Attraversare il vuoto, attraversarlo in moto – di Mark Adin

Natale con i morti, ossimoro di angoscia.

Quando finisce una vita, è inevitabile l’aprirsi di un vuoto. E se l’assenza è di una persona cara, diventa tormento. Che ci azzecca col “Natale”? E cosa c’entro io, col Natale? Mi ci trovo per caso, chiedete al calendario. Io, del Natale, non sono parente. E’ una roba cui avrei rinunciato volentieri.

Anche a lui, anche al morto, non gliene sarebbe fregato un tubo. Ripeto: riguarda il calendario. Ma ora ci troviamo, io e il Gianni che non c’è più, ad avere un ingombro. Questa dannata malattia del ricordo che mi assale, il guasto di ripercorrere, con vivida memoria, le immagini di un tempo non più nostro.

Adesso è notte, ma già domani la luce del sole tornerà, ancora una volta, con l’accalcarsi di gente formicolante nei templi del consumo forzoso, con l’incolonnarsi di automobili. Me ne andrò a spicciare faccende con l’udito ovattato, con l’attenzione distratta e con un pianto segreto, a tratti rivedrò il Bagòf sulla sua moto, il primo chopper mai visto da me, ragazzino ribelle con i capelli lunghi, così dissonante con il mondo di provincia di allora, così ultraterreno.

Certe persone non dovrebbero morire. La morte se ne porti via altre, di cui potrei fornirle elenchi fitti di nomi. Elenchi lunghissimi di persone a me inutili sono lì, pronti per essere scritti. Basta chiedere. Crepino pure.

Ma i miei amici no.

Perlomeno non quelli più vicini, dei quali ho bisogno di saperli vivi, di quella compagnia di cui ho così occorrenza, e non di una sensazione di sconfitta che si ribalti sulle mie speranze.

Odio la scrittura emotiva come questa di ora, odio l’irrefrenarsi della vampa di angoscia che paralizza ragione e forza polemica. Odio questa riduzione del vivere ad attraversamento del tempo, odio essere debole dentro la vita con tutti gli epiloghi che si porta appresso, odio l’infelicità di una agonia che erode e scalfisce e mette a rischio la ricchezza del vivere. Odio il Natale che amplifica tutto, che rende insopportabile le luminarie, che mi strazia il petto. Odio scriverne, ma è il foglio bianco che mi seduce con il suo candore. Perché il bianco è ulteriore supplizio, ti mette paura. E’ tunnel temporale, minaccia, silenzio. Che ti attira. Ci cadresti dentro, nel bianco, e sarebbe la fine.

Allora ci scrivi, sul foglio, per esorcizzare il terrore. Per romperne il silenzio. Per resistergli.

Davanti al silenzio nudi, senza riparo. Gimme shelter.

La nostra imperfezione, la notte, il deserto. Quale silenzio più potente e definitivo? Quale minaccia più terrificante dello spegnimento, del non esistere?

Gianni era siciliano: come tutti gli isolani conosceva la legge immutabile del mare che restituisce alla terra sugheri, alghe, asterie, le inutili macerie del suo abisso, quella delicata contemplazione della realtà illuminata dal girasole impazzito di luce. Come siciliano incarnava temperie drammatiche, beveva vini forti, mangiava pane, olive e formaggi. La dieta antica di marinaio fenicio.

Ecco come fregare il tempo, pur convinti di una immortalità impossibile, come imporre una pausa, come ingannare il destino: scrivere. A questo la scrittura serve.

Ulisse? Non è mai morto, grande vittoria, si fotta la commare secca, crepi lei, maledetta porca, le si arrugginisca la falce. Ulisse vive, immortale, alla facciaccia sua. A dispetto del mare e gli dei.

Ah Ah! Monthy Pyton, “Il senso della vita”, l’episodio della Morte che bussa alla porta della casa dove è in corso un festoso banchetto di splendidi e ignari. “Sono il tristo mietitore”, “Chi è, cara?”, “Credo sia un contadino!”. E’ così si può far finta di non conoscerla, si può ignorarla. La Morte è inevitabile, ma non diamole soddisfazione!

Gianni, meglio conosciuto come Bagòf, soprannome di incerta origine che non gli piaceva molto, era stato un beat. Musica, moto, Amsterdam senza una lira, sacco a pelo, esperienza lisergica, on the road again. Rider poco easy. Poi si era reincarnato: il primo furgone, il camion, il montascala, i traslochi, tanto lavoro. Ma non aveva mai abbandonato la musica: la ascoltava con una birra in mano.

Mi accolse in Dam, col suo tono di voce indiscreto, un po’ Virgilio che si fa incontro a Dante (si intenda dei poveri), intercalando parole fatte di inglese splatter e stupenda musica siciliana, sembrava avesse in mano le sorti del mondo. Le mie senz’altro: ero appena arrivato in autostop, con gli ultimi spiccioli avevo acquistato un panino. Ma Gianni Bagòf lo conosceva, quel mondo,  e me lo offerse come si offre un bicchiere di vino. Bevvi d’un fiato.

Apparteneva a quella flora cresciuta dovunque, avvezza a freddo, acqua, vento e occasionali calpestii, che non rinuncia al suo tenue profumo, che si approfitta di ogni spacco di roccia, di ogni residuo di sole. Siamo fatti così. Non ne vogliamo sapere del gelo, e come ortiche caustichiamo la mano di chiunque voglia strapparci da terra.

Ti abbraccio, Gianni, e mi schifa non poter trattenerti.

 

Mark Adin

 

Redazione
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2 commenti

  • Bagòf doveva esserti molto caro. Non conosci l’origine di questo suo soprannome, ma forse avrai sospettato che per la sua esperienza di viaggiatore, per il suo inglese, sia pure truculento, gli amici lo abbiano definito una “borsa” piena di moltissima esperienza, di umanità, di tutto, insomma. In inglese, bag of (everything).

  • Gianni è un Umano fortunato ad averti (il presente è voluto,l’Amicizia non finisce mai)come Amico e Fratello Mark Adin. Un grande abbraccio a te ed a tutti voi. Marco Pacifici.

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