Area andina: il 2020 all’insegna dei conflitti sociali

Colombia, Ecuador, Bolivia, Perù e Cile: il primo Mininotiziario America latina dal basso del 2020, curato da Aldo Zanchetta, analizza gli avvenimenti in corso contemporaneamente nell’area andina del Sud America.

 

Una conflittualità a largo raggio

L’intera area andina dell’America del Sud – Colombia, Ecuador, Bolivia, Perù e Cile- è sede di conflitti assai accesi, con un elemento unificante: le lotte dal basso, nelle strade, sono contro governi di sinistra (Bolivia), di destra (Cile Colombia) o di equivoca collocazione (Ecuador) .  Ma anche nel resto del mondo non si scherza in quanto a conflittualità: Haiti e Portorico nei Caraibi, Irak, Iran, Hong Kong, Libano, Algeria, paesi del Sahel, Nigeria e infine Francia, quest’ultima alle porte di casa nostra. E in qualche altro posto qui forse dimenticato. Non è infatti che in Libia, Egitto, Siria, Palestina le cose siano più tranquille.

Su Sin Permiso il messicano Alejandro Nadal scrive: <<Molti penseranno che questi movimenti non hanno un filo conduttore e che tutti obbediscono a cause distinte. Almeno i detonatori in effetti parrebbero abbastanza differenti. Però un’analisi più attenta consente di identificare alcun i tratti comuni nei quali si mescolano le politiche di austerità, una profonda disuguaglianza, il dominio del capitale finanziario e la concentrazione del potere del mercato in poche grandi corporation. Sono i segni che caratterizzano questa tappa del capitalismo chiamata neoliberismo>>.

La situazione nell’area andina

Ma torniamo all’area andina dell’America del sud, dove il solo Venezuela al momento sembra differenziarsi da questa situazione di intensa conflittualità, alla quale potremmo invece aggiungere le proteste clamorose di fine anno a Mendoza, in Argentina, contro l’inquinamento da arsenico delle acque reflue delle attività minerarie e del fracking e una nuova legge più permissiva (Vedi Svampa Argentina: “Las calles mendocinas mostraron la potencia de la sociedad en movimiento”, www.laizquierdadiario.com › Maristella-Svampa-Las..) 

In un interessante articolo l’antropologo brasiliano Salvador Schavelzon fa il punto: si tratta di insurrezioni nelle strade contro le politiche di governi, che pur sotto diverse spoglie, hanno continuato a essere caratterizzate da concentrazione del reddito e crescente disuguaglianza, con eccezione della Bolivia dove le contestazioni sono di diversa natura, che vedremo. In questi paesi nuove e vecchie destre hanno assunto il potere dopo il periodo ‘progressista’, però senza riuscire a stabilizzare una nuova egemonia <<né di unificare politicamente le diverse destre oscurantiste, liberali, conservatrici e opportuniste che congregano>>.

Schavelzon assimila la situazione a quella esistente a cavallo fra vecchio e nuovo secolo, che precedette la decade (o i tre lustri) definita progressista. Ma con una differenza sostanziale: <<questa volta non sembrano aprirsi vie di uscita partitiche o populiste, con leader che centralizzino l’iniziativa politica assunta dai movimenti e dalla lotta sociale [… e dove] l’apparizione di una destra autoritaria e più virulenta, con un discorso di odio, assente nel periodo progressista, antagonizza e rigenera il progressismo […] Però in questa situazione il risultato è il rafforzamento  della constatazione generale di mancanza di alternative dentro il sistema>>.

