Ancora su «L’ultima genesi» di Octavia Butler

Considerazioni di Giuliano Spagnul

La fantascienza è stata una letteratura di genere del XX secolo, dove per genere si deve intendere sia quel grumo di tematiche, ambientazioni, personaggi ecc. ricorrenti – sorretti da alcune convenzioni che ne caratterizzano una data (per quanto soggetta a mutazioni evolutive) forma – che propriamente “genere” in quanto distinzione sessuale, e in questo caso maschile. La cosiddetta narrativa d’anticipazione scritta essenzialmente da uomini e letta in gran parte sempre da uomini ha come aspirazione massima «quel desiderio insaziabile posseduto dai primissimi esploratori, di essere la prima persona a vedere qualcosa, a sapere di essere là dove nessun uomo era mai stato» (nota 1). Ricordiamo anche cosa diceva quel replicante, umano troppo umano, Roy: «ho visto cose che voi umani…» traducendo in parodia lo stesso anelito prometeico. C’è voluta la fine del genere in quanto tale perché le donne potessero irrompere in quell’immaginario, roccaforte maschile, per guastare definitivamente la festa. Da Ursula Le Guin in poi le cose non saranno più le stesse e le varie tematiche fantascientifiche che sul finire degli anni Settanta cominceranno a trasmigrare oltre il genere, di fatto sancendone la morte per l’obsolescenza dei suoi confini, presteranno sempre più il fianco a una visione radicalmente altra da quella maschile fino allora dominante.

«L’ultima genesi» – primo romanzo della serie Xenogenesi – della scrittrice afroamericana Octavia Butler (nota 2) sembrerebbe raccontarci il classico incontro con gli alieni, il tutto inserito nel solito, ormai più che consueto, refrain posta-pocalittico. I superstiti umani raccolti in un’astronave aliena, organismo vivente extraterrestre essa stessa, vengono risvegliati da un coma indotto, individualmente o a piccoli gruppi, per essere educati a affrontare un reinserimento sulla Terra, nuovamente resa abitabile, insieme agli alieni stessi. In particolare la storia si focalizza sulla protagonista, afroamericana come l’autrice, dal nome evocativo di Lilith e sul rapporto che essa sviluppa con esseri dall’aspetto mostruoso, gli Oankali, che si definiscono mercanti di geni. Nella parte finale la storia si complicherà drammaticamente per il conflitto con gli altri esseri umani che accuseranno Lilith di essere una traditrice della propria specie.

Sembrerebbe appunto che ci si trovi all’interno della solita vicenda di un contatto ravvicinato, troppo ravvicinato, con l’altro da noi. Ma tutto, a un esame più approfondito, sembra smentire, o quanto meno rendere assai incerta e labile questa visione, tutto sommato rassicurante in quanto consueta e praticata in innumerevoli varianti. Troppe cose non quadrano. Nell’accurata descrizione di questo rapporto mostruoso ciò con cui ci troviamo a confrontarci non è tanto l’altro da noi, chi ci sta di fronte assomigliandoci nell’interiorità ma diversificandosi totalmente nell’esteriorità, o viceversa. Questo è quanto ci ha abituato la vasta letteratura fantascientifica nel prospettarci la gran parte dei casi di incontro con l’alieno. Ma qui, l’ansia e l’angoscia di questo incontro è più profonda, perché l’incontro che ci viene prospettato è con noi stessi, con ciò che siamo senza nessuna problematica dell’altro in quanto altro. Paradossalmente l’alieno oscura chi ci sta di fronte facendone riverberare al massimo le sue pure espansioni fisiologiche comunicative. Come se fossimo tutti sordi e semiciechi; e potessimo intravedere solamente le scie dei movimenti delle mani che parlano il linguaggio dei gesti. Gli Oankali, questi nostri specchi interiori, agitano le loro propaggini ripugnanti che toccano il nostro sentire interno, incapaci di mentire, spietatamente veritiere. Il nostro essere pieni «di vita e di morte e di potenziale di cambiamento» ci viene palesato senza alcuna cautela. A Lilith – che prima della catastrofe era tornata all’università per intraprendere studi di antropologia – un’altra donna, anch’essa prigioniera degli alieni, chiede sprezzante: «perché volevi ficcare il naso nella cultura di altri popoli? Nella tua non c’era quello che cercavi?». Per questa donna, Tate, «gli esseri umani sono tutti uguali, molto più di quanto ci piaccia ammettere». Un’osservazione che per Lilith accumunava il suo pensiero a quello degli Oankali. La razza umana, questa specie – unica sopravvissuta tra le specie della famiglia degli ominidi – ha al suo interno un proliferare di culture che cambiano e si ibridano fra loro ma che non costituiscono mai una diversità di specie, una mutazione che si stacca dalle altre per fondare una specie affatto diversa. Condividiamo tutti la stessa sorte; ci diversifichiamo per culture e all’interno di ognuna di queste operano differenti modi di interpretare e stare al mondo. È per questo che ci servono gli Oankali, questi alieni che commerciano in geni e debbono coabitare con noi. Per diversificarci e renderci capaci di più ibridazioni possibili. È una cosa difficile da accettare perché mette in discussione il nostro spontaneo bisogno di sicurezza, che solo un’identità forte, precisa, e una collocazione conseguente in una data gerarchia funzionale sembrerebbe poterci offrire. Per gli Oankali gli umani hanno due caratteristiche incompatibili fra loro: «siete intelligenti. Questa è la caratteristica più recente delle due, e quella che avreste potuto usare per salvarvi. Potenzialmente siete una delle razze più intelligenti che abbiamo scoperto» ma «avete una struttura gerarchica. Questa è la caratteristica più antica e più radicata. L’abbiamo individuata nei vostri parenti più stretti del regno animale, e anche in quelli più lontani. È una caratteristica terrestre. L’intelligenza umana ne è stata lo schiava, anziché la guida; non l’ha nemmeno riconosciuta, come problema; addirittura ne ha tratto motivo d’orgoglio, o non l’ha notata affatto».

