Brasile: a chiusura dei mondiali un bilancio con Julio Monteiro Martins

di David Lifodi

La mesta conclusione dei mondiali per la nazionale brasiliana, le rivolte di piazza dei movimenti sociali durante il mese della competizione sportiva, e ancora la superficialità di certa stampa italiana nei confronti del gigante dell’America Latina. Come avevamo fatto poco prima dell’avvio della Coppa del mondo, proponiamo ancora un’intervista con Julio Monteiro Martins, docente di Lingua portoghese e traduzione letteraria all’Università di Pisa e direttore della rivista culturale Sagarana (www.sagarana.net), stavolta per tracciare un primo bilancio a livello politico, sociale e (perché no?) sportivo, sull’ultima edizione dei mondiali di calcio.

 

D. In un articolo scritto all’inizio di luglio per il quotidiano messicano La Jornada, Raúl Zibechi ha parlato del saccheggio di Rio de Janeiro, evidenziando come i Giochi Panamericani del 2007, i mondiali del 2014 e le Olimpiadi del 2016 serviranno al capitale finanziario per rimodellare una delle città più belle al mondo facendo ottenere enormi profitti alle imprese e causando danni irreparabili per i più poveri. Sei d’accordo e, eventualmente, pensi che questa analisi possa essere applicata a tutto il paese adesso che si è conclusa da poco la Coppa del Mondo?

 

R – Sono d’accordo con Zibechi solo in parte (e la verità raramente è negli estremi). Penso che il capitale, non solo quello finanziario, ma soprattutto quello che il governo mette a disposizione delle compagnie responsabili per le grandi opere, sarà il grande beneficiario (però è anche vero che sono già partite le inchieste per corruzione nella costruzione degli stadi). Ma è ovvio che molti benefici, come la riduzione dell’inquinamento della Baia di Guanabara per i giochi olimpici del 2016, le nuove linee della metropolitana, le nuove strade e tunnel, e soprattutto il denaro che entra col turismo (il Mondiale ha avuto 1,1 milioni di turisti stranieri oltre la media del periodo dell’anno), e che poi è distribuito capillarmente – il turismo è tra le attività economiche che generano più occupazione – avranno ricadute positive su tutta la società. Quindi, parlare solo di “danni irreparabili per i più poveri” mi sembra decisamente tendenzioso e fuorviante. È chiaro che possono accadere ingiustizie, soprusi e conflitti di interessi, soprattutto nelle amministrazioni locali, spesso corrotte, per quello che riguarda la gentrificazione di certi quartieri e anche di alcune favelas più vicine ai quartieri ricchi o al teatro degli eventi sportivi, come Vidigal, Rocinha, Santa Marta o Chapéu Mangueira, ma questo succede oggi in tutte le metropoli del mondo, dove la gentrificazione accelera il passo. A Milano, con l’Expo, a Parigi, a Madrid e a Barcellona fino a qualche anno fa, a Chicago e all’ Upper West Side di New York, al Bronx, ad Harlem e ora pesantemente a Brooklyn. Quello che bisogna fare è contestare la concentrazione del reddito promossa dal neoliberalismo ovunque e lo scompiglio urbanistico che ne è la conseguenza, e non fissarsi solo sul caso di Rio de Janeiro, che non deve pagare per tutti.

Che la visione, secondo me miope, di Zibechi, possa essere applicata a tutto il Brasile, non credo proprio. Il Brasile è immenso e variegato, molto complesso. Uno stadio di calcio a Manaus o una nuova autostrada a Fortaleza non cambiano veramente le cose. Ciò che invece cambia veramente è l’ampio e profondo processo di inclusione sociale messo in atto negli ultimi dodici anni, l’ascensore sociale che ha portato la popolazione povera equivalente a quella dell’intera Spagna al ceto medio, oltre alla lotta contro la fame e contro la dispersione scolastica, che hanno avuto ottimo esito. Sono queste le conquiste più serie, assediate oggi dalla destra che vuole scacciare Lula e Dilma nelle elezioni di ottobre prossimo e far ritornare il Brasile alla barbarie neoliberale dura e pura, quella della Scuola di Chicago, del Consenso di Washington e della soggezione servile agli interessi statunitensi. Ma vedrai: No pasarán!