Una protesta che scavalca i partiti

All’inizio della decade progressista, in cui i movimenti portarono al potere governi di sinistra o centro-sinistra, essi vennero cooptati o indeboliti da questi governi e dai partiti che li sostenevano. La lotta ora invece scavalca i partiti e le istituzioni intermedie ed è caratterizzata da uno scontro diretto nelle strade fra chi governa e chi sta in basso, dove i partiti tentano, ma con poco successo, di porsi come loro rappresentanti, e dove la repressione poliziesca assume forme inedite di violenza.  Schavelzon sintetizza così la situazione: <<Al di là di una politica partitica e istituzionale che … non trova risposta, studenti assumono l’iniziativa politica, gruppi di donne si politicizzano e occupano le strade, popoli indigeni lottano per l’autogoverno mettendo in discussione un modello di sviluppo sempre più contestato, assemblee di quartiere creano legami di vicinato e si organizzano per manifestare la critica alla società del consumo. Nelle strade il mondo della mercanzia, dei debiti, della mancanza di orizzonti, trova un luogo  di esistenza politica che è già risposta e alternativa. Il neoliberismo si dimostra potente nel governare una forza lavoro disorganizzata e nel mercantilizzare spazi crescenti della vita, ma nelle strade una nuova forza politica costruisce strumenti per affrontare le sfide dei governi, delle nuove destre e della continuità di un sistema elitario per pochi>>.

Schavelzon chiude con una affermazione che piacerebbe molto a Zibechi: <<L’opposizione al neoliberismo nelle strade pone l’autonomia come alternativa alla soluzione populista o progressista e, riprendendo antiche mobilitazioni, travalica l’appello delle istituzioni  affinché tutto il mondo torni a casa e si affidi nuovamente a leader e partiti>>.

Non siamo certi che questo duri, ma ci auguriamo fortemente che così possa essere.

Caratteristica comune in queste manifestazioni è, come detto, la crescente violenza della polizia con conseguente aumento in ogni manifestazione dei feriti, anche gravi, e l’impiego di gas lacrimogeni e getti d’acqua sempre più aggressivi e di dubbia composizione. In Cile ad es. si parla di aggiunta di soda caustica all’acqua degli idranti.

Tempi orribili ma anche interessanti, portatori di speranza, scrive Zibechi nell’introduzione del suo libro appena pubblicato: <<Nuevas derechas, nuevas resistencias>>. Speranza che le resistenze al sistema, che in vari luoghi hanno acquistato la fisionomia di alternative concrete, si rafforzino e si moltiplichino.

Necessità di insiste nelle analisi

Nei prossimi mininotiziari ci soffermeremo di nuovo, ampliando l’analisi, sulle trasformazioni avvenute nelle sinistre latinoamericane, seguendo ad es. alcuni indicatori suggeriti tempo addietro da Eduardo Gudynas, un intellettuale ecologista uruguaiano, le cui analisi cercano di andare al di là di una semplice lettura degli avvenimenti, sottolineando la trasformazione subita della “sinistra” latinoamericana negli ultimi 20 anni,  che in parte mi sembrerebbe valevole anche per quella europea. Prezioso in questo senso anche l’ultimo libro di Edgar Lander, “Crisis civilizatoria. Experiencias de los gobiernos progresistas y debates en la izquierda latinoamericana”, scaricabile in rete, che propone un’analisi critica dell’operato delle sinistre andate al potere a inizio secolo in Venezuela, Ecuador e Bolivia. Agli inizi del secolo (e millennio) la sinistra è andata al potere in molti stati sudamericani, segno che si poteva vincere elettoralmente i potentati locali, consoli dell’impero. Oggi, dopo il colpo di Stato in Bolivia, poco resta di questa ondata progressista, anche se in Argentina si sta già verificando un rovesciamento di situazione e se in Messico Lopez Obrador da oltre un anno ha interrotto il lungo predominio del PRI e del PAN. Ma, nel mio pensiero, che so non essere condiviso da molti, in questi due casi non si può parlare in senso proprio di “sinistre al governo”, ma di governi riformisti ancora incastrati in una economia liberista. Una analisi di Darío Aranda sulla composizione del nuovo governo argentino, alle prese con l’enorme debito ereditato, lascia pochi dubbi circa la non continuità delle politiche estrattiviste (Nuevo Gobierno, más extractivismohttps://www.rebelion.org › noticia).

Accennato a questi prossimi temi vediamo cosa accade nei singoli paesi andini in ebollizione, dove un elemento comune è costituito dagli attori principali della protesta, pur se con dosaggi diversi a seconda dei paesi: le donne, i giovani e i popoli originari.

