Asghar Farhadi: “Una separazione”

Collage di Giovanna Tomai
Magnifico film. Una coppia si separa, ma una serie di eventi li mette a confronto. I protagonisti, tutti, sono messi alla prova della verità, il bisogno di mentire per difendersi o per difendere qualcun’altro. Tutti hanno ragione e tutti hanno torto. Solo la figlia dei separati, alla fine prende in mano il gioco e vince, con sofferenza, la partita. Il film è favoloso, i protagonisti ti avvincono, l’ansia cresce lentamente, i giochi delle parti si mescolano e modificano. Grande esempio di cinema. Meraviglioso anche lo sguardo su un Iran moderno, contemporaneo a noi, quando invece ne viviamo una visione distorta. Assolutamente da non perdere.

     Questa prima recensione scovata in rete è quella di Paolo Mereghetti (dal “Corriere della sera”).
Assuefatti a troppi punti esclamativi, si ha timore a usare parole come «capolavoro»: definirne i limiti e i significati sembra ogni giorno più arduo. Ma se c’è un film per cui si può usare, quello mi sembra Una separazione di Asghar Farhadi, trionfatore all’ultimo festival di Berlino (oltre all’Orso per il miglior film, la presidentessa Isabella Rossellini è riuscita a far premiare collettivamente sia il cast femminile che quello maschile: un fatto eccezionale di cui bisogna renderle merito) e una delle più sottili e straordinarie prove di scrittura e messa in scena viste di recente: una «dimostrazione» perfetta di cosa sia il Grande Cinema. E questo nonostante l’apparente semplicità di storia e regia.
Le prime scene spiegano il titolo: Simin (Laila Hatami, una vera star in Iran) vuole divorziare dal marito Nader (Peyman Moaadi) perché non è disposto a trasferirsi all’estero con lei non volendo abbandonare il padre malato di Alzheimer. Questo rifiuto, che spinge la moglie a trasferirsi dalla madre, fa scattare la necessità di trovare chi si occupi del padre durante il giorno, per cui si offre Razieh (Sareh Bayat), ma acuisce anche la crisi della figlia Termeh (Sarina Farhadi, figlia del regista), contraria alla separazione dei genitori e apparentemente dalla parte del padre con cui ha scelto di restare.
Le cose, però, non sono mai semplici come appaiono e queste prime scelte pian piano ci fanno scoprire altre cose: per esempio che la «badante» è incinta e che suo marito (Shahab Hosseini) non sa di questo lavoro, che entrambi sono ultraortodossi (mentre Simin e Nader lo sembrano meno) e che lui è disoccupato e tormentato dai debitori. Da cui si capisce perché la moglie abbia bisogno di lavorare nonostante il suo stato e perché lo faccia di nascosto dal marito.
Tutto questo lo spettatore lo scopre poco a poco, quasi di sfuggita, senza mai avere una piena certezza di quello che spinge i vari protagonisti a comportarsi in un modo o in un altro. Farhadi filma le scene con la (apparente) semplicità di un occhio documentario, con la «noncuranza» di chi sembra interessato a registrare soltanto semplici squarci di vita. Solo dopo, quando le cose si complicano, ci si accorge che quello che sembrava accadere quasi casualmente davanti alla macchina da presa era essenziale allo sviluppo dell’azione e alla comprensione dei comportamenti di ognuno.
La convenzione critica per cui chi scrive «anticipa» al lettore il succedersi degli avvenimenti rischia così di togliere quella sorpresa che si compie negli occhi e nella mente dello spettatore quando una scena o una battuta rimandano a quello che prima era come scivolato via. Non c’è niente nella messa in scena di Farhadi che si riveli inutile o superficiale, tutto ha una sua «necessità» e importanza ma dalla platea lo scopriamo solo quando una scena o una battuta ci obbligano a ripensarci sopra. Abituati a un cinema che dà per scontato la nostra «superficialità» di spettatori e che sottolinea con insistenza ogni cosa, rischiamo di restare spaesati di fronte alla semplicità e alla linearità del racconto di «Una separazione».
Il montaggio «invisibile» del film non si sostituisce alla nostra attenzione, come ormai ci ha abituato il modo hollywoodiano (e non solo) di spezzettare l’azione. Le storie parallele costruite grazie al montaggio alternato mettono chi guarda nella comoda situazione di chi sa già che alla fine tutti i fili della storia finiranno per essere tirati e riuniti (ricordate i film di González Iñárritu tipo «Babel»?). Qui no: Farhadi aggiunge ogni volta un nuovo tassello, una «spiegazione» in più perché a lui non interessa (solo) costruire un film che conquisti l’attenzione dello spettatore ma un film che ci faccia entrare nella testa e nel cuore delle persone che ha deciso di filmare.
Il peso della religione nei comportamenti delle persone, le differenze di classe e di sesso, la «sincerità» e l’«onestà» delle persone, sono tutte informazioni che il film ci fa capire e scoprire scena dopo scena. Perché dietro a ogni azione e a ogni scelta quotidiana ci sono ragioni diverse e contraddittorie che non è così facile capire e decodificare (per rispettare la solita convenzione critica, devo almeno aggiungere che l’assunzione della «badante» finisce in tribunale) e ognuno degli interessati può dire una verità che forse appare così ai propri occhi ma non a quelli degli altri.
E tutto questo lo scopriamo non con dei «colpi di scena» come insegnano i professionisti delle sceneggiature o mettendo a confronto «versioni» diverse (alla «Rashomon») ma per successivi avvicinamenti alla complessità della vita, per continui e sottili svelamenti di nuovi elementi della realtà. A riconferma dell’eterna giustezza di cosa già diceva Renoir nella «Regola del gioco»: «Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni».
Le recensioni – o gli stralci? – che trovate qui sotto invece circolano in rete senza firme o fonti; grazie in anticipo se qualcuna/o dà indicazioni utili per dare a Cesare (o a Cesarina) quel che è suo.