 

D. Durante lo svolgimento dei mondiali di calcio i movimenti sociali sono tornati in piazza come già avvenuto in occasione della Confederations Cup del 2013. Sui siti di controinformazione si è parlato spesso di una repressione spropositata della polizia, nonostante per le strade non sia scesa una marea umana come accaduto l’anno prima. Credi che le proteste che hanno messo al centro il diritto all’abitare, l’auto-organizzazione sociale e contestato lo stato come autorità repressiva abbiano raggiunto dei risultati concreti, siano rimaste confinate ad un fenomeno di nicchia o ancora siano state cavalcate dall’opposizione? Inoltre, cosa pensi del caso dei giovani manifestanti arrestati per le proteste di strada il 12 luglio e rilasciati soltanto il 18, a mondiali ampiamente terminati? Nel loro caso hanno funzionato quelle prigioni preventive criticate da Amnesty International e dall’Ordine degli Avvocati del Brasile. In molti hanno contestato l’attitudine repressiva dello stato brasiliano, ma, almeno per quanto mi riguarda, non allo scopo di screditare il paese, quanto perché mi aspettavo che le istituzioni fossero più aperte e tolleranti. Qual è la tua opinione?

 

R – In primo luogo, le questioni sono sempre più complesse di quelle raffigurate dalla grande stampa internazionale. Quando si parla di “repressione” bisogna ricordare che in Brasile i poteri di ciascun stato della federazione sono autonomi, per esempio per quello che riguarda la sicurezza pubblica. La polizia riceve ordini dallo stato specifico, non dal governo centrale. Così può darsi che la polizia di un certo stato dominato dalla destra possa rispondere con una violenza smisurata anche per mettere in imbarazzo il governo a Brasilia, o per mostrare agli elettori che loro al potere non ammetteranno “disordini” come, sempre secondo la destra, sembra tollerare il governo attuale. Comunque, ci sono sempre i colpi bassi della politica dietro queste decisioni. Poi, molti ordini che invitano all’uso della violenza, o di arresti come quelli recenti dei leader del movimento, sono emessi dai giudici, che fanno parte di un altro potere autonomo, quello Giudiziario: non di rado queste misure repressive sono in disaccordo con la politica del governo esecutivo, quello di Brasilia, che sembra capisca bene le ragioni degli insorti e sappia che queste misure sono inutili e controproducenti, ma non possiede gli strumenti legali per annullare una decisione di un giudice o di un magistrato. Può solo fare pressione indiretta perché la liberazione avvenga il più presto possibile, e infatti questi giovani attivisti di Rio sono stati liberati dopo pochi giorni di carcerazione attraverso l’habeas corpus. Un caso grave però, a San Paolo, è rimasto irrisolto fino a questo momento, quello dell’attivista pacifista Fábio Hideki, che la giustizia di San Paolo ancora trattiene in carcere dopo più di un mese del suo arresto.

Se i movimenti sono di nicchia? Non credo. Quelli che escono per strada per protestare magari non sono tantissimi, ma rappresentano un forte disagio generale, un’insoddisfazione con la precarietà dei servizi pubblici, un malessere diffuso, anche se forse non maggioritario. Secondo me, il movimento di protesta e le sue esigenze sono un passo in avanti nella giovane democrazia brasiliana, che in questo modo diventa più partecipativa. Quando però sfocia in vandalismo, anche se capiamo i motivi di fondo, crea una situazione delicata e difficile da gestire, perché a volte può scatenare un circolo vizioso di repressione e di sfida violenta che genera più repressione, e così via. Ma per fortuna l’aspetto violento è apparso in verità poche volte e con sempre minor virulenza (niente di paragonabile alla repressione bestiale del G8 a Genova nel 2001). Il conflitto in Brasile, infatti, era più esasperato nel 2013 che quest’anno, durante il mondiale. Forse con l’avvicinamento delle elezioni di ottobre i brasiliani si stanno rendendo conto che non è il caso di fornire proprio ora pretesti alla destra su un vassoio d’argento, poiché così facendo si rischia di fare la figura dell’ “utile idiota”.

