Barletta, 3 ottobre 2011: un’altra strage di operaie

Luca Cumbo racconta due storie – quasi nulla cambia in 100 anni? – nel film «Triangle» di Costanza Quatriglio (*). A seguire notizie sul processo di Barletta.

Due eventi emblematici, due grandi lutti del lavoro delle donne, chiudono la cornice di un quadro secolare di sfruttamento, lotte per i diritti, evoluzioni e involuzioni della nostra epoca contemporanea. Il primo è la tragedia avvenuta nel 1911 a New York, il secondo è a Barletta (fino al 2006 provincia di Bari, poi autonoma) nel 2011. I cento anni tondi fra i due incidenti spingono naturalmente a far paragoni e confronti, ma nel film i due racconti procedono in parallelo, quasi come se il più vecchio fosse un flashback del più recente, ma forse sarebbe più appropriato descriverle come dimensioni parallele di due universi separati, tanto è profonda la voragine di storia che separa i due accadimenti da renderli episodi di mondi diversi.

L’incendio della fabrica tessile Triangle del 25 marzo 1911 è spesso confuso come l’evento che portò alla nascita della «Giornata internazionale della donna», festeggiata annualmente ogni 8 marzo, che invece ha un’origine marxista e rivoluzionaria. Nei primi anni del Novecento il movimento sindacale femminile negli Usa era agli albori, molte lavoratrici tessili non erano ancora organizzate, perché erano in gran parte giovani donne immigrate, poco ambientate e con ovvie difficoltà linguistiche, ma anche perché la lotta sindacale fino a quel momento era sembrata una prerogativa soprattutto maschile. Tuttavia già alla fine del primo decennio del secolo i tempi si mostrarono maturi per un’importante vertenza contro le cattive condizioni di lavoro e per la rivendicazione di un salario pari a quello degli uomini. Nel 1909 un primo incidente nella fabbrica Triangle scatenò uno sciopero spontaneo dei suoi 400 dipendenti, in larghissima maggioranza donne. Ne seguì un’ondata di retate di lavoratrici e costole rotte per mano di gangsters, assunti dai datori di lavoro per intimidire e attaccare le manifestanti con la complicità della polizia, finché The Women’s Trade Union League, un’associazione progressista di donne bianche della classe media, aiutò il picchetto delle giovani lavoratrici creando un cordone di protezione dalle provocazioni della polizia. Migliaia di lavoratrici tessili in tutta New York – le stime di allora riferiscono circa 20.000 – si unirono all’imponente sciopero guidato dalla giovane Clara Lemlich (1886 – 1982) intraprendendo così una lotta ad oltranza dal novembre 1909 al febbraio 1910. Più tardi la Lemlich si guadagnò un posto d’onore nella lista nera degli industriali e del governo per avere aderito al Partito Comunista degli Stati Uniti.

Molte/i della Triangle erano immigrate/i dall’Italia (Veneto, Sicilia, Campania) e da altri Paesi europei giunti negli Stati Uniti con le proprie famiglie in fuga dalla miseria. Invece – come accade oggi per i migranti che giungono in Europa – trovarono una vita di estrema povertà e condizioni di lavoro disumane. La fetta più importante dei lavoratori era composta da donne, molte avevano dai 14 anni ai 18 anni. L’incendio della Triangle fu il più grave incidente sul lavoro della storia di New York: morirono 146 persone di cui 123 donne, alcune arse vive, altre soffocate dal fumo, altre ancora si gettarono disperate dal nono piano dell’edificio per sfuggire alle fiamme. I superstiti raccontarono di porte sprangate deliberatamente dai proprietari per prevenire il furto dei materiali tessili da parte delle operaie. Il Congresso statunitense, mosso dalla grande risonanza che ebbe l’incidente, promulgò nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro fino ad allora sempre procrastinate. Nel frattempo crebbe l’interesse delle donne lavoratrici per il movimento sindacale, moltiplicando le adesioni alla International Ladies Garment Workers Union, uno dei più importanti sindacati nella storia degli Stati Uniti.