ECUADOR

Qui la situazione, dopo le due tesissime settimane di ottobre, che hanno visto i popoli indigeni in prima linea ma con forte sostegno, nuovo per la misura con cui si è verificato, della popolazione urbana, vede al centro l’iniziativa della CONAIE di dare vita a un <<Parlamento delle Comunità, delle Organizzazioni e dei Collettivi Sociali>>, che aggruppa circa 180 diverse realtà, e che ha portato all’elaborazione di un documento dal titolo <<Proposta Alternativa al Modello Economico e Sociale>> che a fine ottobre è stato presentato alle due istanze di mediazione nel dialogo col governo, Nazioni Unite e Conferenza Episcopale, nonché, ovviamente, allo stesso governo. Quest’ultimo cerca di rispondere con proposte estemporanee ma il contenuto del documento va al di là di queste insistendo sul potenziamento dell’economia sociale e solidaria come pure una serie di misure fiscali da adottare nei riguardi delle grandi imprese. Un dialogo difficile, data la distanza delle posizioni, che tuttavia continua. Questo ha portato ad una tregua nelle manifestazioni ma non a una estinzione del conflitto, pronto a riaccendersi se il dialogo non porterà a frutti concreti.

CILE

In Cile la protesta continua intensa e almeno per ora non accenna a fermarsi da quando si è accesa in ottobre. e a nulla è valso l’<Accordo per la pace sociale una nuova Costituzione> firmato fra il governo Piñera e i partiti tutti, ad eccezione del Partito Comunista Cileno e di un altro partito minore della sinistra, ma contestato nelle piazze. La risposta della polizia alle manifestazioni è stata di una violenza inaudita: ben 300 persone hanno perso un occhio per l’uso dei proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo dai carabineros.

Qui il rischio più grosso di insuccesso è rappresentato dall’istituzionalizzazione del percorso che dovrebbe portare ad una nuova costituzione e che potrebbe concludersi in un bluff, alla Gattopardo: che tutto cambi affinché nulla cambi! Non si deve dimenticare infatti che l’attuale opposizione di ‘sinistra’ è stata a lungo al governo (i governi della Concertazione si sono succeduti dal 1990 al 2010) senza mai prendere l’iniziativa di cambiare l’attuale costituzione del 1980 voluta da Pinochet. Essa infatti ha portato vantaggi alle elites di destra ma anche quelle di sinistra, vantaggi anche di natura economica ( Vedi: Paul Walder, El mal constituyente, https://www.nodal.am › 2019/12 › chile-el-mal-const..). Le note che seguono fanno capire la tortuosità e l’opacità di questo processo.

Il sopra ricordato ‘accordo’ è ambiguo fino dal nome, che indica come primo punto ‘la pace sociale’. Non è per questa che è scesa in piazza la gente, rompendola, ma per ottenere, ancor prima della Costituzione, reddito, pensioni e sistema sanitario dignitosi. Ma fra i protestatari più decisi c’è il popolo Mapuche, che ha un obbiettivo più sostanzialmente politico: l’autonomia.

Ma dei primi per ora il governo ha concesso solo briciole. La gente comune ha fiutato che l’accordo fra Governo e partiti rischia di passare sopra la sua testa, sia perché non è ancora chiaro come verranno scelti i membri della ‘convenzione’ che dovrà formulare la nuova Costituzione, sia perché la destra ha imposto il nome di ‘Convenzione’ in luogo di quello di ‘Assemblea Costituente’, con motivi poco comprensibili, che quindi suscitano forti interrogativi. Inoltre c’è il timore che gli obiettivi della nuova classe media formatasi in questi anni, che pure protesta, non coincidano con quelli dei giovani, delle donne e del popolo mapuche e che l’attuale fronte comune della protesta alla fine non regga.

Il dialogo fra governo, parlamento e rappresentanti sociali sul contenuto e le modalità del percorso verso una nuova Costituzione è lento e difficile comunque avanza. Le tappe preliminari concordate sono due: prima un referendum popolare per confermare che si vuole una nuova Costituzione, poi, se prevarrà il si, l’elezione dei membri della Convenzione.