D. Nella precedente intervista avevi detto che, in caso di vittoria brasiliana ai mondiali, Dilma Rousseff non avrebbe avuto alcun problema ad essere rieletta. Quali conseguenze potrebbe avere il mineiraço sulle presidenziali di ottobre e qual è un tuo bilancio personale a livello politico, sociale e sportivo, sui mondiali appena conclusi?

 

R – Il mondiale brasiliano, come organizzazione, partecipazione e comportamento civile verso le altre nazionali è stato esemplare, un vero successo. I tifosi brasiliani hanno addirittura applaudito in massa il 6° e il 7° gol della Germania contro un Brasile amnesico e stordito in campo, il famoso apagão della Seleção, il “black out”. In aggiunta, il mondo ha potuto vedere la bellezza dentro e fuori degli stadi, i paesaggi mozzafiato, i sorrisi costanti della gente, la gioia e l’affetto protettivo verso gli stranieri (anche verso gli argentini, chi l’avrebbe mai detto?). Cosa si può chiedere di più? I brasiliani, a mente più fredda, capiranno che è stato un grande successo, preludio dei grandi Giochi olimpici a Rio fra due anni.

Poi, sulle due sconfitte della squadra brasiliana: i brasiliani, in fondo, capiscono che un gruppo di calciatori milionari che giocano tutti all’estero in grandi club, allenati da un anacronistico, quasi rimbambito, Scolari, non potevano essere in condizione di battere le nazionali più motivate, più affiatate e praticanti di un calcio più moderno, il tic-tac spagnolo e le sue variazioni tedesche e olandesi. Dopo lo scempio fatto a Neymar, senza di lui, scioccata, sconvolta, la squadra si è disintegrata, ma non credo che, anche con lui in campo, sarebbe stata in grado di imporsi sui tedeschi. Non sarebbe stata comunque una partita facile. Pensando retrospettivamente, sembra oggi un miracolo che il Brasile abbia sconfitto nettamente la Spagna nella finale della Confederations Cup un anno fa, ma forse era già allora una Spagna stanca e in discesa, solo che ancora non si sapeva.

Quindi, sarebbe ridicolo attribuire a Dilma la sconfitta della Seleção e punirla politicamente, lei non è mica un’allenatrice di calcio (e poi, il quarto posto ottenuto non è vergognoso, anzi, farebbe invidia a molte altre nazionali). Il Brasile nel 2014 è arrivato davanti alla Spagna, all’Italia, all’Inghilterra, all’Uruguay, al Belgio e alla Colombia, squadre sorprendenti e spettacolari. È poco? Purtroppo sì, per i brasiliani è niente, mal abituati come sono ad arrivare in primi.

Penso che, se astraiamo la delusione del risultato per i tifosi del Brasile, il mondiale brasiliano, alla fine, ha confermato l’appellativo di “mondiale dei mondiali”, e difficilmente quello in Russia e quello in Qatar  supereranno ciò che i brasiliani sono riusciti a realizzare. Per quello che mi riguarda, ho visto tutti i mondiali dal 1962 in Cile in poi, e non mi ricordo di nessuno più bello di questo.

 

D. In Italia, come hai fatto notare nel corso del nostro scambio d’impressioni via mail durante il campionato del mondo, è emerso che il Brasile non è rimasto particolarmente simpatico ai tifosi italiani, che in maggioranza hanno tifato contro la Seleção. Come ti spieghi questa acredine verso il tuo paese? Gran parte dei servizi dedicati al Brasile su giornali e tv sono stati all’insegna di un’estrema superficialità sfociata spesso in aperto razzismo e in un atteggiamento rimasto legato all’epoca coloniale. Buona parte dei media italiani si sono occupati del tuo paese con un atteggiamento quantomeno irritante: ad esempio, hanno calcato la mano sulle criticità degli stadi, quando tutti sappiamo in quali condizioni versano buona parte degli impianti italiani. Pensi che dalla mediocrità della stampa italiana si possa salvare qualcuno, ad esempio i reportages di Ivan Grozny sul manifesto?