Il mutare, il processo di cambiamento continuo a cui un’intelligenza vivace e sveglia ci stimola nell’affrontare le nuove situazioni a cui la vita ci sfida incessantemente si scontra con la sclerotizzazione di quei sistemi gerarchici (forti ancor più quando non portati a un pieno stato di coscienza) strategicamente efficaci per altre specie animali operanti in contesti di vita molto meno complessi dei nostri. Tutta l’atmosfera di claustrofobia sessuale che si respira nell’intero libro deriva da questa discrasia. Chi sta sotto e chi sta sopra, chi penetra e chi è penetrato, chi attivo e chi passivo. Questo terzo incomodo, tutt’altro che semplice voyeur alieno, confondendo i ruoli, rendendo impossibile una netta distinzione annulla – o comunque fa diventare difficoltosa e precaria – ogni gerarchizzazione. È il problema della sessualità umana che con tutto ha a che fare tranne che con il sesso.

Octavia Butler è una scrittrice femmina, e pure nera; abituata (ma non rassegnata evidentemente) a sentirsi collocata, categorizzata in una determinata scala di valore gerarchico. È donna, è nera; occupa uno degli ultimi scalini. In quanto umana non può non temere quegli Oankali che minacciano anche la sua, per quanto infima possa essere, essenza umana. Per questo, forse, pensa che l’unica possibile via d’uscita possa trovarsi in quell’imperativo: «Impara e scappa!». Anche se non sa bene cosa si dovrebbe imparare e cosa da cui scappare. Ma forse in questo rischioso rapporto con questi abili trafficanti di mutazioni, commercianti di geni, «anche se lei era condannata, altri potevano non esserlo. L’umanità poteva non esserlo».

Nota 1: Donna Haraway, Manifesto cyborg, Feltrinelli, 1995: pag 138 citazione da G. Gloub, Immunologia: una sintesi, Zanichelli, 1989

Nota 2: ristampato da Urania nel novembre 2019.

SEGNALO IN BOTTEGA questa vecchia recensione (un ululato per essere precisi) di Erremme Dibbì cioè Riccardo Mancini e Daniele Barbieri: Lilith e gli alieni rigenerano il mondo… E ne approfitto per ribadire che con Giuliano Spagnul è sempre un piacere discutere e persino litigare: io ad esempio sulla questione della «fine del genere» non sono d’accordo con lui (come non lo ero con Antonio Caronia e con il gruppo-rivista di «Un’ambigua utopia») ma semmai ne ri-parleremo un’altra volta. Intanto quel che importa è leggere questo romanzo che entrambi troviamo importante oltre che ben scritto, il che non guasta. [db]

 

Redazione
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Un commento

  • Ottima recensione,profonda e puntuale.Analisi come questa,non solo fanno bene alla letteratura in genere,perchè entrano nel cuore della narrazione e la decifrano,ma fanno bene alla fantascienza perchè,qualora ce ne fosse ancora bisogno,nel XXI secolo,la ri-pongono su quel gradino di scrittura
    “alta”che da sempre le compete,per il suo ruolo di indagine,riflessione e condanna sui mali dell’uomo,
    che da sempre incarna,seppur spesso disconosciuta.

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