Nadir e Simin sono una coppia borghese che sta per divorziare, anche se fra i due non tutto è finito. Lei vuole espatriare dall’Iran, tanto che ha anche ottenuto la documentazione necessaria. Lui invece sente di dover rimanere per poter assistere il vecchio padre ammalato. In mezzo ci sono i sentimenti di Termeh, figlia undicenne. Le cose però si complicano ulteriormente quando Nadir finisce in tribunale. Per le accuse mossegli dalla badante dell’anziano padre e dal marito di lei, entrambi religiosissimi, provenienti da un ceto sociale modesto.
Una separazione, eppure tante separazioni. Quella fra i due sposi, quella paventata dalla terra natia, quella dall’anziano padre che con l’Alzheimer non è più lui, quella della ragazzina che sta perdendo l’unità della propria famiglia. È apparente, soltanto apparente la semplicità della struttura di quest’ultimo gioiello firmato Asghar Farhadi. Una patina infinitamente leggera che appena sotto nasconde un arcobaleno di emozioni. Serve un tocco delicato ed attento (soprattutto alla censura!) per raccontare l’Iran di oggi.

«Una separazione» è una fotografia vivida della quotidianità, delle problematiche, delle ambizioni di una società complessa. Teocratica ed ai limiti della misoginia, chiusa per molti versi ed anche ricca di valori per molti altri. La lente utilizzata dal trentanovenne cineasta iraniano, amico del martire del cinema patrio Jafar Panahi, è bifocale. Abbiamo uno sguardo che sorvola dall’alto le dinamiche sociali di una nazione piena di contraddizioni e di risorse (l’incontro-scontro fra la famiglia piccolo borghese dei protagonisti e quella modesta e ultra conservatrice della badante cui si rivolgono), ed abbiamo poi un primo piano fatto di ragioni intime. Questioni che potrebbero appartenere ad ognuno, senza confini geografici. Ingenerando interrogativi evergreen sugli obblighi morali che afferiscono le persone appartenenti ad un medesimo nucleo familiare. Ecco, la pellicola vincitrice dell’Orso d’oro 2011 al Festival di Berlino come Miglior film, più che sciogliere i dubbi, favorisce la riflessione, alimenta ulteriori quesiti. Interiori e non.

La tecnica narrativa adoperata è lontana dagli standard occidentali, soprattutto quelli americani, poiché procede placida, senza colpi di scena. Le spiegazioni degli avvenimenti avvengono lentamente, senza giudizi di merito, senza additare buoni e cattivi. E per un cinema così all’avanguardia non potrebbe essere altrimenti. Nonostante tutte queste precauzioni, Asghar Farhadi realizza un’opera forte. Delicato non vuol dire fragile, i sentimenti in gioco non implicano necessariamente un tono melenso. Non c’è pietismo, anzi. Certo, in Iran ci sono questioni irrisolte, anche gravi, ma è pur sempre la terra degli avi. Farhadi non è d’accordo “con l’immaginario che l’Occidente ha del Paese”, dove, riferendosi alle vicende di Una separazione “ci sono più divorzi che dalle vostre parti”, e dove comunque è ancora possibile girare dei film “ad un costo decisamente inferiore”.
“Se voi foste il giudice” è una rubrica de “La settimana enigmistica” dove viene chiesto di decidere chi avrebbe ragione tra due punti di vista ugualmente giustificabili. Asghar Farhadi fa lo stesso: fin dall’incipit ci mette di fronte a Naader e Simin con una soggettiva del giudice che sta vagliando la loro istanza di divorzio. Lei che vuole espatriare con la figlia undicenne per garantirle un futuro migliore, lui che vuole rimanere e prendersi cura del padre malato di Alzheimer. Quando lei se ne va di casa, la loro vita si intreccia a quella di un’altra coppia: Razieh, assunta come badante, e suo marito Hodjat, in una questione dove ognuno ha le proprie ragioni e nessuno ha davvero torto.

