Argentina: giustizia per Lucía Pérez

Dalla sentenza allo sciopero femminista

di Susanna De Guio

Vivas y libres nos queremos, ci vogliamo vive e libere, questo è lo slogan, il coro, il messaggio che ci manda lo sciopero femminista dello scorso 5 dicembre in tutta l’Argentina. Nasce dal ripudio della sentenza per il feminicidio di Lucía Pérez, sedicienne violentata e assassinata a Mar del Plata l’8 di ottobre del 2016.

In quei giorni a Rosario era in corso il trentaduesimo Encuentro Nacional de Mujeres, la notizia della brutale violenza perpetrata sul corpo della giovanissima Lucía scatenò un’ondata di indignazione, rabbia e dolore che si convertí nel primo sciopero femminista argentino, il 19 ottobre di due anni fa, e che divenne immediatamente internazionale, che è stato ripreso in più di 150 paesi l’8 marzo scorso, e che continua ad essere uno strumento di lotta potente.

Matías Farías e Pablo Offidani, responsabili della morte di Lucia, sono condannati a 8 anni e una multa per spaccio di stupefacenti, e assolti per lo stupro e l’omicidio della ragazza, per insufficienza di prove. Il 26 novembre, alle porte del tribunale di Mar del Plata, un gran numero di ragazze, che ha accompagnato la famiglia Perez al processo, si scioglie in pianto; l’impunità, il senso di ingiustizia, la frustrazione cercano conforto negli abbracci, nei cori urlati.

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La sentenza è uno schiaffo al numero di femminicidi in Argentina, che dal 2014 si attesta a una vittima ogni 30 ore, non tiene conto delle numerose irregolarità nelle perizie sul corpo di Lucía, scarta come anacronistica la prospettiva di genere nell’analisi delle prove, e in cambio riproduce gli stereotipi della narrativa machista, colpevolizzando la vittima come l’unica responsabile della propria morte. “Un corpo usa e getta, una vita che si può buttare nella spazzatura, tanto alla fine risulta che non è successo niente” denuncia sua madre Marta, con la voce ferma e gli occhi lucidi, all’assemblea convocata da NiUnaMenos a Buenos Aires. È il 3 dicembre e si moltiplicano riunioni simultanee in tutto il paese per “organizzare la rabbia”, per produrre una risposta forte e compatta al verdetto dei tre giudici marplatensi: lo sciopero femminista.

Due giorni dopo, il 5 di dicembre, in piazza scendono migliaia e migliaia di persone in tutta l’Argentina, dalle città più grandi ai centri più piccoli e remoti. Le strade si riempiono ancora una volta di viola, il colore della campana contro la violenza, e dei fazzoletti verdi, per il diritto all’aborto e ormai simbolo di questo movimento che non accenna a scemare, si manifesta con canti, tamburi, performance, grida e pugni in aria: Lucía presente, ahora y siempre!

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Il corteo è listato a lutto, attraversato da brividi sulla pelle e volti commossi, lacrime e molto dolore condiviso, come in una catarsi. “Lucia l’hanno uccisa nell’ottobre di due anni fa e con questa sentenza sono tornati a ucciderla una seconda volta” dichiara la madre Marta, dal palco in plaza de Mayo, dove culmina la manifestazione nella capitale.

Se l’obiettivo dei tre giudici che hanno assolto Farías e Offidani era disciplinare un movimento femminista che minaccia di trasformare l’intero ordine sociale a partire dalle relazioni di genere, la risposta è stata lucida e unitaria, e addita la giustizia patriarcale.

(*) articolo tratto da l’America latina

Sul caso di Lucia Pérez, leggi anche Otra Mas.

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