Angeli, Arpaia, Qiu, Pennac, Riva, Winslow e “tutto” sulle Marche

recensioni – non solo giallo/noir – di Valerio Calzolaio

Calzolaio-PENNAC

Gigi Riva

«L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra»

Sellerio

187 pagine, 15 euro

Firenze. 30 giugno 1990. È in corso Jugoslavia-Argentina, quarti di finale dei Mondiali. Si va alla lotteria dei calci di rigore, il capitano difensore bosniaco con la maglia numero 5 Faruk Hadžibecić sbaglia, la magnifica squadra nazionale viene eliminata e, da lì in poi, la nazione stessa si sfalda definitivamente. Il caporedattore centrale del settimanale “l’Espresso” – che allora seguiva le crisi balcaniche come inviato speciale de “il Giorno” – Gigi Riva (Nembro, 1959) ricorda l’episodio, premesse e seguiti, sportivi e politici, per il tramite della biografia del calciatore. Interessante e tempestiva la sua inchiesta storica «L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra», mentre assistiamo a partite latinoamericane ed europee e assisteremo a giochi olimpici ove immigrazione e meticciato sono elementi ordinari di identità pur sempre nazionali. E separatismo e razzismo possono essere dietro l’angolo (di una sconfitta).

 

Andrea Angeli

«Kabul-Roma. Andata e ritorno (via Dehli)»

Rubbettino

237 pagine, 14 euro

Kosovo, India, Afghanistan. 2010-2015. Andrea Angeli (Macerata, 1956) da 30 anni lavora sui fronti caldi per l’Onu e altri organismi internazionali. Ha raccontato i primi decenni nel libro «Peacekeeper», poi il seguito in «Senza pace», ora gli ultimi cinque anni nel bel saggio «Kabul-Roma. Andata e ritorno (via Dehli)» con ottima prefazione di Bernardo Valli. Prima fu destinato a gestire i rapporti Onu con la stampa a Pristina, poi (dal 2012 al 2014) a collaborare col ministero degli Esteri italiano nella vicenda dei marò arrestati in Kerala, infine ancora a Herat per l’Alleanza atlantica. Angeli è un Political Adviser, assiste il comandante del contingente sui temi di carattere politico-diplomatico, in genere unico civile fra centinaia di mimetiche di ogni grado, arma e nazionalità. Brevi paragrafi, stile colloquiale e godibile, colmo di utili riferimenti a personalità ed episodi nei quali ci si imbatte di continuo, per meglio conoscerli e valutarli.

 

Daniel Pennac

«L’occhio del lupo»

traduzione di Donatella Ziliotto

Salani

Uno zoo. Da molto tempo il ragazzo è bloccato davanti al recinto del lupo, guarda di continuo l’animale nell’unico occhio aperto, giallo e rotondo, l’altro è chiuso. Il lupo era stato catturato dieci anni prima, la lupa che gli faceva compagnia è morta da una settimana e il ragazzo immobile continua a fissarlo per giorni e giorni mentre trotta, pensa (non agli uomini) e sta per i fatti suoi. Finché il lupo non decide di ricambiare lo sguardo. E il ragazzo comincia a vedere nella pupilla nera dell’animale la storia di Lupo Azzurro. Viveva in Alaska nel Grande Nord canadese, la mamma si chiamava Fiamma Nera e aveva procreato sette lupacchiotti; cinque con il pelo rosso, lui con il manto azzurro, saggio e poco giocoso, l’ultima, la settima, con il pelo dorato, Paillette. Il padre Grande Lupo era morto. Il Cugino Grigio faceva la sentinella e li aiutava a fuggire dai cacciatori, riparandosi nelle tane delle volpi. Prima gli uomini trovarono la vecchia nonna, uccidendola, poi si misero a braccare il resto della famiglia attirati da una preziosa pelliccia d’oro. Paillette si annoiava, rideva tanto, era distratta. Una sera la presero e lui intervenne; lei scappò e lui restò prigioniero e con un occhio solo. Girò di zoo in zoo, finché arrivò nella sua gabbia anche Pernice, allegra e ciarliera, gli raccontò che aveva conosciuto una lupa grandissima, Paillette, il cui pelo si era spento dopo la partenza del fratello. Ora Pernice è morta e Lupo Azzurro accetta di diventare amico del ragazzo, che ha chiuso anche lui un occhio. In quello aperto scopre che si chiama Africa N’Bia e vede tutta la sua storia meravigliosa e pericolosa in Africa.