Un esempio dei bizantinismi da superare è quello della parità di genere per le elezioni dei suoi componenti. In cosa consiste questa ‘parità di genere’? Le liste presentate da ciascun partito politico <<non potranno superare il 50% di candidature dello stesso sesso (e questo è diventato classico) e dovranno avere in testa alla lista il nome di una donna (gentile dare la precedenza) mentre il resto dei nomi dovrà prevedere nomi di uomini e di donne alternati fra di loro (sofisticazione non ancora giunta da noi, mi pare). Se il numero di uomini e di donne eletti/e in un dipartimento sarà uguale, nessun problema. Ma se saranno eletti più uomini che donne, o viceversa, il sesso maggioritario non potrà vedere eletto più del 50% + 1 e dovrà fare posto a nomi dell’altro sesso con meno voti per rispettare questo principio.

Ma non è ancora tutto. Sarà una Convenzione Costituente tout-court, cioè con tutti membri eletti, o sarà una Convenzione Costituente Mista, cioè con metà membri eletti dal popolo e metà eletti in parlamento dagli attuali parlamentari? Se dovrà essere Costituente o Costituente Mista è il secondo quesito da votare nel referendum. Se sarà una Convenzione Mista sarà composta da 172 membri, 86 eletti dal plenum del parlamento e 86 dai cittadini, nell’altro caso sarà composta da 155. Se la Convenzione sarà Costituente il numero dei rappresentanti dei popoli indigeni sarà di 18 membri, mentre se sarà una Convenzione Mista Costituente sarà di 21. Troppo difficile per un normale cervello. Ma il peggio deve venire: <<Per quanto riguarda la rappresentanza di indipendenti, si segnala che due o più candidati potranno concordare un patto elettorale nel loro distretto sotto un simbolo comune e inoltre, ogni candidato richiederà un patrocinio (numero di firme per potersi presentare?) equivalente allo 0,4% di quanti hanno votato nella precedente elezione parlamentare>>. Per finire: l’attuale parlamento per decidere le varie modalità si basa su un quorum di 3/5 dei voti, che tornerà ad essere di 2/3 nella futura Convenzione.

Infine: siccome l’attuale Costituzione pinochetista non prevedeva i referendum, cioè in pratica li vietava, innanzi tutto è stato necessario emendare l’attuale Costituzione.

Se nel referendum, che si terrà in aprile, vincerà l’opzione della nuova Costituzione il Presidente della Repubblica dovrà convocare le elezioni per le/i componenti della Convenzione (che a questo punto sapremo se Mista o meno). In questa elezione dovranno pure eleggersi i sindaci (alcaldes), i consiglieri e i governatori regionali. Una volta eletta, la Convenzione dovrà approvare le norme e il regolamento dei lavori, con un quorum misteriosamente tornato ai 2/3. Difficile non pensare che si tratti di ben dosate alchimie politiche.

Tutto questo irrita i più radicali che stanno iniziando a parlare di “plebiscito contituyente” ma <l’abisso fra la classe politica, le elites e il popolo  non si colmerà nè con un plebiscito né tantomeno con una nuova costituzione che è chiaramente spuria e insufficiente. La ferita apertasi il 18 di ottobre continuerà latente e dolorosa> (Walder).

COLOMBIA

In Colombia, a partire dallo sciopero nazionale del 21 novembre –la più massiccia protesta sociale dal 1977 ad oggi- si ripetono quotidianamente massicce manifestazioni, specie nelle tre principali città del paese: Bogotà, Cali e Medellin. La Colombia è sempre stata teatro di continui scioperi, settoriali e in genere rimasti privi di concreti effetti, se non di promesse regolarmente non mantenute. Abbiamo affrontato già il problema nel Mini n.5 a proposito del grande sciopero agrario dell’aprile scorso. Ma questa volta il paro ha visto convergere le proteste più diverse, segno di un acuto malessere generalizzato, al quale contribuiscono dette mancate attuazioni, l’accrescersi continuo del numero di uccisioni a partire dall’inizio del governo Duque, 18 mesi or sono, di leaders sociali (134), leaders indigeni (234), ex combattenti delle FARC amnistiati dopo il non rispettato accordo di pace (circa 150 oltre a una trentina di loro familiari). I dati sono di inizio mese di dicembre ma purtroppo sono già superati da altri luttuosi gravi eventi, con ben sei morti alla vigilia di natale.

