Ancora su «Le visionarie»

Suona meglio se la chiamiamo speculative fiction? E femminismo si può dire o no?

di Giulia Abbate (*)

Le Visionarie” @ Book Pride – 25 marzo 2018 – Report e commento

Domenica 25 marzo il dodo era a spasso al Book Pride, la fiera milanese dell’editoria indipendente.  Ne ho scritto un resoconto piuttosto sbilanciato sull’entusiastico, qui: Studio83 a Book Pride: ecco com’è andata!

Oggi compilo un altro resoconto, che all’entusiasmo per la validità del libro presentato unisce un po’ di sofferenza, per alcuni modi e definizioni con le quali faccio fatica a integrarmi.

Proprio domenica ho assistito alla presentazione dell’antologia di racconti SF (vedremo poi cosa davvero potrebbe significare questa sigla) “Le Visionarie”, curato nella sua versione originale da Ann e Jeff VanderMeer e in quella tradotta in italiano da Veronica Raimo e Claudia Durastanti per Nero Edizioni.

Jeff VanderMeer, il libro originale, Ann VanderMeer

 

All’incontro erano presenti la curatrice Veronica Raimo, le traduttrici Silvia Costantino, Chiara Reali e Clara Miranda Scherffig, lo scrittore Alessandro Gazoia, con la scrittrice Marta Zura-Puntaroni in veste di moderatrice.

Da sinistra: Gazoia, Costantino, Reali, Scherffig, Zura-Puntaroni, Raimo

 

Moderatrice per modo di dire, dato che già alle presentazioni partono gli strali:

L’organizzazione di Book Pride ha deciso che evidentemente cinque donne non bastavano per parlare di fantascienza, quindi c’è qui anche Alessandro Gazoia in veste di maschio quarantenne bianco eterosessuale, una categoria che come ben sapete è del tutto sottorappresentata nel mondo editoriale italiano.

Immediatamente dopo, emerge il fatto che Gazoia e Zura-Puntaroni sono in rapporti professionali e amichevoli, quindi una cosa che sembrava horror sfuma nel divertente. Bravo Gazoia a reggere il fuoco incrociato di ironie sulle “quote azzurre”, e di tanto in tanto brava Zura-Puntaroni a dimostrare con il rovesciamento quello che spesso passa una donna in eterna minoranza alle tavole rotonde, senza che la continua discriminazione della quale è oggetto venga nemmeno notata.

Grazie, Alessandro. È bello vedere maschi, nel mondo dell’editoria, che oltre a essere carini sono intelligenti. Non c’era bisogno che ti preparassi, non devi fare sempre il doppio per dimostrare di essere la metà di una donna, ti vogliamo bene per ciò che sei!

Attacca Veronica Raimo con il racconto del dietro le quinte. La casa editrice e soprattutto la curatela hanno avuto l’idea di coinvolgere più persone per dare il via a un progetto collettivo e anche per dividersi un lavoro piuttosto importante.

Libro italiano. Il logo non vi ricorda niente?

 

La reazione delle scrittrici, giornaliste, accademiche coinvolte è stata molto positiva, tutte hanno subito detto di sì alla prima richiesta e il lavoro è partito molto facilmente senza dover ricorrere a nomi “di scorta”. Le interpellate hanno dimostrato una grande voglia di esserci e di relazionarsi con i grandi nomi delle autrici dell’antologia da tradurre.

Zura-Puntaroni domanda (e risponde):

Perché “Le visionarie”? Perché non mantenere il titolo originale “Sorelle della rivoluzione”? Certo che in italiano quest’ultimo titolo suona un po’ ridicolo e anche guerrafondaio.

Veronica Raimo puntualizza che la decisione di cambiare il titolo è nata in accordo anche con l’editore. In italiano il titolo non sembrava così evocativo, così incisivo come lo è in inglese, così anziché cercare di migliorare quello ci si è mosse in un’altra direzione.

Zura-Puntaroni coinvolge poi le traduttrici chiedendo loro come si sono relazionate ai testi da loro scelti, perché hanno accettato di far parte di questo progetto e da dove è nato l’entusiamo iniziale riportato da Raimo.