Occorre ringraziare i propri figli per averci fatto leggere a voce alta romanzi belli come questo, più volte per ciascuno, in anni passati (e Michele per avermi aiutato anche ora). Daniel Pennac (francese nato Pennacchioni a Casablanca nel 1944) è stato a lungo insegnante in scuole complicate, ha svolto il delicato amorevole mestiere di padre, risulta un famosissimo scrittore fin dai tempi del mitico capro espiatorio Benjamin Malaussène (1985-95 in Francia, 1991-95 in Italia). In parallelo narrava anche deliziose avventure per ragazzi, quelle della serie di Kamo, altre come «Abbaiare stanca» e questa del 1984 (1993 in Italia), ben illustrata (in bianco e nero) da Paolo Cardoni. L’intensa silenziosa comunicativa amicizia fra i due protagonisti è ricca di delicatezza e di cultura non antropomorfa. I pellegrinaggi per l’Africa, gialla la desertica, grigia l’arida, verde la tropicale; le qualità affabulatorie del ragazzo, fin da bimbo; i tanti animali incontrati, prede e predatori in ogni ecosistema; la loro immagine dell’Altro Mondo (il nostro, “civile”) ci dicono che spesso la realtà umana non merita nemmeno di essere guardata, seppur solitaria l’osservazione sincera può rivolgersi altrove, l’accettazione coerente e sincera dell’altro è premessa indispensabile di ogni pacifica comprensione sociale e sano legame affettivo. Si tratta di quattro capitoli di diversa lunghezza, con pochi o tanti brevi paragrafi al proprio interno: il loro incontro, l’occhio del lupo, l’occhio dell’uomo, l’Altro Mondo. Risulta infine significativo e struggente per tutte le età.

 

Chiara Giacobelli

«Forse non tutti sanno che nelle Marche… Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti di una regione dai mille volti»

Newton Compton Editori

318 pagine, 12 euro

Le Marche, una regione al plurale, 9.365,86 km² (69% collinari, 31% montuosi), 236 comuni, quasi 1.550.000 abitanti. Sia chi vi risiede, sia chi vi è capitato forse ha sfogliato qualche ordinata guida o mappa, ha memorie orali di tante storie e visive di tante geografie. In questo volume può trovare anche altro, ripercorrere biografie e descrizioni note sotto un diverso punto di vista, aggiungere riferimenti a personaggi, eventi, luoghi meno conosciuti. E chi poco ne sa potrà finalmente scoprire un territorio molto interessante fra i tanti dell’Europa mediterranea. Nel primo millennio a. C. vi si trovavano i piceni, probabilmente in seguito a una precedente migrazione rituale compiuta dalle popolazioni sabine (da cui il picchio verde). La “frattura” fra genti a nord e sud dell’Esino risale all’invasione dei galli senoni nel quarto secolo a. C. che condizionò i rapporti sia con la civiltà romana che con il cristianesimo romano (più intensi per i piceni restati nelle attuali province di Macerata, Fermo, Ascoli) e alcune dinamiche commerciali connesse agli sbocchi sul mare Adriatico verso il golfo di Venezia o l’Egeo, con la punta del Conero anconetano rivolta più verso est che verso l’interno. Oggi la regione si presenta più unita: chi percorre gli ecosistemi e i suoli delle Marche ha la sensazione fisica (motoria) di pettinarsi. La rete viaria (e in parte ferroviaria) è un pettine, il tronco segue la costa per circa 180 chilometri, i denti sono le vallate parallele, simili a prescindere dalla lunghezza dei torrenti (il Musone 65 chilometri, il Tronto 115, gli altri più o meno). Non ci sono pianure, l’andare è sempre ondulato, si pettina il paesaggio.