Gli obiettivi ufficiali degli scioperi assommano a 13 ma, come detto, per la prima volta si sono unite le realtà sociali più diverse tanto da portarli a oltre 110. Un pacchetto, anzi paccone, non facile da gestire da parte della commissione che gestisce lo sciopero (Comando Nacional de Paro, CNP), che già ha difficoltà di gestire un evento così eterogeneo.

Giova ricordare come la Colombia sia oggi uno dei paesi dell’OCSE e da un anno anche ‘paese associato’ alla Nato. Non pare che questo abbia ricadute sul rispetto dei diritti umani ,,, Al centro del malessere la lentissima applicazione degli accordi di pace e le violente azioni di repressione della ESMAD, lo Squadrone Mobile Antisommosse, dal grilletto facile.

Fra i motivi al centro della protesta: la nuova proposta della regolamentazione del lavoro che aumenta la precarizzazione e che limita al 75% di due salari minimi la retribuzione salariale delle persone fra i 18 e i 28 anni. A questa si accompagna la proposta di riforma delle pensioni, da privatizzare secondo la ormai classica ricetta di diminuzione del montante, dell’aumento del numero degli anni lavorati e del sistema ad ore lavorate del calcolo del loro valore. Infine la proposta di revisione del sistema tributario favorevole agli industriali e sfavorevole per i cittadini. A condire il tutto una corruzione generalizzata nell’amministrazione statale e il massacro di 8 bambini in una scriteriata operazione antiguerriglia dell’esercito che ha costretto alle dimissioni  del ministro della difesa Botero. Oggi Duque vede il suo indice di gradimento ridotto al 30%. Per una analisi più completa della situazione si suggerisce di vedere il dossier pubblicato su Viento Sur https://vientosur.info-spip-article15362.

Anche qui, come in Cile, le manifestazioni avvengono fuori dal controllo dei partiti politici, segno di un malcontento irrefrenabile anche verso di questi tutti.

<<Questo origina la vera separazione di fronte al futuro. Come consolidare l’autonomia dei movimenti sociali di fronte ai partiti e alla classe politica “alternativa”. La domanda è concreta perché, nel caso di una vittoria elettorale del blocco alternativo nelle elezioni presidenziali del 2022, è necessario non ripetere l’errore dei progressismi latinoamericani andati al governo durante la cosiddetta “decade vittoriosa”: detti governi persero forza e legittimità con la cooptazione dei leader dei movimenti sociali e istituzionalizzare le loro lotte trasferendole allo Stato rompendo il tessuto sociale costruito nel corso di varie decadi>> (https://www.rebelion.org › noticia).

BOLIVIA

Per la Bolivia è necessario un discorso a parte, che molti a sinistra non sono disposti ad accettare. Da giorni leggo decine di articoli, non solo di questi giorni ma anche molti apparsi nei passaggi critici dei 13 anni di governo del MAS, nonché testi più impegnativi. È innegabile che oggi ci troviamo di fronte a un governo illegittimo ma tacere sullo sviamento del governo Morales rispetto alle sue promesse iniziali significa voler rinunciare ad una critica che eviti il ripetersi di grossolani errori. In un comunicato reso pubblico a fine novembre da ricercatori e docenti del postgrado in Scienze dello Sviluppo dell’Università Maggiore di San Andrés (CIDES-UMSA) e <<diretto alla comunità accademica internazionale per spiegare la situazione sociale e politica che vive la Bolivia ed evitare così esitazioni e interpretazioni semplificatrici>>, questi allertano a non fare analisi frettolose.  Ne riportiamo solo un brano, rinviando al testo completo che presto tradurremo per intero:

Manifestiamo la nostra indignazione di fronte alle interpretazioni semplificatrici espresse da colleghi  e istituzioni accademiche dall’estero sugli avvenimenti politici che ancora sono in corso in Bolivia (il comunicato è del 19  novembre). A questo scopo CIDES-UMSA spiega l’attuale congiuntura e il contesto in cui si sono scatenati gli avvenimenti, sostenendo che la crisi statale in Bolivia dopo la rinunzia di Evo Morales si è aggravata per “l’impiego dei beni dello Stato per la repressione” non solo mentre esercitava la funzione di Presidente, ma anche attualmente. (https://tvu.umsa.bo › asset_publisher › content › cide..)