L’antologia secondo Zura-Puntaroni presenta “oggetti”, così chiama i racconti, molto diversi tra loro. Si va dagli anni ’60 agli anni ’00: partendo da ambientazioni e dettagli che oggi potremmo definire ormai retrofuturisti, e leggere con un po’ di nostalgia; per arrivare a quella che la moderatrice chiama una “distopia tangente”, ovvero a racconti “che sviluppano quel barlume di e se arrivando a risultati distopici”. (Immagino che il “tangente” sia riferito al fatto che la distopia tirata fuori non si riferisce al lontanissimo futuro marziano ma quasi al qui e ora nell’immediato domani.)

Silvia Costantino racconta che la proposta di partecipare al progetto di traduzione “collettiva” dell’antologia le è arrivata inaspettata, direttamente da Veronica Raimo, nonostante non la conoscesse direttamente. Costantino, ricorda Zura-Puntaroni, ha curato “Di tutti i mondi possibili”, una raccolta di “saggi pop” incentrata sul fantasy, che quindi l’ha resa un nome più che adatto al progetto.

 

Costantino ha tradotto il racconto che lei definisce il più fantasy della raccolta: “La regina mangia la torre” di Tanith Lee. La sua esperienza di lavoro non è stata facile: il racconto è molto complesso nella lingua inglese, perché Lee ha un uso fortissimo della sinestesia, e riesce a rendere con pochissime parole, accostate in modo spericolato e sincretico, un’atmosfera intera. L’inglese da questo punto di vista aiuta, perché è una lingua molto sintetica già di suo, e permette una condensazione di suggestioni con pochissime parole. In più, il racconto aveva una serie di parole tecniche attinenti al fantasy e al cavalleresco: questo aspetto è stato meno difficile, dato che Costantino conosce il genere.

La cosa più ardua da gestire, ripete Costantino, è stata la lingua e il suo ritmo: aspro, complesso e difficile da rendere fluido mantenendo allo stesso tempo il ritmo da cavalcata, da scalata impressogli da Lee.

Tanith Lee

 

Costantino afferma poi che a suo avviso il titolo “Le visionarie” è bello e azzeccato e il progetto è stato importante. Secondo lei un progetto del genere “non si è visto” (e qui ahimé il dodo non può dirsi d’accordo, sono anni che ci facciamo il mazzo a fette sulle antologie SF al femminile).
“Le Visionarie” secondo Costantino serve sia per affermare il  genere (il genere quale? La SF? Vedremo poi… etc.), sia per dimostrare il fatto che ci siano donne oltre a Le Guin che possono scrivere queste cose, che lo stanno facendo e lo faranno.

L’affermazione di un volume tutto al femminile curato solo da donne e tradotto solo da donne è stata per Costantino una cosa “importantissima e vitale”, quindi ribadisce che non avrebbe potuto dire di no neanche se fosse stata sommersa di lavoro fino al collo.

Silvia Costantino

 

Microfono a Chiara Reali. Reali ha tradotto tre racconti molto diversi gli uni dagli altri, con difficoltà altrettanto diverse.

Per Reali la richiesta di partecipare è stata una bella cosa ma non una sorpresa: Reali traduce fantascienza da quattro anni con la casa editrice Zona42, che pubblica esclusivamente fantascienza. Tuttavia non si sente un’esperta di fantascienza, perché ha iniziato proprio con Zona42 e prima di allora non conosceva nulla in merito. Questo progetto è stato un caso ancora diverso, a Reali piaceva l’idea di un gruppo di donne che fossero al lavoro insieme sulla stessa cosa: idea che si è poi concretizzata in una grande curiosità reciproca nel gruppo di traduttrici, e in scambi di mail dai quali sono venute alla luce delle consonanze inaspettate. Reali ha avuto la percezione di un rapporto di vicinanza e sorellanza che non si limitava al solo fatto di stare lavorando tutte a un progetto unico.