 

R – All’inizio credevo si trattasse di un’indisposizione squisitamente calcistica, motivata forse dalle cinque stelle sulla maglietta brasiliana o dall’uscita prematura dell’Italia dal mondiale. Tuttavia, considerando che tutti i brasiliani hanno tifato Italia come la loro seconda squadra del cuore, che la nazionale italiana è stata ricevuta ovunque come dei semidei, e che a Manaus addirittura gli indios sono andati al nuovo stadio, vestiti a tema, per tifare Italia contro l’Inghilterra, ho trovato strano che al contempo gli italiani tifassero entusiasticamente contro il Brasile qualunque fosse l’avversario di turno, la Croazia, il Cile, la Colombia e persino la Germania! Come spiegarlo? Un caso di ingratitudine collettiva? O cosa?

Più tardi, riflettendo sull’atteggiamento della stampa italiana negli ultimi anni riguardo al Brasile, spesso sprezzante e arrogante, pronta sempre a sottolineare gli eventi grotteschi, i pericoli, e ad esagerare i problemi (ricordiamo che nelle settimane precedenti al suo inizio il mondiale brasiliano era già considerato dalla stampa italiana una catastrofe consumata, un disastro irrimediabile), mentre allo stesso tempo ometteva i successi, gli sviluppi scientifici, letterari, economici e politici, ossia i passi da gigante che il paese compiva, ho capito che ero davanti a un astio molto più profondo e radicato. Non è facile però capire il perché. Forse perché quel Brasile del passato, sul quale si sono coagulati gli attuali stereotipi, il Brasile delle giovanissime prostitute e delle donne povere da sposare per italiani non corrisposti dalle “donne dei paesi loro” (ma che qualche bue erano riusciti a racimolare), il Brasile dove i criminali di guerra o di mafia in fuga diventavano invisibili per sempre, il Brasile dove tutto costava niente, il Brasile guardato dall’alto in basso, quasi una colonia con molteplici padroni, quel Brasile non esiste più. E meno male che ha cambiato, era ora! Così, la terra di nessuno è diventata un concorrente per l’Italia (ma anche un grande mercato potenziale per i suoi prodotti), ha superato il PIL italiano e come “cliente ricco” e sempre più influente nella politica internazionale, dovrebbe essere trattato con deferenza e rispetto. Non sarà forse che questa metamorfosi, che prende una distanza colossale dai vecchi stereotipi, non va ancora giù a molti italiani? Soprattutto se in coincidenza con la stagnazione e il crollo dell’autostima degli italiani? Un po’ come se avessero “perduto per sempre” il Brasile che conoscevano, un “territorio di caccia” in tutti i sensi, e dovessero ancora elaborare il lutto?

Quel che so è che la sera in cui sono andato in un pub per guardare la partita e ho visto che l’unico che tifava per il Brasile ero io mentre il resto della folla ammassata davanti alla tv tifava con ardore per l’avversario, mi sono sentito fortemente a disagio. Si trattava di qualcosa mai vista, bizzarra, incomprensibile.

 

D. A livello strettamente sportivo, ti aspettavi  una caduta così fragorosa della Seleção? Almeno personalmente, credo che la squadra sia stata sopravvalutata, ma, aldilà di questo, nel corso dell’intera competizione la Fifa ha mostrato ancora una volta il suo lato peggiore, vedi la squalifica “interessata” comminata a Thiago Silva?

 