Bastano queste poche righe per porsi molti problemi, che in realtà mi ero già posto, data la particolare attenzione con cui da tempo seguo la situazione in Bolivia, paese che ho visitato per 5 volte e dove ho intrattenuto corrispondenze e anche contatti durante loro visite in Italia con leader sociali o intellettuali del paese.

A fine novembre su richiesta della rivista L’Altrapagina ho scritto l’articolo che riporto in calce, dove ho dovuto comprimere le argomentazioni per rispettare i bytes concessi, il cui contenuto confermo sostanzialmente, anche se ulteriori elementi raccolti mi sollecitano a una riscrittura più ampia e più documentata. Il lavoro di studio in cui mi sono impegnato in questi giorni mi consentirà di pubblicare, in tempi non ristretti (sto rileggendo anche alcuni libri scritti in questi anni da militanti sociali e ricercatori boliviani e non) un dossier documentario, perché ritengo che comprendere meglio quanto accaduto in Bolivia fra gli anni 2000 (guerra dell’acqua di Cochabamba) e 2019 (caduta del “governo del cambiamento”) sia importante ai fini di un affinamento dell’approccio a realtà aventi particolare significato politico anche per noi esterni agli avvenimenti in questo (e altri) paesi.

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Da L’Altrapagina, numero di dicembre 2019.

Quando questo articolo verrà letto la situazione in Bolivia sarà diversa da quella del momento in cui scrivo. Ora è di <<vera schizofrenia politica. Mentre il governo attuale compie atti per colpire i dirigenti del MAS, i parlamentari di questo partito sia al Senato come nell’Assemblea Legislativa, nominavano nuovi presidenti per la rinuncia dei loro titolari>>. Così il giornalista Montoya[1] su Vientosur del 23.11. È il momento di cercare di porsi le domande giuste e setacciare il diluvio di articoli con il fiuto di Sherlock Holmes alla ricerca dell’informazione corretta. <<Affannarsi ora in un dibattito sul fatto se c’è stato o no un colpo di Stato non ha molto senso. Coloro che lo negano vogliono nascondere l’illegittimità del risultato finale. Coloro che lo affermano vogliono occultare la responsabilità principale del Governo del MAS … Fra l’uno e l’altro, fra golpe no e golpe sì, quello che c’è stato e c’è da queste parti, in Europa, è una disinformazione spaventosa, in buona parte deliberata, su quanto è accaduto in Bolivia>> (https://www.bartolomé clavero.net-bolivia-de-plurinacional…),. A scrivere queste inquietanti parole è Bartolomé Clavero, ex vicepresidente del Foro Permanente delle Nazioni Unite per i Problemi Indigeni.

Si, conoscendo abbastanza la Bolivia per esperienza diretta e frequenza di contatti con persone là residenti, un paio delle quali ora in pericolo, anch’io sono sorpreso a leggere tante descrizioni arbitrarie e parziali. Fui una prima volta in Bolivia negli anni ’70, per interessi archeologici. Poi, già più politicizzato, nel 1993, e di nuovo nel 1997 quando a Vallegrande si ricordò la morte del Che, dove vidi per la prima volta Evo Morales, astro nascente del sindacalismo contadino. Lo ascoltai dialogare con Hugo Chávez al Social Forum di Caracas nel gennaio 2006, alla vigilia di assumere il governo. Infine 9 mesi dopo, a La Paz, all’incontro De la Resistencia al Poder, il giorno dopo un mancato golpe. All’incontro era previsto un suo intervento, che venne rinviato di ora in ora finché a notte ci fu detto che lo avremmo visto la mattina seguente, in una manifestazione pubblica. A Caracas, in una tavola rotonda, ascoltai anche, per la prima volta, Oscar Olivera, già famoso perché leader della guerra dell’acqua di Cochabamba, nel 2000. Gli fu chiesto: <<Se andando al potere, Evo non manterrà gli impegni, cosa farete?>>. Fu lapidaria: <<Lo cacceremo>>. A Cochabamba per la prima volta una potente multinazionale dell’acqua, che aveva imposto condizioni esose tassando anche la raccolta dell’acqua piovana, fu cacciata a furor di popolo, dopo un lungo stato d’assedio e alcuni morti. La Bolivia plebeja era giunta al limite della sopportazione e stava acquistando consapevolezza della propria forza. Tre anni dopo a El Alto scoppiò la guerra del gas, e i morti furono una settantina. Il governo di Sanchez de Losada, ‘el gringo’ -educato negli States parlava a fatica lo spagnolo- dimissionò, e subentrò il suo vice, Carlos Mesa, recente rivale di Morales. Alle elezioni del 2000 Evo, presentatosi, non era arrivato per un pelo al ballottaggio. Ma le due guerre avevano cambiato il paese e nel 2005 venne eletto col 54% dei voti.