Le traduttrici hanno avuto la possibilità di scegliere il racconto o i racconti ai quali lavorare. Reali ha scelto come primo racconto quello di Nnedi Okorafor, dato che stava iniziando a lavorare anche alla traduzione del suo “Lagoon” per Zona42. I due testi sono molto diversi tra loro, il racconto è “una cosa piccola”, una fiaba, quasi, nella quale si avverte anche più forte del romanzo il folclore africano. Nella semplicità dello stile, Reali ha inteso la difficoltà di rendere questa semplicità, e allo stesso tempo di lavorare su un testo che quanto è più breve, tanto più delicati sono gli equilibri che contiene.

 

Reali ha poi scelto “Jestella” di Susan Palwick, la storia di una lupa mannara innamorata di un uomo. Nella traduzione di questo racconto Reali ha trovato “la magia delle dita che corrono sulla tastiera”, e la bellezza di come l’autrice suggerisca la natura animale della protagonista.

Susan Palwick

 

L’esperienza per la quale Reali si dichiara grata è la traduzione del racconto di Catherynne M. Valente, “Tredici modi di concepire lo spazio/tempo”. Lo ha scelto senza un vero motivo, dovendone tradurre tre le mancava un racconto e così ha chiesto al suo editore e a un’autrice di sua conoscenza quale potesse essere la scelta: loro le hanno indicato senza alcun dubbi quello di Valente, cosa per la quale Reali li ha prima maledetti e poi ringraziati.

Catherynne Valente

 

Il lavoro è stato complesso, il racconto difficilissimo, perché usa dei linguaggi molto tecnici mutuati dalla biologia e dalla chimica, e allo stesso tempo è una storia molto intima e molto dolorosa.

È stato pazzesco perché proprio data la sua difficoltà, mentre ci stavo lavorando ne ero completamente distaccata, ma arrivata alla fine mi è piombato addosso e sono arrivata all’ultima pagina che traducevo piangendo.

Reali pone poi l’evidenza su un fatto interessante. Ovvero che non è neanche così scontato ritrovarsi a tradurre delle donne: le traduttrici sono tantissime, le “tradotte” rare. Tant’è che Reali ricorda bene il primo caso nel quale si è trovata a tradurre una donna, con un certo senso di sollievo, cercandovi un senso e una possibilità di riconoscimento e dialogo che non sempre scatta con autori maschi.

 

Zura-Puntaroni puntualizza ciò che tutti sappiamo: le donne sono numerosissime come lettrici, come ufficio stampa, segreteria, commerciale, redattrici, (e nelle copertine senza testa, aggiunge acutamente Reali) ma i ruoli di prestigio sono occupati dagli uomini. E aggiunge ciò che non sapevamo: tra il pubblico della presentazione, composto quasi unicamente da donne, gli unici uomini sono persone che lei conosce personalmente, quindi in un certo senso non sono presenti per un interesse legato esclusivamente al testo né per serendipità.

Prende la parola Clara Miranda Scherffig. Ha tradotto a sua volta tre racconti e concorda con le colleghe, specialmente con Costantino: anche per lei la richiesta di partecipare alla traduzione è stata inaspettata, perché lei non è traduttrice e ha affrontato l’esperienza “con molto impegno e volontà”. La pratica della traduzione è una pratica molto solitaria: invece sentirsi parte di un progetto collettivo e comunitario ha reso questa esperienza un’occasione di scambio con una valenza anche emotiva, cosa che non si aspettava. Aggiunge che, oltre a non essere traduttrice, non ha alcun tipo di conoscenza approfondita del genere fantascientifico e fantasy: ma si è fatta trascinare dal concetto di speculative realism, che a suo modo di vedere è un concetto molto accogliente, sia dal punto di vista creativo, sia di chi lo legge,

perché offre possibilità molto più ampie di quelle legate e limitate a un genere specifico.

Scherffig ricorda poi che nella postfazione all’antologia, a cura di Raimo e Durastanti, vengono nominati alcuni temi che oggi non si vedono più molto attinenti con il femminismo, come quello dello spazio domestico.
Nel racconto “La sposa perfetta” di Angélica Gorodischer, da lei tradotto, c’è proprio questo: una donna che esplora la propria dimensione domestica di moglie/madre/donna di casa, con dei momenti di fantasia e violenza estrema nei quali immagina che angoli della sua casa si aprano verso mondi altri.