La scrittrice e giornalista Chiara Giacobelli (Ancona, 1983) ha pubblicato nel 2011 il fortunato volume «101 cose da fare nelle Marche almeno una volta nella vita», poi divenuto una pagina Facebook molto seguita. In questo nuovo testo dedica 50 argomentati capitoli a famiglie del passato (Della Robbia, Varano, Brancaleoni), personaggi antichi e moderni (Federico da Montefeltro, Renata Tebaldi, padre Matteo Ricci, Giovanni da Ripa, Silvio Spaccesi, Giuseppe Tucci, Carlo Urbani, Valerio Moriconi), musei insoliti (colori naturali, bronzi dorati, cinema a pennello), tradizioni e presidi enogastronomici (certo il vino doc e docg, ma anche stoccafisso, gelato, casciotta, mela rosa, amaro sibilla, favetta) come spunti per raccontare angoli inediti delle città medio-grandi e delizie artistico-culturali di piccolissimi Comuni fuori dai grandi itinerari. Riserva ampia attenzione ai parchi naturali, quello nazionale dei Sibillini, quello regionale del Conero, agli altri e alle piccole significative riserve come la Sentina. Tutte le province sono rappresentate senza equilibrismi burocratici, il tentativo (riuscito) è fotografare con gli stessi metodo e stile una realtà fondamentalmente unitaria (anche se si esagera un po’ con le specificità caratteriali di “tutti” i marchigiani). Sono testi giornalistici, vengono citati esperti o autori o collezionisti vivi e vegeti, che potrete incontrare anche voi per le vie dei borghi, per castelli e chiese. Non vuole essere un testo esaustivo, non ci sono apparati e indici, piuttosto un bel volume cartonato e illustrato da consultare nelle debite occasioni.

 

Qiu Xiaolong

«Nuove storie dal Vicolo della Polvere Rossa»

traduzione di Fabio Zucchella

Marsilio

Un vicolo di Shanghai. 1953-2008. Nel gennaio 1953 ha preso avvio il primo piano quinquennale e il Comitato centrale del partito si prende qualche mese di tempo per redigere la Costituzione, la Cina sta facendo passi da gigante nell’edificazione del socialismo e della rivoluzione. A dicembre Piccolo Long si trasferisce nella viuzza e osserva i notiziari ufficiali sulla lavagna, in attesa della conversazione serale. Si tratta di una delle vie più antiche (realizzata durante la dinastia Qing), vicino al parco Bund, al centro delle vicissitudini della città, indifferente al logorio del tempo. Il testo trascritto per l’ultimo numero dell’anno riassume tutti gli eventi politici ed economici avvenuti fino a quel momento. È come se fosse il vicolo stesso a spiegarlo a Piccolo Long, è lo stesso ecosistema sociale a porsi le domande e ad assistere alle trasformazioni, insieme narrando delle vicende di alcuni e altri abitanti: cittadini del quartiere, i loro intrecci e ospiti, emigrati e immigrati, fughe e ritorni, avanzate e discese di classe, finché perde il residuo feng shui positivo e diventa un’isola squallida nel mare dei grattacieli nell’anno delle Olimpiadi di Pechino del 2008. I fidanzati Tian Hanru e Rondine Yan Nan sono entrambi cresciuti in una stessa shikumen, lei nel sottoscala in una stanzetta buia con tutta la famiglia, lui al secondo piano avendo a disposizione l’intera ala. Hanno legato fin da piccoli, ora lui è funzionario editoriale, lei fa l’infermiera ma è costretta a partire, nel 1953 diventano di pubblico dominio le dolorose vicissitudini. Per loro, e poi per tanti altri.

