«Banditi a Orgosolo»

Ignazio Sanna racconta di un gran film ricostruito nel libro di Antioco Floris

Il grande poeta, narratore e pensatore sardo Francesco “Cicitu” Masala una volta mi disse, a proposito della propria opera: “Dostojevski diceva: «Scrivi di Parigi e sarai provinciale. Scrivi del tuo paese e sarai universale»”. Questo pensiero non sembra estraneo all’opera oggetto del lavoro di Antioco Floris, docente di Linguaggio e tecnica dell’audiovisivo e dei nuovi media all’università di Cagliari. Banditi a Orgosolo. Il film di Vittorio De Seta (Rubbettino, 2019: p. 260, € 18) analizza la genesi e la fortuna in Italia e nel mondo di un film estraneo alle logiche hollywoodiane che hanno formato tutti noi spettatori di cinema. Per quanto il regista non fosse né di Orgosolo né sardo, scelse di ambientarlo in un luogo circoscritto (il “paese” e le sue campagne) in un perimetro limitato, e una volta pronto gli fece spiccare il volo verso lidi lontani (l’universo mondo).

Il tema centrale del film è la trasformazione del pastore in bandito, sancita simbolicamente nel passaggio dal fucile al mitra: «Michele il suo fucile lo ha portato sempre con sé, sin dall’inizio del film. E lo usa per ammazzare il muflone nella scena di caccia dell’incipit. Il fucile, a differenza del mitra, non è un’arma, è un semplice oggetto di lavoro, uno strumento che accompagna il pastore nella sua quotidianità […]»1.

Il film fu presentato al Festival di Venezia del 1961, anno nel quale il Leone d’oro fu vinto dal film di Alain Resnais L’anno scorso a Marienbad, interpretato da Giorgio Albertazzi, tratto da un romanzo di Adolfo Bioy Casares, con sceneggiatura firmata da Alain Robbe-Grillet. Insomma, un film agli antipodi di Banditi a Orgosolo, che pure in quell’edizione del festival incontrò un buon successo di critica.

L’autore del saggio dà conto nei dettagli dei giudizi diversificati che suscitò, in Sardegna e fuori. Tra questi è di particolare interesse quello di un intellettuale sardo, il filosofo del diritto Antonio Pigliaru, padre dell’ex-presidente della Regione Sardegna Francesco, il quale pone l’accento sulla differenza tra il codice giuridico ufficiale, quello italiano, e le regole non scritte del codice barbaricino: secondo il primo l’azione di compiere un furto costituisce di per sé la trasformazione dell’individuo che ne è responsabile in bandito, mentre nel secondo questo automatismo è assente.

In linea di massima la critica in Sardegna si divide fra chi critica il film su posizioni di destra, sostenendo che il film di De Seta darebbe una giustificazione al banditismo, e chi invece ritiene che l’opera abbia più pregi che difetti, anche sul piano morale.

E se vogliamo sottolineare proprio un difetto in Banditi a Orgosolo, in gran parte dovuto alla sua età, è quello di essere menomato nella sua carica di docufiction realistica dall’antico peccato originale del doppiaggio. Purtroppo l’Italia è uno dei Paesi occidentali nei quali le lingue straniere sono meno conosciute, compreso l’inglese, da lungo tempo lingua franca delle comunicazioni internazionali. E dunque il dubbing, il doppiaggio, è stato un male necessario per la diffusione nelle sale. Ma se da un lato ha dato modo nel tempo a grandissimi professionisti come Elio Pandolfi e Francesco Pannofino, per fare solo due nomi fra i tanti, di dare una valida impronta italiana ai film provenienti per lo più dall’industria cinematografica hollywoodiana, dall’altro penalizza un capolavoro come quello di De Seta sottraendo realismo a un’opera di fiction che ha nella sua qualità documentaristica il proprio punto di forza. Certo, per fortuna in questo caso il doppiaggio è pulito e asettico, dunque efficace, al contrario di casi come quello di Una questione d’onore (1965) di Luigi Zampa, in cui il realismo è carente, e la falsissima parlata sarda dei suoi interpreti lo penalizza ulteriormente, spingendolo verso il grottesco involontario.

Come nota giustamente Antioco Floris, la permanenza in Barbagia per circa due anni consente a Vittorio De Seta di conoscere bene l’ambiente e instaurare un rapporto di confidenza con gli abitanti che gli permettono di capire abitudini e sensibilità che difficilmente un estraneo può cogliere. Lo studioso documenta in maniera dettagliata tanto la genesi dell’opera quanto la sua realizzazione tecnica da parte di De Seta e della sua troupe atipica, che si discosta dalla norma a causa di difficoltà di vario genere ma per lo più di ordine pratico. Oltre che a una serie di documenti redatti dal regista Floris fa riferimento ad alcune conversazioni con lo stesso De Seta, che lo incoraggia a lavorare a quest’opera sul suo film più importante.

Non solo il doppiaggio, ma anche la traduzione dal sardo all’italiano comporta uno slittamento semantico complessivo, che riguarda il modo stesso di intendere la vita. Infatti la lingua non è uno strumento di comunicazione neutro, per cui una vale l’altra, ma al contrario è profondamente intrisa della visione del mondo tipica della società che la esprime. Non a caso Umberto Eco scrisse da qualche parte che tradurre è dire quasi la stessa cosa. Forse sarebbe bastato a ridurre al minimo questo iato l’utilizzo dei sottotitoli ma, per qualche motivo, ciò non è accaduto.

Analizzando più da vicino i contenuti del libro, possiamo dire che consta di due componenti principali: una panoramica sulla genesi del film e la sua accoglienza in Sardegna e fuori, e un ricco apparato documentale. Della prima abbiamo già detto, per quanto riguarda la seconda è il frutto di un lavoro estremamente accurato compiuto da Floris a partire da uno scambio approfondito di informazioni, a cominciare dai documenti inseriti nel testo, fra l’autore di questo libro e il regista del film.

La sezione intitolata Documenti è la più voluminosa, andando ad occupare quasi i due terzi del libro. Comprende manoscritti e dattiloscritti dello stesso De Seta, «testi che spiegano la genesi del film e le scelte produttive e che in seguito sono stati pubblicati in diverse testate»,2 nonché il soggetto e la sceneggiatura del film. E poi la scheda tecnica, completata da Antioco Floris con le informazioni mancanti e l’elenco dei premi ottenuti. Di particolare interesse anche l’ampia selezione di fotografie, di scena e non.

Per chi non l’avesse mai visto, il mio consiglio, che ho applicato per primo a me stesso, è di non prenderlo sottogamba, perché il tanto tempo trascorso dalla sua realizzazione ad oggi l’ha fatto slittare gradualmente dalla dimensione cronachistica a quella storica. Certo, non tutti possono essere appassionati di antropologia culturale, ma credo proprio che valga la pena ancora oggi di vedere un film che ha suscitato l’interesse, fra gli altri, di un certo Martin Scorsese.

pag 37.

2 pag 78.

Ignazio Sanna

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