Angélica Gorodischer

 

(Questa descrizione mi ha ricordato alcuni aspetti di “Memorie di una sopravvissuta” di Doris Lessing. La contemplazione della protagonista al misterioso “mondo nella parete” è una delle immagini più forti che abbia mai incontrato in un libro da sempre.)

 

Scherffig conclude: proprio traducendo quel racconto e indagando anche il proprio personale rapporto con una quotidianità ripetitiva si è resa conto di come l’approccio di questi racconti abbia delle prospettive di lettura estrema sul presente, sul contemporaneo e sulla società nella quale viviamo, ed è quindi molto arricchente. (“Anche se non ho figli”, dichiara: aspetti di trovarsi a raggranellare lo stesso puzzle nella stessa scatola per la quindicesima volta in un giorno, l’approccio estremo ne verrà enormemente arricchito).

Clara Miranda Scherffig

 

Arriva il momento di Alessandro Gazoia: oltre a essere autore e a dimostrare finalmente una minima cognizione di causa sulla essere appassionato di fantascienza è anche tra gli organizzatori di Book Pride. Si dichiara in primis molto felice della sala piena e ringrazia anche chi è in piedi. Mi giro. Caspio, la sala è davvero piena!

Gazoia inizia con una nota di colore: “Le visionarie” è un libro che è stato incluso nelle bibliografie d’autore di Book Pride e quindi due copie fornite dall’editore sono state messe a disposizione dei lettori. Entrambe le copie sono state rubate.

Questo può voler dire due cose: o che i lettori di Nero sono estremamente anarchici e radicali, e la cosa può anche far piacere, o che il libro effettivamente è un bel libro, talmente bello che si ruba come il pane.

…indovinato! Abbiamo avuto la stessa idea, un bel po’ di tempo fa ?

 

Gazoia ricorda poi i suoi trascorsi da lettore di fantascienza: girava per le bancarelle negli anni ’90 convinto che la rinascita della letteratura italiana sarebbe passata per la fantascienza.

In italia c’è stato un unico grande genio della scrittura di fantascienza, che è stato Valerio Evangelisti, insieme a Nicoletta Vallorani.

Accortosi poi che non c’erano molte autrici (negli Urania? NO!) Gazoia iniziò a documentarsi e scoprì due nomi di rilievo: Ursula LeGuin (che ahimé, da qui in avanti tutti e tutte pronunceranno leghèn, sbagliando: il nome era bretone e si pronuncia come si legge, leguìn, come ci insegna anche l’amico Francesco Troccoli) e Margaret Atwood, che hanno vinto molti premi non solo nel genere. Mostra poi un libro Urania vintage (talmente vintage che quando viene aperto perde fogli) di James Tiptree Jr, che è un po’ l’emblema della fatica che il nome femminile deve fare per essere preso sul serio.

Gazoia riporta questo esempio al rovescio e abbastanza light: Secondo lui, lo pseudonimo maschile di Alice Sheldon

nel 1967 era una scelta che suonava assolutamente naturale, perché ovviamente era una cosa che dava più autorevolezza.

Dopo  aver letto qualche nome da un elenco di autrici fantascientifiche contenuto nell’Urania da lui maneggiato, cita poi le parole di Sturgeon che “affermava che la SF migliore era ormai quella scritta da donne, con l’unica eccezione di James Tiptree Jr”.

Una versione che non esclude questa la aggiungo io, ed è ancora più svilente: capitò infatti che la prosa di James Tiptree Jr venne citata come dimostrazione del fatto che solo un uomo poteva scrivere pagine tanto efficaci e che una donna non ci sarebbe mai riuscita.

Alice Sheldon (che si firmava James Tiptree Jr)

 

Gazoia svela poi il mistero con il quale ho finora menato il dodo nell’aia, cioè quello relativo alla criptica sigla SF. Perché afferma:

la SF – che può essere speculative fiction e science fiction – migliore era ormai quella scritta da donne…

Sono rimasta davvero sorpresa, e non per forza negativamente, da questa curiosa e rivelatoria sovrapposizione.