Torno al giorno successivo al mancato golpe. Nella piazza le ‘truppe’ di Evo, fatte affluire nella notte dalle province: i minatori di Potosí, i cocaleros del Chapare, dove Evo era politicamente cresciuto, i rappresentanti delle organizzazioni indigene e campesine, in particolare delle cinque che più tardi avrebbero stretto il Patto di Unità di Azione che nei primi anni garantì il difficile percorso del governo. Dal palco Morales e Linera, sorridenti e infiorati, inneggiarono alla nuova Bolivia in costruzione, e gli applausi scrosciarono. Scrivo questo per dire che seguo gli avvenimenti boliviani da  anni lontani.

Il tema politico su cui si era giocata l’elezione era quello del cambio: da una Bolivia soggetta a un’oligarchia legata al capitalismo internazionale a una Bolivia plebeja dove indigeni, contadini, operai fossero finalmente attori della propria storia in uno Stato costituzionalmente Plurinazionale.

Il potere nel mondo indigeno (60% in Bolivia) ha una configurazione particolare, a noi estranea, che Raúl Zibechi, valente giornalista ricercatore, analizza nel libro Disperdere il potere. Esso viene assegnato assemblearmente a chi è ritenuto capace di guidare la realizzazione di obiettivi concordati. Poi tocca a un altro (oggi talora anche le donne). Così il potere circola, per evitare la nascita dei caudillos. È il “comandare obbedendo” indigeno. Per molti degli elettori di Evo questa temporalità era scontata, assieme alla fedeltà al mandato del cambio.

Morales ha governato bene nei primi anni, ‘obbedendo’ al mandato. Poi iniziò a zigzagare, occultandolo però con un’abile retorica, di molto effetto all’estero, meno in patria dove si poteva verificare la pratica. Cominciarono patteggiamenti ambigui con i santacrucegni e si chiuse un occhio sui latifondi dell’oriente. Il divide et impera divenne pratica politica tanto che nel 2011 due delle cinque organizzazioni del Patto ne uscirono conflittualmente. I rapporti con la CIDOB, la confederazione delle organizzazioni indie, si fecero sempre più tesi a causa del crescente estrattivismo che ne devastava i territori e il disboscamento che ampliava la coltivazione della soia, in % sempre più alta transgenica. Per un presidente ‘indio’, che tale non era, non è il massimo, no? Ho seguito con malessere crescente questo cambiamento, segnalandolo nel mio ‘Mininotiziario A.L. dal basso’, e ne dettaglierei i passaggi principali se ne avessi lo spazio. I lettori interessati possono leggerli in un articolo del più autorevole Pablo Solon, che fu molto vicino a Evo fino al 2015 quando, deluso, dimissionò da ambasciatore all’ONU (https://wp.me/P47kgx-UB). Questo, la maggior parte degli articolisti di questi giorni o non lo sa o finge di non saperlo. Uno mi ha scritto: <<Hai perfettamente ragione. Ma ora c’è il golpe!>>. Cioè: la ‘verità’ che ora ci necessita è un’altra. Disattendendo Clavero, vengo al (ai) golpe. C’è stato un golpe? Come no! Anzi due. Forse tre? Se sul Guinness dei primati esistesse la voce golpe, spetterebbe alla Bolivia: 160, dal giorno dell’indipendenza ad ieri. 161 (o  162?) (magari 163) ad oggi? Un passo indietro.