R – Sulla nazionale credo di aver già risposto quando ho parlato di calciatori racimolati insieme alla rinfusa, ormai collegati anche emotivamente ai loro club europei, Borussia Dortmund, Manchester o Barcellona, ma anche a squadre più distanti, come a Mosca, a Toronto o a Istanbul. Sono ragazzi ricchi, viziati, narcisisti come qualsiasi giovane catapultato alla galleria delle celebrità mondiali. Poi, il loro allenatore, Luiz Felipe Scolari, già un po’ rimbambito, sembrava un vecchio sergente a voler fare la guerra come a Verdun o alla Somme, nelle trincee, a colpi di baionette. Pensa a Hulk o a Maicon… . Contro la Germania sembrava la carica della brigata leggera falciata dalle moderne mitragliatrici nemiche. Poi, quel suo “consigliere”, l’eminenza grigia, Carlos Alberto Parreira, è un uomo riciclato dai tempi bui della dittatura militare, della quale è stato un volenteroso collaboratore. Ma credi che il Brasile potesse vincere questo mondiale in queste condizioni? Non potevano e, anzi, non lo dovevano vincere. Sarà meglio per il calcio brasiliano e per il Brasile in generale che non l’abbia vinto il Brasile, ma ci vorrà ancora un bel po’ di tempo perché si realizzino i cambiamenti necessari. Per ora, niente. Il mister scelto per sostituire Scolari, Dunga, che gli italiani conoscono bene, è un fautore della forza fisica nel calcio, un entusiasta del “catenaccio”, un difensivista, un retranqueiro, in buon portoghese. Per ora non è cambiato niente. Per farlo, bisogna mandare via tutti quello dello staff del Presidente della Confederazione (CBF), lo stesso Marin che quando governatore di São Paulo collaborava attivamente con la repressione brutale compiuta dai militari. Sono individui che almeno da 40 anni sono seduti nelle poltrone del potere, prima repressivo, poi calcistico, nonostante il Brasile sia guidato da Dilma Roussef, ex-guerrigliera: un po’ come i fascisti in Italia dopo il 1945, che occupavano molte cariche di alto livello nei governi successivi. Però, so che il governo brasiliano ha il progetto di spodestare questi vecchi collaborazionisti, soprattutto se Dilma sarà rieletta a ottobre. Già pochi giorni fa, Dilma ha convocato a palazzo i presidenti di tutti i grandi club e ha detto loro chiaro e tondo che le loro finanze interne saranno più controllate dallo Stato d’ora in poi, e che cosa pretende per il futuro del calcio brasiliano, in primo luogo che i club trovino un modo di tenere in Brasile i migliori calciatori e di investire nelle categorie giovanili.

Tornando all’ultimo mondiale, è vero che quella squadra è stata impostata come “Neymar-dipendente”. La squadra difendeva come poteva, poi passava la palla al suo “fenomeno” e lui doveva fare i gol. Magari tutti i gol. La cosa è andata bene fino a quando un difensore colombiano non gli ha rotto parte di una vertebra con il ginocchio (qualcuno in Brasile sospetta di un “ordine” interno in questa direzione della FIFA al suo carnefice e all’arbitro, con lo scopo di annientare gli ostacoli a una prevedibile vittoria della Germania). Chissà se Blatter non voleva lasciarla in eredità ai suoi compaesani, prima di congedarsi in definitivo? Così, senza Neymar in campo, e scioccati dalla violenza del colpo e della gravità dello stato della loro stella, la Seleção si era persa, brancolava nel buio, nessuno aveva più una posizione in campo, e mentre Scolari era apatico e silenzioso sulla panchina, i calciatori brasiliani piangevano e si disperavano, mentre i gol tedeschi entravano uno dopo l’altro, meccanicamente, spietatamente.

E poi, tutto quel pianto dirotto, straziante, già presente quando cantavano l’inno, e poi in abbondanza dopo la partita contro il Cile, voleva dire una sola cosa: che loro sapevano di non poter farcela, che erano già arrivati al loro limite e oltre, con le risorse che avevano, e che non sarebbe stato possibile evitare di deludere i brasiliani prima o poi, che da loro si aspettavano un miracolo senza la consapevolezza che di un miracolo si trattava, anzi, dando per scontato e naturale arrivare primi per vendicare l’oltraggio di 1950.

Quanto al caso Thiago Silva: può darsi che sia stata, come dici, un’espulsione “su misura” per favorire la Germania nella partita successiva, ma può anche darsi, come sostiene qualcuno in Brasile, che lui abbia commesso apposta quel fallo stupido e infantile proprio per non dover giocare quella che immaginava sarebbe stata “la partita fatale”. Nella partita precedente, contro il Cile, aveva già dato segno di scarso coraggio quando, piangendo, chiese di essere l’ultimo sulla lista per battere i rigori. Penso che non sapremo mai cos’è successo quella sera, dato che non possiamo muovere un processo alle presunte intenzioni di qualcuno.