Nonostante l’immane tragedia, dalle testimonianze d’epoca e dai fatti storici riportati in parte anche nel film della Quatriglio, traspare la grande determinazione delle lavoratrici per la costruzione di un futuro di maggiori diritti, traspare l’energia di una grande lotta (e di una grande coscienza) di classe – che non si lasciò annientare dalla violenza e dallo sfruttamento – fino a ottenere epocali conquiste.

Cento anni dopo la scena è a Barletta. Il 3 ottobre 2011 collassa su stessa una palazzina nel cui scantinato è presente una fabbrichetta tessile abusiva che impiega tutte operaie senza contratto. Sul posto arrivarono persino i militari dell’ 82esimo reggimento fanteria di Barletta, come deterrente rispetto al clima “pesante” che si stava creando attorno al luogo della strage. Morirono cinque donne fra cui anche la figlia 14enne dei padroni.

Inevitabile il parallelo con l’evento di un secolo prima, del resto già il titolo del film si presta a vari livelli di lettura, come la stessa regista ha più volte spiegato in occasioni pubbliche: i primi due lati del “triangolo” sono chiaramente i due episodi storici; il terzo lato è quello non detto, ma che aleggia in tutto il film e ne fa il vero protagonista, cioè il mondo che abbiamo vissuto e che viviamo, il potere fascinoso ma anche alienante della tecnologia, il dominio della produzione industriale sull’uomo e ancor di più sulla donna, città inquiete e inquietanti che si espandono voracemente sia in orizzontalità che in verticalità.

La Quatriglio sta compiendo una personale ricerca estetica, culturale e tecnica: già con «Terramatta» (2012) e poi «Con il fiato sospeso» (2013) la regista ha mostrato di non volere farsi imbrigliare nei cliché di un unico genere cercando di rompere le definizioni, cercando di seguire le proprie suggestioni. E lo fa avvalendosi di una sperimentazione a tutto campo anche attraverso l’uso creativo dei materiali d’archivio. L’utilizzo, inusuale per un documentario, di un formato in cinemascope, raddoppiando a specchio il fotogramma dei filmati d’epoca, più o meno quadrati, è un espediente tecnico che porta a nuova vita filmati obsoleti potenziandone la visionarietà. Da contraltare alle immagini in bianco e nero interviene l’insistente soffermarsi della cinepresa su odierne macchine rotanti di una fabbrica tessile, con primi piani esasperati che invadono vorticosamente lo schermo come fossero pianeti e astri orbitanti di una galassia, un sistema ordinato ma anche caotico. Di fronte a queste immagini l’uomo parrebbe confondersi, annichilirsi, un po’ come ci si perde con un misto di ammirazione e di paura all’idea dell’immensità del cosmo e della sua organizzazione matematica. Sembra esserci una sorta di smarrimento di fronte alla potenza della macchina, attrazione e timore allo stesso tempo, vengono a crearsi meccaniche surreali con infiniti filamenti scintillanti che corrono, fluiscono, e allo stesso tempo traspare l’inquietudine, l’essere completamente circondati (succubi?) dalla tecnologia. Innumerevoli gru che si superano in altezza una dopo l’altra e sembrano non finire mai, grattacieli, palazzi, vertiginose verticalizzazioni, un continuo crescendo come in una catena di montaggio, finché le immagini a un certo punto entrano in simbiosi con la musica che molto ricorda, almeno nella ritmica ossessiva, l’introduzione elettronica del brano «Welcome to the Machine» dei Pink Floyd. A questo punto il film avrebbe potuto prendere una piega lisergica verso territori espressivi inesplorati per il tema trattato, ma la regista ci riporta sulla Terra, più o meno rassicurante.