Evo divenne presidente nel 2005 e, come detto, iniziò bene. Degna di memoria la lettera indirizzata ai capi di Stato sudamericani con la proposta per una diversa politica comune. Nel 2008 fronteggiò un tentativo secessionista dell’oriente del paese, capeggiato da Santa  Cruz, città che aveva dato ‘generosa’ ospitalità a gerarchi del reich o ustascia croati in fuga. Ne venne a capo (le sue “truppe” allora erano unite e motivate) varando al contempo la nuova Costituzione (2009). Questa prevedeva al massimo due mandati presidenziali consecutivi, da conteggiare a partire dalla sua entrata in vigore. Venne rieletto nel 2009 e di nuovo nel 2014. La candidatura nel 2019 era off limits, ma il virus del potere (o altro?) aveva penetrato il duo presidenziale. Così nel 2016 si tentò di forzare la Costituzione con un referendum popolare, che fu perso. Il segnale non fu colto e si ricorse a una Corte Suprema già ‘amica’, che emise un sorprendente verdetto: la rielezione “è un diritto umano”, che va oltre la Costituzione. Gli oppositori, ora formata da vecchi nemici ed ex amici, ricorsero all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che però per bocca del  segretario Almagro, oggi sotto accusa per il golpe contro Evo, riconobbe questo diritto (strano, eh,?), riconfermandolo in una visita a La Paz nel maggio di quest’anno. Di diverso tipo, certo, non militare, ma questo non è un golpe, anzi un autogolpe, come dice Clavero, ancor prima di essere certi se c’è stato o no un broglio nello scrutinio? Non ho ormai spazio per una cronologia dettagliata degli avvenimenti, che sarebbe più importante di molte narrazioni. Sinteticamente: il 3 novembre, tredici giorni dopo le elezioni, i santacrucegni con a capo il caudillo Machado, detto “il macho”, iniziano il loro golpe, innegabile, al quale il giorno 9 si unisce la polizia e il 10, in modo ambiguo, l’Esercito. Questo, secondo alcuni, è il terzo golpe, quello militare. Una matrioska?  Morales e Linera accettano il suggerimento del capo dell’esercito, dimissionano e fuggono (sic) come pure la presidente del senato, causando il vuoto di potere in cui si inserisce illegalmente la seconda vicepresidente del senato, Janina Añez, riconosciuta dai militari. Due dei golpe si ricongiungono, forse erano già uno. Ora siamo alla situazione schizofrenica detta all’inizio, aperta a tutte le soluzioni. Forse saremo chiamati a riparlarne. Per finire, una cosa spiacevole per me, che ho una grande stima della storia personale del premio Nobel Pérez Esquivel. Ma devo dirla, perché la sua ultima dichiarazione pone un problema che va oltre il fatto specifico. La ‘sinistra’ nostrana da tempo ha perso il significato storico della parola e mostra coazione a ripetere analisi obsolete o parziali, con la CIA come drago e i vari Maduro, Lula, Evo, o chi altro, sono i San Giorgio di turno.. Una visione manichea, riduzionista, dove esistono solo il bianco e il nero. Il dubbio che accanto a narrazioni che piacciono esistano analisi che inquietano non la sfiora. Con l’articolo su Il Manifesto, assorbito acriticamente da molti, rappacificati con se stessi (e le proprie analisi) grazie all’autorevolezza dell’autore, essi non hanno più motivo di strizzare le meningi. Esquivel dice una verità, ma a metà: il golpe in Bolivia è un nuovo atto del tenebroso Progetto Condor. Possibile, mi dico, in ogni caso della stessa covata. Però non una parola su Morales, sulle sue colpe, che esce assolto. E invece è necessario continuare a porsi domande, sempre, e a cercare risposte,  senza posa. Una persona di cui Esquivel fu amico, il vescovo Ruiz, quello del Chiapas, soleva ricordare ai suoi interlocutori: <<Se le tue analisi sono vecchie di due anni, gettale. Non servono più>>.

Aldo Zanchetta 27 novembre 2019.

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