paese in cui, pare, ormai non si trovi un accordo neppure sui colori esatti del gatto bianco e del gatto nero…
Si avvicina il 28 giugno 2014 e nessuno sa se le orme dei piedi di Princip saranno di nuovo al loro posto, dove erano dal 1953 al 1992, né se al Ponte latino (ex Ponte di Prncip) sarà rialzato il monumento dedicato a Ferdinando e Sofia, che fino al 1918 era là. Se ci sarà, si tratterà del primo monumento del mondo in onore di un occupante. Ultimamente è stata resa nota l’intenzione dei serbi dell’est Sarajevo di alzare un monumento a Princip. Forse un monumento ci sarà anche a Belgrado? Si sa poco. L’autore di questo articolo è convinto di questo: se immaginiamo gli attentatori vivi nel 1992, nessuno di loro avrebbe approvato l’assedio della città di Sarajevo.
Forse qualcuno (magari prima di quel concerto di Sarajevo programmato per il 28 giugno 2014) ricorderà, magari pure reciterà il ricordo di Andric, nella via Danilo Ilic, del 1926: «Dio dei cieli che regni su di noi e che tutto conosci, per carità, volgi il tuo sguardo su questa montagnosa terra di Bosnia e su di noi che hai partorito e che mangiamo il tuo pane. Dacci ciò che ogni giorno e notte, ognuno a suo modo, ti chiediamo; dona la pace ai nostri cuori e l’armonia alle nostre città. Basta con il sangue e con i fuochi di guerra. Abbiamo bisogno del pane della pace».

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