Filologicamente parlando, SF non è speculative fiction, ma solo science fiction: fantascienza. La quale, tra i suoi tanti mondi e le sue multiformi anime, emenda quelle più WASP e sborone (fatte di colonizzazioni spaziali e astronauti Smith che salvano principesseh sopra libri da bancarella in via di dissoluzione) con robuste dosi di speculazione: filosofica, sociale, umana, tecnologica.

Science Fiction è il nome di questo grande (nel senso di vasto) genere. Science fiction è il nome che proprio Ursula Le Guin, più volte citata nella presentazione, rivendicava come proprio, come dignitoso, come grande (nel senso di importante).

Eppure, mai come in questa presentazione ho potuto constatare lo scarsissimo appeal che la parola fantascienza esercita su operatori/trici prevalentemente mainstream, che addirittura “occupano” la sigla SF attribuendola a un’etichetta considerata ben più appetibile e vendibile: speculative fiction.

Questo accade anche nella postfazione di Raimo e Durastanti a “Le Visionarie”. Lì, la parola “fantascienza” è scritta tre volte, una delle quali in senso avversativo:

Le visionarie ha fatto qualcosa di diverso: ci ha permesso di incrociare le nostre posizioni su femminismo e scrittura di genere con la fantascienza e la distopia, due modalità di racconto a cui abbiamo dedicato sempre più attenzione nel corso degli ultimi anni.

[…]

La contaminazione del nostro immaginario avvenuta per mezzo di Black Mirror, Stranger Things, e prodotti quasi new weird come The OA, oltre al cinema del nuovo regista di culto Danis Villenueve, ha creato un’ansia di realtà aumentata, un genere di distorsione che non tende né al realismo magico né a una fantascienza irrimediabilmente futuribile.

[…]

le città che ospitano questi racconti sono quasi sempre riconoscibili, e i mondi paralleli possono essere desertici o boschivi come nelle fiabe, ma persiste un tono da fantascienza «della porta accanto».

La “fantascienza della porta accanto”, che non sia futuribile ma che coinvolga aspetti attuali e urticanti della nostra quotidianità, esiste già, esiste dagli anni ’70 (grazie anche a molte penne femminili) e si chiama così, fantascienza, con un aggettivo che la contraddistingua: speculativa, sociale, o che dir si voglia.

Veronica Raimo

 

Nella stessa postfazione, la definizione speculative fiction ricorre dieci volte. Insieme alla spiegazione che mi aspettavo:

Uno dei problemi iniziali nel tradurre l’antologia è stato proprio rendere in italiano l’espressione «speculative fiction»: abbiamo optato per mantenere la dicitura inglese perché qualsiasi rimando a «letteratura di genere» avrebbe depotenziato il carattere teorico e politico insito nella definizione. Per fortuna i confini della speculative fiction non sono prescrittivi

Tutto chiaro? Speculative fiction (riportato in tondo) ha qualche speranza di essere preso in considerazione dal grande pubblico, invece fantascienza puzza ancora di sfiga.

Non sono ironica. Io stessa la penso così. Ciò non vuol dire che mi piaccia, ma tutto ci porta a queste conclusioni.
Alla fiera del libro, l’editore di fantascienza acchiappa gli sguardi solo se indossa la maglietta di Black Mirror.
Alla stessa presentazione che qui racconto mi è parso di constatare che ci fosse un pubblico generalista, magari femminista, ma non fantascientista, non composto da appassionati o anche solo conoscitori del genere; ai quali anzi nel corso degli interventi è stata più volte appioppato lo stereotipo di “nerd maschio trentenne con l’acne pronto a correggere e attaccare ogni minima cosa si discosti dal suo canone”.

Io non sono maschio, non sono nerd, e ho passato l’età dell’acne: sono trent-acinquenne, e solitamente mansueta. E in un certo senso capisco questa percezione, capisco perché la gente consideri noi fantascientisti degli sfigati che annullano le vendite: la chiusura e il tradizionalismo del fandom è un dato di fatto e colpisce anche noi nuove leve (di trentacinque anni: in altri paesi a trentacinque anni con quasi dieci anni di lavoro letterario e di pubblicazioni sei almeno “autrice”, qui noi, il dodo siamo ancora “giovani autrici”. Tutto chiaro?)

