Ancora su «L’epoca delle passioni tristi»…

di Miguel Benasayag e Gerard Schmit

Ragionando di scienza, futuro, felicità (*) qualche mese fa avevo lodato «L’epoca delle passioni tristi»: è uscito in italiano nel 2004 ma viene di continuo ristampato; è in economica a 7,50 euri ma ho visto che alcune librerie Feltrinelli fanno un ulteriore sconto… motivo in più per riparlarne. E’ scritto da Miguel Benasayag e Gerard Schmit: filosofo e psicoanalista il primo, terapeuta il secondo. «Oggi due veterani dell’ascolto prendono la parola e chiedono a loro volta che li si ascolti» si legge nella «Breve dichiarazione d’intenti» che apre il volume: «Nella prima parte di questo lavoro desideriamo riflettere sull’aumento, che constatiamo ogni giorno, delle richieste di aiuto rivolte ai nostri servizi dalle famiglie, dalle istituzioni, dagli individui, in breve dall’insieme della società. E più in generale sul fatto che, a nostro avviso, questa evoluzione è una testimonianza dell’innegabile tristezza che attraversa la società attuale».

Tristezza, sì.

«La complessità del tutto naturale del vivere è forse diventata patologica?» si (e ci) chiedono Benasayag e Schmit: «Con gradazioni diverse, tutte le situazioni che incontriamo generano sofferenza. Ma sono davvero tutte di competenza della psicologia? Nella loro diversità, hanno alcuni punti in comune:il carattere ansiogeno, i passaggi violenti all’atto (compresa naturalmente la violenza su di sé), un sentimento di emergenza, di crisi e di destabilizzazione». E poco dopo: «Sicuramente il fatto di vivere con un sentimento (quasi) permanente di insicurezza, di precarietà e di crisi produce conflitti e sofferenze psicologiche ma ciò non significa che l’origine del problema sia psicologica».

Il «ma» della frase precedente apre al sociale, alla politica. Rimanda alla razionalità e all’irrazionalità dell’agire individuale e collettivo. «Se pensiamo alle speranze suscitate dallo scientismo, non possiamo non constare tutta l’inquietudine e la tristezza provocate da questa evoluzione [verso l’irrazionalità]. Resta tuttavia una certezza e non da poco:che questa tristezza si può superare. Ed è la forza di questa convinzione che ci guida nella formulazione di ipotesi per l’accoglienza e l’accompagnamento in psichiatria. Siamo convinti che il pessimismo diffuso di oggi sia esagerato almeno quanto l’ottimismo di ieri. O meglio, per noi clinici, impegnati quindi nella prassi effettiva, il pessimismo e l’ottimismo rimangono categorie troppo passive e immaginarie. La configurazione del futuro dipende in buona parte da ciò che sapremo fare nel presente».

Mi pare un discorso che non vale solo per «i clinici». Io, nel mio costante “pessottimismo” mi ci riconosco molto. E assai mi piacerebbe se la buona politica avesse questa consapevolezza.

Pur se la loro analisi è giustamente fosca, Benasayag e Schmit mai perdono la speranza.

Rispetto a chi dice che bisogna aspettare, rimandare, mirare basso: «E’ una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. […] Quindi promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio».

Poche pagine dopo: «la storia insegna che è soprattutto l’azione collettiva che consente di sfuggire al determinismo dell’etichetta». Lottare, resistere, costruire: vale per le minoranze organizzate, vale per i grandi movimenti.

Ancora: «In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono solo atti di liberazione che si connettono agli altri». Sembra di ascoltare Freire, Rosa Luxemburg o Marx. Ce lo ricordano due psicoterapeuti perché sanno che l’impotenza, l’incertezza, la paura, il disagio del vivere oggi sono merci distribuite ovunque, anzi regalate, obbligatorie.

Dopo aver parlato del Ritalin (uno dei tanti orrori medici che gli Usa vorrebbero imporci) e delle etichette che cancellano i bambini come tutti gli altri individui, Benasayag e Schmit scrivono: «Il nostro lavoro di clinici non può consistere nel cancellare le differenze» e raccontano una piccola storia che è anche una grande metafora di come non bisogna accettare il razzismo che è nelle norme di un mondo dove l’unica cosa davvero sacra è la merce.

E quasi alla fine del libro: «Oggi per essere al servizio della vita è necessario praticare un certo grado di resistenza. Resistere significa anche opporsi e scontrarsi, ma non dimentichiamo che, prima di tutto, resistere è creare»

Un libro che vi stra-consiglio.

(*) Ne avevo ragionato in un post – del 28 agosto 2013 – intitolato «Scienza e futuro: tornerà la bella coppia?». (db)

 

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