Il grande cinese di lingua inglese, docente scrittore e poeta Xiaolong Qiu (il nome è il primo e significa “piccolo drago”) nacque a Shanghai in una famiglia di commercianti proprio nel 1953 e, dopo che una sua raccolta di poesie fu messa al bando dal governo cinese nell’anno di Tienanmen (1989), decise di restare negli Usa, dove insegna letteratura cinese e comparata all’università. Dal 2000 al 2015 ha pubblicato 9 ottimi gialli con protagonista il colto ispettore Chen Cao (altri sono in via di pubblicazione o gestazione) che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Le venti sagge meste deliziose connesse storie dal Vicolo della Polvere Rossa edite nel 2014, originariamente uscite a puntate su «Le Monde», sono il seguito (in terza molto varia) di una raccolta di racconti analoghi del 2005 e raccontano stupendamente la Cina comunista, con frequenti intensi cenni autobiografici, strada e personaggi “terroir”. Lo spunto sono le conversazioni serali fra vicini, un popolo accatastato in minuscole stanze sovraffollate, capace di mostrare le ironiche causalità provocate dallo squilibrio tra yin e yang: una cosa conduce a un’altra e poi a un’altra ancora, e il risultato può essere irriconoscibile (come nel telefono senza fili). La biografia di Chen Xiaohiu (giovane nel 1971) ricorda quella dell’autore che imparò l’inglese da autodidatta sulle panchine del parco Bund. Come sempre, sono innumerevoli le citazioni di poesie, proverbi, canzoni (più o meno popolari), massime (di Mao e Confucio perlopiù). Buono il vino di riso di Shaoxin. Assolutamente da leggere e meditare.

 

Don Winslow

«London Underground»

traduzione di Alfredo Colitto

Einaudi

New York e Londra. Una fresca notte di maggio 1990. Neal Carey ha 23 anni e vuol fare il professore di Inglese. Scuola privata di lusso, insegnante personale per correggere l’accento di strada, Ivy League, università di Letteratura, master, vestiti di alta qualità. Convive con Diane nell’Upper West Side, vota democratico e il giorno dopo avrebbe un esame importante. Sennonché il lavoro lo chiama. Quello che lui chiama “papà”, Joe Graham, di mezza età, basso (e con paura di volare), faccia tonda e capelli radi, occhi celesti e sorriso malevolo, un braccio artificiale di gomma e una fissazione per le pulizie, lo chiama al burger joint e gli spiega che debbono andare in treno dal Capo degli Amici di famiglia, a Providence, Rhode Island, New England. È lui e sono loro che da 12 anni gli pagano tutto, non può sottrarsi. Era figlio di padre sconosciuto e madre tossica prostituta, da piccolo criminale borseggiava con talento estro rapidità, Joe aveva salvato il proprio portafoglio (prima volta che si faceva beccare in due anni di carriera) e gli aveva insegnato meglio il mestiere, poi lo aveva inserito nell’agenzia (con succursale a Manhattan) che era capace di risolvere ogni problema dei facoltosi clienti dell’antica ricchissima affidabile banca dei Kitteredge: pugni, favori, bustarelle, investigazioni private, pedinamenti, ricerche, furti. C’è un’emergenza: da tre mesi è scomparsa la stupenda irregolare figlia 17enne di un senatore che vuole candidarsi vice-presidente. Pare sia a Londra, Neal deve trovarla entro i primi di agosto, poi ci sarà il Congresso. Parte e scopre che non gli hanno raccontato bene proprio tutto.

Anche Don Winslow (New York, 1953), il miglior autore americano (forse non solo) noir (definizione riduttiva) dell’ultimo ventennio, ha avuto un esordio letterario, questo: memorabile! Nel 1991 inaugurò la serie dei cinque volumi con protagonista Neal Carey, in terza quasi fissa, finora inediti in italiano (il traduttore è esperto dell’autore e buon scrittore a sua volta). Dopo aver studiato storia all’università e aver letto accuratamente tanta narrativa poliziesca, fino ad allora Winslow aveva fatto di tutto ed era sempre in giro: fra l’altro investigatore privato in California (ora e ormai da un po’ abita a San Diego), regista teatrale a Oxford (Shakespeare soprattutto), guida di safari fotografici prima in Kenya poi in Cina. Di molto si trovano evidenti esplicite tracce nel corposo romanzo: Joe illustra a Neal con dovizia di particolari come seguire qualcuno senza farsene accorgere, il sistema a cubo per le perquisizioni, in che modo sparire davvero quando ti cercano professionisti e varie altre lezioni di antropologia. Neal ascolta Čajkovskij, è un gran lettore, conosce bene Macbeth oltre ai mitici Smollett e Dickens della tradizione picaresca e l’amico del Capo a Londra è una simpatica facoltosa guida di safari che gli lascia casa (abbinabile a un cottage nello Yorkshire) con librerie colme di volumi antichi e preziosi. Non sarà facile non innamorarsi pure della bionda bellissima Allie, drogata affascinante in grado proprio di usare corpo e sesso per farsi di tutto e sopravvivere ai maschi, padri odiosi e uomini cattivi. Fortunatamente la madre Liz è altrettanto piacente. Vini appropriati per la grigliata con riso e asparagi.

