Argentina: i torturatori del regime ripudiati dalle loro figlie

Mariana, Erika e Analía a fianco dei familiari dei desaparecidos. Le loro storie sulla pagina facebook Historias Desobedientes y con Faltas de Ortografía

di David Lifodi (*)

 

La prima ad uscire allo scoperto è stata Mariana, la figlia del torturatore Miguel Etchecolatz. Poi è stata la volta di Erika Lederer e Analía Kalinec, i cui padri, furono rispettivamente responsabili del centro di maternità clandestino presso l’ospedale militare Campo de Mayo e del centro di detenzione Olimpo di Buenos Aires. Le figlie dei repressori agli ordini del triumvirato Videla-Massera-Agosti, che in Argentina ha causato la sparizione di 30mila persone contando su una fitta rete di complicità ad ogni livello, hanno deciso di dire basta, hanno ripudiato i loro padri e i crimini da loro ordinati o commessi ed hanno reso pubblica questa scelta di fronte all’intera Argentina.

Marché contra mi padre genocida, dichiarò la figlia di Etchecolatz al sito web argentino Revista Anfibia raccontando la sua partecipazione alla manifestazione dello scorso 10 maggio a Buenos Aires, quando oltre 500mila persone scesero in strada per gridare la loro rabbia verso il verdetto denominato 2×1, che permette ai torturatori di allora di beneficiare di vergognosi sconti di pena grazie al soccorso dell’attuale presidente argentino Mauricio Macri, il quale sta distruggendo, a colpi di leggi e decreti, le battaglie di Madres e Abuelas de la Plaza de Mayo e delle associazioni che sostengono i familiari dei desaparecidos. Etchecolatz, come gran parte dei repressori di allora, ha chiesto di poter beneficiare del 2×1 nonostante sia già stato condannato in sei circostanze per delitti di lesa umanità e contro il quale avrebbe dovuto testimoniare Julio López, se non fosse divenuto il primo desaparecido dal ritorno dell’Argentina in democrazia. “Che muoia in carcere”, ha dichiarato la figlia Mariana che, per la prima volta, il 10 maggio, ha partecipato ad una manifestazione per i diritti umani. Fino ad ora, mai la donna aveva avuto il coraggio di andare in Plaza de Mayo il 24 marzo, giorno in cui, 41 anni fa, i militari presero il potere. La figlia di Etchecolatz, non solo ha trovato la forza di scendere in piazza, cantando insieme alla folla lo slogan como a los nazis les va a pasar, adonde vayan los iremos a buscar, ma è riuscita a percorrere la sua storia dolorosa, caratterizzata da un padre che dal lunedì al venerdì sequestrava e torturava gli oppositori nella città di La Plata e che nel fine settimana spesso alzava le mani sui figli per delle sciocchezze.

Nata il 12 agosto 1970, Mariana alla fine ha deciso di cambiare cognome. Troppo ingombrante quello del padre, come spesso sottolineavano i suoi interlocutori. Se pagava qualcosa con la carta di credito le veniva fatto notare che aveva un cognome ingombrante, ha dovuto sopportare il ritiro del saluto da parte di tante persone che conoscevano la sua identità, eppure la donna non ha mai smesso di pensare al caso di Julio López e al dramma dei desaparecidos. Insieme ai suoi fratelli, Mariana scelse inizialmente l’anonimato, ma ad un certo punto non ce l’ha fatta più ed ha reso pubblico il suo forte tormento interiore. Su examen está desaparecido, disse una volta un docente universitario ad uno dei fratelli di Mariana, per evidenziare tutto il male di cui si era reso protagonista il padre. La famiglia di Mariana si liberò di quella figura così ingombrante nel 1984, quando fu arrestato. Ancora oggi la donna non si capacita di come un padre si sia potuto trasformare in uno degli esecutori più efficienti della macchina del terrore argentina, spietato nei confronti della madre, ritenuta da Mariana vittima della violenza di genere, e dei figli, la cui infanzia trascorse senza alcuna amicizia per  i continui cambi di residenza di Etchecolatz per “motivi di sicurezza”.

L’uscita pubblica di Mariana ha aiutato le altre donne figlie di repressori a seguire il suo esempio. Da queste premesse è sorta la pagina facebook Historias Desobedientes y con Faltas de Ortografía. “Scegliamo di affrontare la verità, per quanto sia dolorosa, e di alzare la testa per poter guardare in faccia i nostri figli”, ha scritto Analía Kalinec, il cui padre, Emilio, era noto come il Doctor K, membro della polizia federale e torturatore  nei centri clandestini di detenzione Atlético, Banco e Olimpo. Lo stesso pensiero è espresso da Erika Lederer e da altri figli dei repressori, desiderosi di unirsi ai figli dei desaparecidos nel percorso di ricostruzione di una memoria collettiva in cui sia possibile rivendicare gli ideali di verità e giustizia in faccia ai torturatori. Il padre di Erika si suicidò nel 2012, poco dopo la conferma dell’identità del nipote Pablo Javier Gaona Miranda, finito nella mani di una famiglia vicina ai militari proprio grazie a Lederer, il quale si occupava in prima persona di assegnare i neonati dei desaparecidos presso l’ospedale militare di Campo de Mayo. Il padre di Erika, inoltre, fu coinvolto anche nei voli della morte, tanto che una volta, da piccola, la figlia ricorda addirittura di aver ascoltato il padre parlarne. Erika si avvicinò alla Abuelas de la Plaza de Mayo perché credeva di essere figlia di desaparecidos, ma quando emerse che il suo Dna non era compatibile con nessuno di quelli del Banco Nacional de Datos Genéticos fu costretta a fare i conti con la dura realtà.

“È difficile dover fare i conti con i ricordi di un padre che con una mano impugnava la picana e con l’altra ti accarezzava”, ha sottolineato Analía Kalinec, ma il fatto che Patricia Isasa, studentessa di 16 anni all’epoca del regime, sequestrata e incarcerata per tre anni, abbia voluto partecipare alla manifestazione di Ni Una Menos a fianco delle figlie dei repressori rappresenta un segnale per i torturatori e per coloro che, ancora oggi, alla Casa Rosada, insistono nel negare o minimizzare il dramma dei 30mila desaparecidos: le figlie dei militari e i familiari degli scomparsi insieme, uniti per la memoria, la verità e la giustizia.

(*) tratto da Peacelink – 17 luglio 2017

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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