La messa in scena mescola la verosimiglianza della storia, dei dialoghi, dei volti (quello commovente del padre di Naader) e delle persone a un’impostazione teatrale – ibseniana per il ruolo della donna, pinteriana per tensione – che è background di Farhadi. Come in «About Elly» veniva introdotto il mistero di una scomparsa, qui ce n’è un altro da districare: un incidente che si rivela enorme per i protagonisti. Qualunque punto di vista diventa credibile, ogni ragione inappellabile, ogni torto marcio. Il potere di giustizia della legge sterile e impotente.
Ritroviamo il muro di convenzioni della società iraniana, la religione, le tradizioni, i pregiudizi, le contraddizioni, il ruolo della donna, il senso della verità, ma soprattutto sono l’omissione e i segreti a dar seguito a strascichi imprevedibili.
Per quanto gli uomini si dimostrino ostinati, arroccati nelle loro posizioni e a loro modo fragili, sono le donne ad avere il coraggio di agire, anche se di nascosto. Le due protagoniste rappresentano quello che, secondo lo stesso regista, è il confronto tra due visioni del bene in conflitto: non ci sono buoni o cattivi tra cui scegliere. Farhadi però cerca di concentrarsi anche sulle donne che verranno: la piccola figlia di Razieh da una parte, e Termeh, la figlia adolescente di Naader e Simin, dall’altra, costretta a subire lo strazio della separazione, che viene formata dal padre anche con piccoli gesti, come chiedere il resto al benzinaio. È lo sguardo di solidarietà che le due si scambiano verso il finale a racchiudere un sentimento di reciproca incomprensione per quel mondo di adulti fatto di ostinazione, acredine, regole e leggi non scritte, di cui sono testimoni.

Dialoghi concitati, parole che si sovrappongono (ulteriore rammarico di vedere questi film doppiati), camera a mano, personaggi spesso di quinta, la pluralità di punti di vista come nella scena in cui Naader si trova con Razieh e Hodjat davanti al giudice con quella danza di concitati campi/controcampi a quattro, rendono la regia di Farhadi puntuale ed essenziale. L’impostazione teatrale viene rimarcata anche dai fatti riportati, o da quelli che si svolgono fuori campo, spesso dietro porte, pareti o vetrate: un corto-circuito di testimoni-giudici all’interno del film e al di fuori. L’occhio del cinema non arriva a mostrarci “la verità”, ma si limita a testimoniare a sua volta.
Di nuovo un grande lavoro di attori, come ad esempio Sareh Bayat, costretta da Farhadi, per il suo ruolo di donna tradizionalista e religiosa, a recitare cinque preghiere al giorno, frequentare le letture del Corano per le donne e a non parlare agli uomini della troupe.

Il mistero, più che tendere semplicemente alla risoluzione, continua ad accumulare domande, per lo più di tipo etico. Dice sempre Farhadi di non essere interessato tanto all’azione, quanto all’intenzione che porta ad agire, e, quando questa diventa impalpabile e difficile da capire, allora anche quello che chiamiamo morale diventa fragile. La forza del film, il merito della sceneggiatura, sta in una costruzione di equilibri tra i personaggi di fronte a cui è difficile prendere posizione.

Meno toccante di «About Elly» per impostazione, ma capace comunque di emozionare e far respirare i personaggi, «Una separazione» ci consegna un regista che, all’interno delle soffocanti maglie della dittatura e pur avendo subito limitazioni, ci fa tastare il polso del suo paese. Ci introduce in una vicenda di personaggi vivi con cura e sensibilità letterarie. Come spettatori occidentali viene da chiedersi quante sfumature non cogliamo, quanto influisca quel fascino da turisti un po’ sprovveduti, un po’ benpensanti, che proviamo per quell’Iran che ogni volta ci meraviglia con le sue contraddizioni, la sua forza e il suo cinema.

BREVE NOTA (QUASI CINEFILA)
Da tempo corteggio un amico per una rubrica di cinema (intendo in blog) e un’amica per un’altra di teatro. Si negano, cambiano casa, girano con il passamontagna persino nel cyber-space pur di non incontrare il temibile db-arruolatore. Prima o poi ce la farò o salteranno fuori autorevoli candidati (un francese, tal Jean-Luc Godard, si era offerto tempo fa ma insomma non so se posso fidarmi del primo che passa). Nel frattempo oggi offro in successione questa carrellata e alle 12  una rec di Iacopo Zanon: che siano di buon auspicio (db)

 

Redazione
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