 

Bruno Arpaia

«Qualcosa, là fuori»

Guanda

Napoli-Scandinavia. 2078. Livio Delmastro nasce nella città partenopea dopo il 2000, la fragilità e gli scarsi vincoli dell’accordo globale sul clima del dicembre 2015 a Parigi lo inducono a divenire un ecologista sempre più impegnato e determinato: le stime IPCC erano troppo ottimistiche, bisognava che la politica si desse una mossa per fare molto di più e meglio per la mitigazione e l’adattamento. Niente da fare, preferiscono enunciare proclami generici e far finta di nulla. Frustrante. Si era iscritto a medicina appassionandosi ai meccanismi del cervello umano, vedeva con apprensione i primi effetti locali concreti dei cambiamenti climatici (eventi meteorologici estremi, ondate di profughi), conobbe Leila (figlia di rifugiati siriani e studentessa di fisica) avviando una bella storia d’amore, si specializzò in neuroscienze alla Sissa di Trieste (mentre lei aveva vinto un dottorato con periodi intensi al Cern di Ginevra), pubblicarono molto come promettenti stimati studiosi e ottennero entrambi una borsa di postdottorato a Stanford in California, arrivandovi felici nel settembre 2038. Quarant’anni dopo l’intero mondo è cambiato. Livio è vecchio e solo; erano tornati a Napoli da 22 anni, da 16 si era trovato senza moglie e figlio, ormai quello che i “catastrofisti” avevano previsto (quasi un secolo prima) si è verificato. Là dove c’erano alberi ora non cresce nulla, i fiumi sono aridi, regole residenze città sono state abbandonate (da chi ha potuto) verso nord, sempre più a nord. Gli Stati sono rimasti quasi solo in Scandinavia, militarizzati e inaccessibili. Decide di partire, investe tutto quanto ha per pagare una società scandinava che organizza la migrazione armata di molti mesi a piedi. Partono in decine di migliaia.

Il competente coraggioso romanziere e traduttore Bruno Arpaia (Ottaviano, 1957), ormai da tempo promotore culturale a Milano, fa qui molto bene il suo pesante mestiere di bravo scrittore. I fondati allarmi scientifici li leggiamo sugli organi di informazione, il meccanismo di assuefazione è noto, la preoccupazione materiale per le dinamiche personali del presente finiscono sempre per avere la meglio sull’astratta ansia dell’incerto futuro collettivo. E allora proviamo a immaginarli i prossimi decenni (solo la specie umana ne potrebbe essere capace), con un romanzo di sentimenti Arpaia si accolla l’onere di narrarli! Il libro angoscia nella cura dei particolari, comunque non fossilizzatevi sui particolari! Chi saggiamente vorrà leggerlo ora, seguirà una storia ed empaticamente capirà qualcosa in più su almeno due fenomeni globali: i viaggi in corso dei profughi e il riscaldamento in corso della temperatura. Lasciare il posto dove si è nati è sempre doloroso e complicato, a prescindere che se ne sia praticamente capaci e liberi. Si determina una doppia assenza (verso la propria origine e verso un proprio destino), donne e uomini prima che arrivino in Scandinavia nel 2079 (o in Europa nel 2016) subiscono conflitti, traumi, angherie, scompensi. E c’è un punto di non ritorno (almeno nove confini) nella possibilità per il pianeta resiliente di adattarsi ai cambiamenti imposti da un’invadente pervasiva attività della specie predatrice Homo sapiens. Già prima, più ancora nel 2078 vi sono straordinarie nuove tecnologie e non un bel mondo dove usarle. Provare per credere. La buona letteratura non è solo un rifugio temporaneo, dà da pensare. Con lungimiranza verso il passato e verso il futuro. Il romanzo è ben scritto e, con echi di ottime letture (la cultura si mangia!), sviluppa il nuovo genere emerso con forza e successo nell’ultimo decennio: climate fiction.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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