«Atto secondo» di Antonio Attisani

le riflessioni di Giuliano Spagnul

Erving Goffman nelle pagine conclusive del suo libro La vita quotidiana come rappresentazione scrive: «nello sviluppare lo schema concettuale adoperato in questo studio, è stato fatto uso di un linguaggio teatrale» e ammettendo di essersi servito di uno «stratagemma retorico» ne annunciava la necessità dell’abbandono.

«Le impalcature, dopo tutto, devono servire per costruire altre cose e dovrebbero essere erette tenendo presente che vanno poi smantellate. Questo studio non riguarda quegli aspetti del teatro che si introducono nella vita quotidiana, ma tratta della struttura degli incontri sociali: la struttura sociale di quelle entità della vita sociale che esistono ogni volta che le persone entrano nell’immediata presenza fisica degli altri. La caratteristica fondamentale di questa struttura è costituita dal mantenimento di un’unica definizione della situazione, che deve essere espressa e difesa di fronte a una moltitudine di possibili incidenti».

Ma come fare quando tutto il teatro si trova nella paradossale situazione di voler esso stesso smantellare le proprie impalcature, il proprio linguaggio, le proprie maschere mettendo a nudo ciò che necessariamente, per poter funzionare, deve restare coperto da un’illusione condivisa? Elaborare la realtà quotidiana tramite le finzioni di un palcoscenico allestito proprio per questo scopo è il lavoro difficile che dovrebbe portarci a capire chi siamo, cosa ci facciamo insieme agli altri ecc. Svelare i trucchi del palcoscenico, smontarli, oltre che distruttivo per la finzione stessa è altamente destabilizzante per quella società che della finzione rappresentata ha sempre cercato di fare un uso terapeutico o, quanto meno, consolatorio di quella «moltitudine di possibili incidenti» che minacciano costantemente la nostra fragile coesione sociale. Ed è questa pericolosa e incongrua situazione che Antonio Attisani racconta in questo Atto secondo (Celid, Torino 2018) biografia insolita di una vita insolita nel mare del teatro in Italia in quegli anni “difficili” tra il 1966 e il 1993.

Da non esperto del settore e da spettatore incolto e sporadico ho scoperto in questo libro, solo apparentemente per addetti ai lavori, una prospettiva capace di incunearsi in quel deposito di risorse intellettuali ed emotive che quegli anni hanno a disposizione per tutti quelli che vogliono cercare di capire un oggi altrimenti rassegnato a una decifrazione affatto schiacciata su un uso del tutto disinvolto e opportunistico del prefisso post. Il nodo centrale del lavoro di Attisani penso si possa far coincidere con quell’idea di «teatro come differenza». Quel gioco rituale socialmente condiviso in cui si gioca «la differenza tra ciò che si vorrebbe rappresentare e ciò che effettivamente si è in quel momento di relazione con gli spettatori». Non ciò che si è in senso identitario, un mettere a nudo la propria soggettività interiore, ma ciò che si è in quel preciso momento in cui si è in relazione con coloro che sono lì per guardarti interpretare qualcos’altro, qualcun altro. Qui si va «ben oltre la nudità», ben oltre le pretese di trovare verità profonde. È un rimanere alla superficie, nel campo dei conflitti ove operano i «portatori di verità», quegli emarginati che appartengono al partito dei perdenti. Quel partito che ha compreso che «nel “teatro quotidiano”, come nel sociale, vale il motto spinoziano secondo il quale “il peggio vince”, e dunque la vera saggezza consiste nel sapere della perdita, e la vera storia da studiare consiste nella vicenda del loro perdere senza perdersi».

Il teatro è tutto perché è la nostra vita e la sua «magia si manifesta laddove il teatro non mostra ma lascia interstizi, e laddove è una esperienza di trasformazione per autori e spettatori». Paradossalmente verrebbe da dire che al contrario di ciò che facciamo nella vita quotidiana nel teatro non si recita, si vive. E d’altra parte cos’era la pretesa delle avanguardie artistiche del primo Novecento di far coincidere l’arte con la vita se non il riconoscimento che è proprio nella finzione creativa che ci si avvicina di più alla realtà del vivere? È solo la consapevolezza dell’illusorietà di ogni soggettività che può convalidare l’intima necessità di mutare col mutare della vita senza il rischio di dissolversi una volta per tutte. Contro ogni «mitologia regressiva» come quella della «soggettività proposta come valore originario, come elemento alternativo al sistema di dominio ideologico, mentre sappiamo che essa stessa è prodotto della storia e quindi dovrebbe essere attraversata dalla coscienza e socializzata nella propria relatività». Il “vero” soggetto è lì sul palcoscenico, mutevole e intento a tenere assieme le diverse esigenze del momento, che siano il tentativo di un «nuovo possesso del corpo» o l’aspirazione a «uscire dal proprio corpo». Non è gioco fine a se stesso, è gioco di divenire per vivere.

Nel teatro come nella vita «abbiamo ormai una galassia di aspirazioni diversissime, autonome, proiettate verso l’assimilazione. Non si tratta di cosa è il teatro, ma di fare teatro della propria impertinenza. Perciò non esiste più il rischio del revival ma un continuo saccheggio, una ripulitura dei segni dai significati originari, l’uso in un nuovo contesto di idee e frammenti» in una sorta di neodarwiniana exaptation in cui tutto è soggetto a essere usato in modo opportunistico indipendentemente dalla sua funzione originaria. Il teatro ci mostra sempre il brulichio della vita, il suo perpetuarsi; il suo non poter morire ci mostra come «la ricerca teatrale, anche nei suoi esiti maggiori, è fatta anche di grandi presenze che poi svaniscono o si immergono, per sconfitta personale o per deviazioni di percorso esistenziale, magari per realizzarsi altrove: i loro nomi non dicono niente a chi non li ha mai incontrati però contano molto nella cultura materiale del teatro, ch’è fatta appunto anche di conquiste invisibili e persino di fertili fallimenti».

Antonio Attisani è stato attore e critico e organizzatore di teatro e ha saputo trarre dalla sua esperienza una lezione che gli consente oggi di chiedersi/ci «che fare adesso, noi e i nostri figli; come sottrarsi senza perdere, o come perdere senza essere sconfitti, come creare un luogo in cui resistere senza doverlo edificare e proteggere con la violenza». È una domanda a cui molto coraggiosamente cerca di rispondere senza l’ausilio consolatorio dell’utopia, conscio ormai che «anche l’utopia più paradisiaca contiene un nucleo mortale di autoritarismo». E conscio anche che nella relazione tra sapere e potere «se uno studioso non pone alla propria specializzazione domande da uomo, riproporrà nella sostanza un sapere schizofrenico, il sapere del potere: conoscenza da una parte, vita dall’altra». Occorre diventare attori capaci di «dare e avere invece che interpretare, dominare, rispettare, disprezzare ecc«».

Infine non ho parlato di questo libro, non ho parlato di teatro, ho parlato di me in rapporto a questo libro e al sapere del suo autore. Un autore in fuga, come me, come tanti altri che hanno passato la vita a fare «lavori inutili», e quello teatrale è uno dei tanti che si moltiplicano oggi. «È un segno di cosa?» si chiede Attisani: «innanzitutto che colui che è in fuga vive, vive per lavorare e questo lavoro durissimo è improduttivo, cioè torna nella confusione della vita stessa. Fare teatro è (anche) imparare a perdere».

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