Non c’è una tesi politica manifesta alla base del film: la regista si sforza di raccontare senza influenzare le persone che incontra e i luoghi in cui interviene, non parte da preconcetti, si lascia fascinare dalle donne e dalle storie in cui si immerge e prova ad intuirne il mondo. Ci sono inevitabilmente suggestioni che stimolano allo spettatore facili espressioni del tipo «non è cambiato niente», oppure «oggi si sta peggio di cento anni fa» ma ovviamente non è così, pur nella complessità del discorso. Il punto è invece capire quali sono le direzioni e le prospettive del nostro tempo. La storia del movimento operaio narra che 100 anni fa si partì da un gravissimo disastro per migliorare le proprie condizioni di lavoro, rafforzare la militanza sindacale; 100 anni dopo a Barletta questo non è avvenuto, le organizzazioni del lavoro hanno di fatto perso il ruolo novecentesco di protezione dei lavoratori per trasformarsi in grandi apparati burocratici e di potere spesso complementari al potere politico ed economico.

Mariella Fasanella, l’unica lavoratrice estratta viva da quelle macerie, mostra tutta l’umile fierezza di chi è consapevole di far bene il proprio lavoro, di chi sa parlare con la macchina convinta di poterla dominare. Racconta la Quatriglio in una recente intervista: «Mariella mi ha insegnato che la condizione operaia oggi non è diversa da quella degli schiavi dei primi del Novecento. Solo che quegli schiavi lì hanno imparato sulla pelle a unirsi e diventare sistema, mentre lei si ritrova con una filiera completamente frammentata e manca il conflitto. Il senso di schiavitù è talmente interiorizzato che non c’è conflitto. Anzi c’è devozione nei confronti di chi ti dà lavoro, che è povero tanto quanto te».

Le donne pugliesi assolvono il datore di lavoro, non tanto perché anch’egli vittima della tragedia con la morte della figlia, ma semplicemente perché non era il proprietario della palazzina e perchè era umano, era buono, e spesso lavorava insieme a loro. Non c’è solo l’inconsapevolezza dello sfruttamento, c’è da parte delle lavoratrici la reale e totale incoscienza delle conseguenze del mancato rispetto delle minime norme di sicurezza. Le lavoratrici non si pongono minimamente il problema che la regolarità del lavoro non è data solo dalla presenza o meno del contratto, ma anche e soprattutto dalla salubrità, dalla sicurezza del luogo di lavoro. Negli anni settanta del secolo scorso Medicina Democratica e Giulio Maccacaro si batterono a lungo su questo tema ma oggi è tutto (o quasi) dimenticato.

E’ molto rispettata in tutto il film la figura di Mariella, convinta di salvarsi dalla morte grazie alla luce della Madonna di Medjugorje, ma proprio a questo punto del racconto un taglio di scena ci porta in una chiesa con un suono di organo liturgico e coro di bambini. Inevitabile, per un miscredente come il sottoscritto, un sorrisino beffardo di cui però mi sono pentito subito. La risposta di Mariella alla tragedia è la stessa Madonna di Paolo Brosio… mentre cento anni fa, per la donna superstite della Triangle la risposta fu l’organizzazione delle lotte sindacali e la crescita del movimento operaio.

Al di là dei facili paragoni, sul confronto dei diritti acquisiti e perduti nell’arco di cento anni, quello che appare non soltanto nel caso di Barletta ma forse per tutta la nostra società (civiltà?) è dunque la drammatica incapacità da parte di chi lavora di allargare il proprio orizzonte di coscienza, non soltanto politico. Negli ultimi anni è diventato sempre più lungo l’elenco di stragi e incidenti mortali sul lavoro (il rogo della ThyssenKrupp su tutti) eppure i diritti del lavoro sono diminuiti come i salari, il welfare state smantellato e nessun movimento all’orizzonte appare in grado di contrastare queste direttrici. Siamo ormai così imbrigliati dalla macchina-sistema da essere incapaci di farci domande su ciò che siamo e su ciò che ci circonda?

