Attila, santemariegoretti, la scuola degli orfani

di Daniela Pia

DanielaPia-Attila

Di fronte alla sua aula stava una prima di studenti, delle superiori. Di una città non meglio definita, di un istituto che orbitava in un quartiere faticoso. Qualunque collega, di qualunque disciplina, di quelli ben temprati e preparati, si confrontava con situazioni ai confini della realtà: «videro e vissero cose che certi Faraoni…». Discutevano così nella gelida sala professori:

Tizio ha una situazione complicata; Caio ha sofferto tanto; Sempronio è un bes (bisogni educativi speciali); Gavino un dhd (deficit di attenzione) – e via dicendo sino a completare due terzi della classe.

Vero, tutto vero.

Di fronte avevano tanti esseri umani. Cuccioli ringhiosi. Desiderosi di carezze. Vero, ma quando le carezze e le attenzioni erano pretese o richieste, mordendo la mano che insegnando accarezzava, insultando i maestri, senza alcun freno inibitorio, la fatica si faceva di Sisifo.

A volte, mentre i suoi colleghi si cimentavano nell’agone dell’aula, tentando di impedire che non venissero bruciati i lavori appesi alle pareti della scuola, vedeva i novelli Attila scaraventare dalla finestra le sedie dell’aula, aggredire i compagni, certe volte i docenti e, una tantum, persino il preside. Eppure nulla sembrava cambiare, se non come nelle grida manzoniane, reiterando e inasprendo pene di dubbia efficacia.

Sempre più disarmata/o, l’insegnante registrava gli effetti di quei banchi rovesciati, dei tam tam sul muro dell’aula, confinante con la sua, metodo collaudato dai carcerati nelle loro celle, in un primordiale linguaggio imperscrutabile. E li osservava, l’insegnante, quei ragazzetti accompagnati dalle loro ragazzine, approfittare della mancanza di personale ausiliario, mentre furtivi si sostituivano ai bidelli nel suono anticipato della campana. Da tempo aveva compreso che la guerriglia era allarme, sociale. Si rese conto che urgeva coraggio, quello in grado di pronunciare le parole vietate: non abbiamo strumenti, e il senso di solitudine, in questi casi, è totale. Lo scaricabarile pure. E immaginò dirigenti, di ogni ordine e grado, sottosegretari e ministri, ispettori dalla reprimenda compulsiva, additare lui e tutti i colleghi ammalatisi di fatica incompresa, pontificare sull’incapacità di gestire dei “ragazzini”. Li vide sfoderare la spada della valutazione, sguainata a colpire. Non siete stati formati, fortificati, collaudati a professionalità multiple? Ecchissenefrega. Non siete capaci ,”motu proprio” di spaziare dal ruolo dello psicologo a quello dell’assistente sociale, dal mediatore familiare al genitore, dall’allenatore all’amica/o affidabile? MALE molto male. Fallito avete. E non sarete premiati, che la premialità è il fulcro della ” buona scuola” e il regno dei cieli si spalancherà solo a coloro che seppero per tempo annusare il vento del feudalesimo di ritorno: credere, obbedire, combattere. Per loro, il grande fratello MIUR ha forgiato un programma di nuova generazione che il governo, di giovani sinistre leve, scodellerà in “conditio sine qua non”, imponendo parametri uniformi, tali da giudicare allo stesso modo gli insegnanti degli Attila furibondi, come quelli delle sante Maria Goretti e dei novelli Einstein.

La sorprendente soluzione – dei Faraoni (sì Davidi) di turno e delle Giannine (certo Stefanie) di passaggio – divenne la programmazione di un rivoluzionario format: «l’isola degli orfani». Orfani di tutele , orfani di genitori, orfani di affetti, orfani di tecnologia, orfani di regole, orfani di istruzione, orfani di se stessi. Tutti nello stesso calderone. Il cimento fu dato in pasto a un annoiato pubblico pomeridiano, educato a digerire la poltiglia. Il governo ne derivò un calcolo calorico: tanti, troppi, dimagrirono e si ammalarono di anoressia, altri, pochi, pochissimi, ingrassarono e si fecero tiranni. Bulimici.

E tutto continuò come sempre e peggio di sempre, mentre i soffitti crollavano, i bagni si intasavano, la carta igienica scarseggiava, i libri scomparivano, i professori e i maestri diventavano un tiro a segno double face. La narrazione delle Lim (lavagne interattive multimediali) bianche trionfava e la scuola pubblica evaporava.

http://www.metronews.it/15/02/28/perch%C3%A8-il-bravo-insegnante-accetta-di-farsi-valutare.html

 

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

2 commenti

  • Francesco Masala

    mi sembra un incubo, speriamo, per usare le parole di De André, che contro tutte le aspettative sbocci qualche fiore.
    mi ricorda “Rollerball”, gran film del 1975, molti chiuderanno la partita anzitempo, se pure iniziano a giocare.

  • Pietro Socci si chiamava il mio maestro di quinta elementare; in lui erano racchiuse tutte le virtù elencate nello scritto di Daniela. Parliamo di una scuola nel quartiere Tiburtino, primi anni ’70. In una classe maschile mista di media/bassa borghesia e sottoproletariato, con alunni difficili, qualche caratteriale e diversi sporti sulla soglia di povertà e degrado. Il maestro Socci c’introdusse ai lavori collettivi, alla lettura del giornale: commentammo per un mese intero l’allora epocale viaggio di Nixon in Cina…in quell’anno 1971/72 fui fortunato ad avere come insegnante una persona colta risoluta onesta sensibile.

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