Il dilemma per quanto mi riguarda resta aperto. La specificazione di Gazoia mi ha raggelata per qualche minuto, per fortuna ho la registrazione che mi previene da imbarazzanti buchi. Dopo qualche altro commento Gazoia afferma:

Alla periferia della produzione letteraria ci può essere la sperimentazione.

Sperimentazione, in questo caso di gender (genere sessuale) non di genra (genere letterario). Per chiarirlo, Gazoia aggiunge che lo stesso fenomeno delle fan fiction iniziato con racconti di amorazzi tra Kirk e Spock è in realtà un grande lavoro di decostruzione dell’immaginario maschile, fatto prevalentemente da donne.

La moderatrice insieme alla curatrice fanno poi un paragone tra la prefazione dei curatori della versione originale, tesa a contestualizzare l’antologia e a spiegare le scelte fatte, e la postfazione delle curatrici italiane: che è più politica e non può non tenere conto dei movimenti e delle forti correnti di opinione a proposito delle questioni di genere, occorse dal 2015 al 2018, anni delle due rispettive versioni.

L’introduzione dei VanderMeer ribadisce l’arbitrarietà delle scelte compiute, e il fatto che il racconti non siano presentati in ordine cronologico sulla base della data di uscita. Sono scelte che rispecchiano l’attenzione di/dei Vandermeer per tematiche precise, come quella ambientalista, ad esempio, ma in nessun modo questa antologia vuole rappresentare un canone.

Essa vuole piuttosto aprire un dialogo: sia con le scritture del presente, non solo di donne e non solo di genere, ma “cosiddette mainstream”; sia con quello che potrà avvenire in futuro intorno a noi. E secondo Raimo vuole essere anche una sorta di stimolo per giovani e autrici e autori

a considerare la speculative fiction non più un genere di serie B o un tipo di scrittura marginale, qualcosa che in qualche modo si fa ai propri inizi per poi approdare al realismo come se esso sia una sorta di scrittura della maturità.

 

La postfazione italiana serve poi per inserire un minimo di aggiornamento dell’immaginario, che oggi si evolve a un ritmo velocissimo anche grazie a serie televisive di grande successo. Questo tipo di immaginario non è più limitato esclusivamente alla cultura nerd, ma si è esteso anche alla cultura mainstream. Quest’ultima non è da considerare in senso negativo, e non è detto secondo Raimo che il mainstream debba escludere la radicalità di visione.

Si può fare politica anche nel maistream, si può essere radicali anche nel mainstream, si può essere bravi scrittori anche nel mainstream! Anzi… magari!

Zura-Puntaroni ricorda poi le parole di Ursula LeGuin relative ai muri: muri eretti dai fantascientisti uomini, muri a volte date per scontate dalle fantascientiste donne.

Ursula Le Guin

 

L’incontro si avvia verso la sua conclusione con un excursus della moderatrice, che rileva come secondo lei le scrittrici siano condizionate da una supposta necessità di “serietà”, di “letteratura seria”, che le spinge a lasciare da parte qualsiasi accostamento e contiguità con la letteratura di genere, considerata inferiore e meno “seria” appunto, per evitare ulteriori etichette e ghettizzazioni. Si sente a suo avviso la continua necessità di manifestare una certa superiorità morale rispetto a questi generi, perché essi sono considerati generi inferiori e se messi in mano a una donna essi diventano inferiori “all’inferioresima potenza”.

Marta Zura-Puntaroni

 

Silvia Costantino interviene portando la sua esperienza personale: quando era più piccoa leggeva fantasy e fantascienza, poi le ha accantonate, per riprenderle solo con l’arrivo di Miyazaki,  che le ha suscitato una nuova prospettiva di “valore” delle scritture e letture fantastiche. Queste ultime  sono state comunque arricchite, grazie al benefico influsso di serie TV come “Il racconto dell’ancella” che le hanno fatto scoprire Atwood (la quale, tra parentesi, non voleva essere considerata una “scrittrice di fantascienza”, proprio come Doris Lessing).