Qui il trailer di Triangle

https://www.youtube.com/watch?v=JvODWqCok1g

Su questo sito web in inglese, molto ben fatto, è ricostruito l’evento del 1911 con i nomi e la provenienza di tutte le vittime:

http://trianglefire.ilr.cornell.edu/index.html

(*) questo articolo era giù uscito in “bottega” nel maggio 2015 ma ci sembra opportuno riproporlo come “scor-data”.

UNA NOTA DELLA “BOTTEGA”: com’è finito il processo per la strage di Barletta?

Il 15 dicembre 2015 www.lagazzettadelmezzogiorno.it racconta così le decisioni dei giudici.

Condanne fra due e cinque anni e mezzo di reclusione sono state inflitte dalla prima sezione penale del tribunale di Trani (presidente Giulia Pavese) nei confronti di 15 imputati – 14 persone fisiche e una società – nel processo per il crollo di una palazzina avvenuto in via Roma a Barletta il 3 ottobre 2011 e in cui morirono cinque persone. Nel crollo morirono quattro operaie di un opificio, che lavoravano in nero per pochi euro all’ora, e la figlia 14enne dei datori di lavoro.

Il processo era cominciato il 4 luglio 2013. Degli imputati, 14 erano accusati di disastro colposo, omicidio colposo e lesioni colpose plurimi, mentre la società proprietaria dell’area adiacente al palazzo crollato, la Giannini srl – quella in cui stava lavorando alla demolizione che, secondo l’accusa, provocò il crollo – era coinvolta, negli stessi reati, per responsabilità amministrative.
Le pene più alte sono state inflitte a Giovanni Paparella, il direttore dei lavori, condannato a cinque anni e sei mesi per i reati di omicidio colposo, crollo e lesioni colpose plurimi e ad altri sei mesi per aver violato norme antinfortunistiche, e a Pietro Ceci (cinque anni), incaricato per conto della Giannini srl, proprietaria del suolo in cui si stava lavorando, della progettazione e sicurezza, insieme con Vincenzo Zagaria, condannato a quattro anni e sei mesi.

Quattro anni e sette mesi sono stati comminati ad Andrea Chirulli e quattro anni e nove mesi ai suoi fratelli Giovanni e Salvatore. Si tratta di coloro che materialmente hanno effettuato i lavori. Quattro anni e nove mesi la condanna inflitta a Cosimo Giannini, della Giannini srl, proprietaria del cantiere, oltre alla contravvenzione di 35mila euro per lottizzazione abusiva. Tre anni e mezzo, infine, la pena per il maresciallo della polizia municipale Giovanni Andriolo, chiamato a intervenire poco prima del crollo. L’uomo è stato anche interdetto dai pubblici uffici per cinque anni. Stessa pena per l’ingegnere comunale Rosario Palmitessa e per il dirigente dell’Ufficio tecnico Francesco Gianferrini.
Inflitte altre condanne di minore entità, in qualche caso con sospensione della pena. Nei confronti della società è stata comminata anche una sanzione di 480mila euro per illecito amministrativo ed è stata disposta la confisca di parte del cantiere, a oggi ancora sotto sequestro.

Cercando in rete si trovano anche notizie (piuttosto scarne) su quel che è accaduto dopo: nel marzo 2020 la Cassazione ha confermato le condanne ma in alcuni casi dovranno essere “riquantificate” le pene perché reati, come le lesioni colpose, sono ormai prescritti.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

 

Luca

Un commento

  • Fausta Ferruzza

    Vorrei ricordare il bellissimo libro “Camicette bianche” di Ester Russo, Navarra editore, che ricostruisce puntualmente la vicenda del 1911, le vite delle donne coinvolte e ha dato l’avvio, qui in Sicilia, alla campagna per intitolare strade e piazze dei paesi d’origine a quelle donne migranti, vittime dello sfruttamento sul lavoro.

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