Bianca Menichelli: Ombre bruciate di Kamila Shamsie

Non è una recensione, è un invito a leggere «Ombre bruciate» di (Ponte alle Grazie, 2010, traduzione di Guido Calza) di Kamila Shamsie.

«Nelle guerre passate bruciavano soltanto le case, ma stavolta/

non sorprendetevi se prenderà fuoco anche la solitudine.

Nelle guerre passate bruciavano soltanto i corpi, ma stavolta/

non sorprendetevi se prenderanno fuoco anche le ombre».

Sahir Ludhianvi “Parchaiyaan”

Le ombre bruciate sono dentro di noi. Ombre come ricordi che si rincorrono e che vengono bruciati nel tempo e nello spazio.

Dal Giappone sconfitto nella seconda guerra mondiale all’India da dove stanno andando via gli inglesi, al Pakistan negli anni della Partizione, terra di stragi, di odi religiosi, di divisioni violente ed arbitrarie, Hiroko, la protagonista giapponese insegue il suo sogno: la pace, mai più corpi che svaniscono lasciando solo ombre sulla roccia, come Konrad, il suo innamorato tedesco allo scoppio dell’atomica a Nagasaki.

Il suo sogno di pace e di convivenza civile si concretizza anche nel grande amore che la legherà per sempre a Sajjad, indiano musulmano e al loro figlio Raza, che, nippo-indiano, può anche essere identificato come pashtun.

Ma la storia con la esse maiuscola non asseconda e non privilegia le storie con la esse minuscola ed ecco l’Afghanistan e i campi di addestramento della Cia per sfruttare i taleban in funzione antisovietica, passando per l’Arabia Saudita, il Kuwait e i contractors per arrivare negli Stati Uniti subito prima e subito dopo l’11 settembre 2001.

La linea che congiunge il lampo accecante di Nagasaki al lampo gelido dell’acciaio di una panca a Guantanamo è seguita dalla scrittrice con dolente partecipazione, ma con mano salda, ferma nel seguire, nel tempo e nello spazio, la Storia impazzita che tocca tutti i protagonisti; nelle parole che si snodano in un percorso mai rabbioso, si legge il desiderio (vanamente) inseguito dalla protagonista, toccata dalla pietas dopo il 9 agosto 1945, giorno del bombardamento atomico di Nagasaki, a distanza di tre giorni da Hiroshima.

L’unica soluzione, forse, nel pensiero non rassegnato di Hiroko: «non voleva appartenere a niente che fosse incorporeo e nocivo quanto una nazione».

Resta la domanda: perché? E soprattutto, potrà esserci un “mai più”?

Ho letto questo libro attirata unicamente dal nome dell’autrice, Kamila Shamsie.

Per caso, in biblioteca mi ero imbattuta nei suoi libri tradotti in Italia: «Kartografia», «Versi Spezzati», «Sale e zafferano». Soprattutto i primi due ci fanno conoscere un periodo storico e culturale che ha coinvolto e condizionato gli abitanti dell’India e del Pakistan, il 1947, anno della dichiarazione d’indipendenza indiana e della guerra civile e religiosa che ha insanguinato quei Paesi, attraverso le vicende familiari, forse autobiografiche, di persone coinvolte spesso loro malgrado, quasi trasferendo in tavole sinottiche la Storia e le storie. Forse noi occidentali possiamo partire anche da lì per cercare di capire lo stato attuale delle cose.

Kamila Shamsie è nata nel 1973, è pakistana, vive e lavora a Londra. Sa come scrivere quello che vuole trasmettere. E non è la sola tra i giovani scrittori che vivono, anche culturalmente, tra oriente e occidente, quasi a voler diventare i nuovi cittadini del mondo (altro ottimo esempio Kiran Desai e il suo «Gli eredi della sconfitta», Adelphi).

POST SCRIPTUM

Su «il manifesto» del 7 agosto campeggiava (pagina 10) un articolo di Giorgio Fontana che si inserisce nella querelle “esplosa” sul quotidiano intorno alla figura dell’intellettuale di oggi (rimando ad un precedente articolo del 30 luglio di Emanuele Trevi, con il quale mi ero trovata assai d’accordo). ecco la conclusione, non esaustiva, di Fontana: «la vera domanda non è di quali intellettuali ha bisogno l’Italia oggi, ma di quale pensiero. Indipendentemente dalle figure che lo veicolano (…) il valore di comprendere razionalmente, liberamente e criticamente il reale (…) Non voglio altissime figure di riferimento, voglio parole che tocchino il cuore delle cose». Come dargli torto? Buona lettura con Kamila, se volete.