Anche secondo Costantino c’è un pregiudizio universale nei confronti del genere e ancora di più nei confronti di chi voglia affermarsi come critica letteraria e autrice e provi a sperimentare fuori dal mainstream: automaticamente diventa la serie B della serie B.

Costantino aggiunge che anche all’interno del nerdom, ovvero dell’ambiente nerd che ha una cultura ormai a tutti gli effetti inserita nel filone principale, esiste una fortissima discriminazione di genere: anche le gamer sono discriminate e non vengono prese sul serio rispetto ai colleghi maschi! E anche in questo ambiente sono proprio le gamer che stanno sollevando il problema, aprendo dei veri gamer gate, in un mondo che dovrebbe “essere unito dal sacro fuoco della sfiga” ma che è a sua volta molto, troppo sessista.

Ben venga quindi secondo Costantino il progetto di “Le visionarie” che dimostra non solo la dignità del genere letterario ma anche che le donne lo sanno fare.

La moderatrice Zura-Puntaroni ricorda che esiste anche un problema di rappresentazione all’interno dei testi: i personaggi femminili o sono monodimensionali e stereotipati, oppure devono essere dotate di superpoteri per avere legittimità di apparire. Per non parlare della macchietta destinata spesso a personaggio dell’attivista femminista, o alla reazione scocciata di molte persone, tra le quali fior di accademici, al sentire la parola “femminista” accostata a qualsiasi discorso.

(Non ti dico certi editori alla parola “fantascienza”.)

Veronica Raimo conclude con una ultima nota sulla parola femminista: questa antologia non parla di femminismo come se invocasse l’arrivo di un pensiero unico, o come se questo fosse un concetto precisamente chiaro e uguale per tutte. Esistono molti femminismi, esiste una dialettica all’interno di questi femminismi che sono in evoluzione e inclusivi.

Mi sembra assurdo togliere al femminismo il nome femminismo solo perché gli uomini ne possano parlare. Ma se dobbiamo fare questa cosa la facciamo, ci diamo un nome qualsiasi.

Tutto chiaro?

E noi che facciamo, colleghi e colleghe, con questa etichetta ancora più scomoda e puzzolente, con questa fantascienza? Le cambiamo nome per vendere? Vogliamo davvero vendere (io sì, f**a)? In questo cambiamento epocale dei gusti del pubblico che grazie alle serie TV è oggi come non mai disponibile a farsi “contaminare” dai generi, cosa ci conviene fare? Farci “contaminare” a nostra volta, cambiare pelle, per essere letti? Vogliamo davvero essere letti?

Quello che mi pare di capire è che in questi tempi nei quali il femminismo sta riprendendo forza, e grazie alle nuove generazioni sta anche andando di moda (EVVIVA) è che la nuova “f-world”, la “parola che è meglio non pronunciare ma inizia per F”… non è più feminism.

Guess what? I like f*ntascienza!

 

Ultime battute sulla presentazione. Chiusa la parte dedicata alle relatrici e al relatore, arriva quella delle “domande dal pubblico”.

Ne faccio una io: negli ultimi anni ci sono state in Italia delle antologie di racconti di fantascienza (ops) delle donne, e l’obiezione che abbiamo ricevuto sempre e per prima è stata quella del “sessismo al rovescio”, della discriminazione ai danni degli autori uomini nelle antologie “di sole donne”. Se qualcuno ponesse questa critica a “Le Visionarie”, quale sarebbe la risposta?

Raimo:

Sarebbe bello vivere in un mondo dove questa domanda ha senso. Magari ci fosse una tale rappresentanza e una tale parità da farci stupire della necessità di antologie del genere.

Concisa ma giusta.

(Qualche tempo fa, comunque, anche noi il dodo abbiamo dato una nostra visione della cosa nel post “Antologie al femminile: è discriminazione?”)

Le visionarie: dodo’s notes

Devo ammettere, come forse chi legge avrà capito, che assistere a questa presentazione mi ha suscitato emozioni e reazioni contrastanti.

Come prima cosa, ritengo che “Le visionarie” sia un progetto bellissimo e meritorio e che le curatrici e la casa editrice abbiano fatto una cosa importante a pubblicarlo in Italia, e a promuoverlo bene come stanno facendo.

Allo stesso tempo, alla presentazione mancava chiaramente una figura di raccordo tra due mondi ancora separati, che si disconoscono a vicenda: ascoltare discorsi sulla fantascienza al femminile da parte di persone che affermano tranquillamente di non conoscere la fantascienza, o che pensino che “Le Visionarie” sia la prima antologia di questo tipo a uscire in Italia, mi ha fatto sentire come se qualcuno parlasse di me in mia presenza, senza conoscermi e senza riconoscermi.

Magari è stata una sensazione immotivata.
E “Le Visionarie” è effettivamente il primo testo con racconti solo di donne tradotto solo da donne curato in Italia solo da donne. Ok, è di JEFF VanDerMeer, che è un signor meganome, ma c’è anche Ann, e comunque resta eccezionale.

Ma cose come “il genere Es-Ef ha una sua dignità e le donne lo sanno fare”, e il fatto che esistano molti altri testi che lo provano, è una novità solo per chi non si è documentato in merito e arriva a “Le Visionarie” mantenendo intatti i pregiudizi che ora afferma di sfatare.

I discorsi più “fanta-ferrati” li ha fatti Gazoia, ma con una prospettiva comunque superata, rimasta appunto alle bancarelle degli anni ’90 e ad Alice Sheldon.

Tutto il fermento che c’è in questi ultimi anni nello stagno SF non è stato preso in considerazione, e come sempre mi chiedo se questo non sia un po’ anche colpa nostra. (Lo è.)

Ma quando si afferma che non è giusto che un genere sia considerato di secondo piano, quando si dice che in fondo la fantascienza e il fantasy hanno una loro dignità, non bisognerebbe anche fare qualche ricerca in merito?

Siamo nell’era di internet, in fondo: realtà attive come Delos Digital, Della Vigna, Hypnos, Zona42 e molte altre sono raggiungibili con un click, al massimo con una googlata un po’ più lunga del normale, pronte a darci le giuste informazioni e definizioni per capire meglio il genere senza dover ricorrere a superflue contorsioni semantiche  come “fantascienza della porta accanto” “non irrimediabilmente futuristica”, “distopia tangente”, “speculative realism”, “la nuova speculative fiction” e così via.

O non sarà mica che sono furiosa perché la fantascienza è un giocattolo che pensavo fosse tutto mio e invece adesso è di tutti?
Anche questo, lo ammetto senza problemi, può essere una possibilità.

angry dodo!

 

Ma mi chiedo: in questo momento di grande interesse verso cose che molt* di noi siamo brave e bravi a dire da tanto, in questo aureo e transeunte attimo di interesse verso i nostri pastrocchi “della porta accanto” e terribilmente “tangenti”… aspetteremo che l’interesse passi, per ritrovarci nella nostra tana calda e tirare una lagna di sollievo? Oppure ci faremo vedere alle presentazioni, ci faremo sentire ai dibattiti fuori dalle nostre zone di CON-fort, offriremo la nostra competenza come raccordo tra i mondi in maniera positiva e assertiva e inizieremo a scrivere e a valutarci professionalmente? Riusciremo almeno a farci pettinare un po’, e tramite questa concessione dopotutto piccola a farci guardare, a farci leggere?

Io non voglio fama, io voglio ascolto.

Lo diceva Sibilla Aleramo, grande visionaria, circa un secolo fa.

Sibilla Aleramo

 

Ma nemmeno l’ascolto è gratuito, né scontato. Cosa fare, e come, per ottenerlo?

Mentre ci pensate ecco un’idea di Elena: un MEME! Poteva essere altrimenti?

YAK!

(*) ripreso da lezionisuldomani.wordpress.com

(**) in “bottega” cfr «Le visionarie» cioè “sorelle della rivoluzione”

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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