Aggiungo due estrapolazioni letterarie che mi piacciono molto.

«Lo scrittore scrive, ma il libro non diventa reale finché il lettore non entra nel sogno narrato e non ne collega i pezzi. Perciò comincia dal centro e leggi verso gli estremi, inizia dalla fine e leggi all’inverso; spetta a te dare forma, tagliuzzare, intagliare, usare le forbici, legare, incollare, rifilare, raschiare, dipingere, arrabbiarti, imprecare e scagliare l’opera da un capo all’altro della stanza (…) spetta a te mettere insieme i pezzi in modo che combacino, e forse persino mostrare come dovrebbe esser fatto il lavoro»; da «Prateria. Una mappa in profondità» di William Least Heat-Moon, Einaudi, 1996 (traduzione di  Igor Legati).

«Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. – Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. – Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché  mi parli di pietre? E’ solo dell’arco che mi importa -. Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco»; da «Le città invisibili» di Italo Calvino (sempre sia lodato), Oscar Mondadori, 2002.

Redazione
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4 commenti

  • Giorgio Chelidonio

    A volte piccole ombre bruciate possono lasciare persino tracce musicali. Questo é solo il testo, ma vi assicuro che la versione musicale é davvero struggente!

    I Come And Stand At Every Door (Nazim Hikmet)
    ( http://die-augenweide.de/byrds/songi/i_come_and_stand.htm)

    I come and stand at every door
    But no one hears my silent prayer
    I knock and yet remain unseen
    For I am dead, for I am dead
    I’m only seven although I died
    in Hiroshima long ago
    I’m seven now as I was then
    When children die they do not grow
    My hair was scorched by swirling fire
    My eyes grew dim, my eyes grew blind
    Death came and turned my bones to dust
    and that was scattered by the wind
    I need no fruit, I need no rice
    I need no sweets nor even bread
    I ask for nothing for myself
    for I am dead, for I am dead
    All that I ask is that for peace
    You fight today, you fight today
    So that the children of this world
    may live and grow and laugh and play

    Copyright 1966 Tickson Music
    The Byrds “Fifth Dimension”
    Columbia Records 1966

  • Anni fa lessi “Sale e zafferano” di Kamila Shamsie: mi piacque molto e mi appuntai una frase che spesso ho utilizzato per i miei corsi di scrittura (a volte in parallelo a “Estrapolazione”, un vecchio racconto di Theodore Sturgeon).
    Eccola:
    “Ma che devo dire dei silenzi che non si possono trasformare in storie? Che dire delle virgole dimenticate che ci plasmano quanto i punti esclamativi?
    Una volta Masood mi disse: ‘Perchè quando la gente si scambia le ricette non parla mai del sale?’.
    Allora avevo riso e Masooud, stranamente offeso dal fatto che non lo prendessi sul serio, quella sera servì alla famiglia pietanze senza sale.
    ‘Cos’è?’ aveva chiesto Aba, fissando con orrore il suo piatto dopo appena un boccone: ‘Cos’è?’.
    Come l’assenza di un solo ingrediente può alterare il cibo che hai davanti. Come l’assenza di un dettaglio può alterare una storia”.
    Anche questo libro uscì da Ponte alle grazie ma io l’ho letto nell’edizione economica della Tea (lì la frase è a pagina 208 se qualcuna/o volesse appunto contestualizzarla invece che estrapolarla).
    Aggiungo che non sono un gran conoscitore della letteratura indo-pakistana (ammesso che questa definizione abbia un senso) ma pochi giorni fa mi sono divorato «Giorno di pioggia a Madras» dell’indiana – o meglio indostatunitense – Samina Ali pubblicato da edizioni e/o (384 pagine per 18 euri); presto lo recensirò su codesto blog. (db)

  • Giorgio Chelidonio

    …e a desso che ho scoperto (nella mia “beata
    (http://it.wikipedia.org/wiki/Naz%C4%B1m_Hikmet)
    la sua poesia che ho musicalmente citato mi intriga ancora di più…

  • Giorgio Chelidonio

    Chiedo scusa, ma il vecchio PC mi fa spesso scherzi digitali.
    Completo la frase: ” nella mia beata ignoranza…so di non sapere)”

    Giorgio

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