Sui tedeschi però ho un commento da fare. La Germania deve imparare a vincere senza lasciare l’impressione sgradevole di manifestare un tripudio prepotente, senza sghignazzi arroganti, a volte quasi sadici, com’è successo diverse volte in Brasile davanti alle telecamere. Sono comportamenti che portano pessimi ricordi di ferite aperte e doloranti per tutti i non tedeschi del pianeta. Per esempio, quel Mueller, che fa gol, ma per tutto il resto mi sembra un deficiente, uno che si esprime attraverso urla isteriche, usando la bella lingua tedesca come il ringhiare di un cane rabbioso. Contro un atterrito difensore del Portogallo ha spaventato i telespettatori di mezzo mondo con le sue urla, e all’indomani del mondiale, l’ho visto rispondere a un’incauta giornalista dell’Honduras che gli faceva una domanda in un inglese stentato, urlandogli contro una sequenza di insulti e parolacce in tedesco mentre il suo compagno Schweinsteiger rideva a crepapelle accanto a lui. Uno spettacolo squallido e brutale dei campioni del mondo. Pensavo quante volte quelle urla ritorneranno in futuro negli incubi di quella ragazza. Cari tedeschi, per gentilezza, non fateci credere un’altra volta che nel vostro caso carattere sia destino.

 

D. Socrates è stato uno tra i calciatori più critici del sistema calcio brasiliano, sostenendo che è sempre rimasto sotto la gestione di loschi faccendieri e personaggi legati alla destra radicale nonostante l’avvento del Pt al Planalto. Pensi che l’eliminazione inaspettata in semifinale potrebbe rappresentare, per Dilma Rousseff, l’occasione giusta per fare pulizia e, secondo te, se lo aspettano anche tutti quei brasiliani che si riconoscono nei valori progressisti, oppure la casta della CBF (la federazione calcistica brasiliana) è dura da abbattere?

 

R – È durissima da abbattere, infatti. Questi uomini gestiscono politicamente una matassa di interessi locali dei grandi, piccoli e piccolissimi club, tutti con una manciata o una tonnellata di voti da offrire a chi si intromette meno nei loro affaracci. Il Partito dei Lavoratori, di Dilma e Lula, sempre più minacciato da una destra sempre più aggressiva, non può certamente permettersi il lusso, peraltro rischioso, di scontentare questa marea di elettori che si sentono rappresentati da questi farabutti. Così, il calcio brasiliano è un serpente che si mangia la coda, e forse così facendo finirà per restare lontano dai podi. Il calcio si risente di queste deformazioni a tutti i livelli. Per esempio, il pubblico che assiste alle partite del Brasileirão, lo scudetto brasiliano, è oggi così ridotto che i calciatori in campo rispondono personalmente al tifoso che gli grida insulti dalle tribune. Le ragione di questa disaffezione? Sono chiare. La principale è che tutti i talenti, anche bambini di dieci anni, sono comprati da squadre straniere e portati via dal paese. Rimangono qui i cosiddetti perna-de pau (gamba di legno) in attacco e i cabeça-de-bagre (testa di pesce) in difesa, che nessuno all’estero vuole.

Perché poco fa ho detto che perdere il mondiale in casa non può che fare bene al Brasile? Secondo me, l’identificazione del paese con la sua nazionale di calcio, “la patria in scarpette” come diceva il drammaturgo Nelson Rodrigues, crea un’inversione di valori, e diventa una forma nociva di alienazione. Il Brasile ha bisogno di meno fenomeni e più premi Nobel. Con la sola calciomania, la gratificazione e le aspettative che offre, non sarà possibile fare il salto di qualità di cui i brasiliani hanno tanto bisogno. Il calcio è sì divertimento e arte, uno sport coinvolgente, sfida pacifica tra le nazioni, ma non può diventare l’apice dell’esperienza umana, la sua realizzazione finale. Ogni gol preso è vissuto come il crollo della volta celeste.

Socchiudere per un tempo la porta di un calcio deluso può servire ad aprire tante altre porte.

 

Julio Monteiro Martins nasce nel 1955 a Niterói, nello stato di Rio de Janeiro (Brasile). Si dedica alla scrittura fin da ragazzo e già nel 1976 pubblica i primi racconti. Nel 1979 partecipa allo International Writing Program della University of Iowa (USA), ricevendo il titolo di Honorary Fellow in Writing, e per un anno insegna scrittura creativa al Goddard College (Vermont, USA). Continua poi l’insegnamento presso la Oficina Literária Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), dal 1982 al 1989, e in seguito in Portogallo, presso l’Instituto Camões di Lisbona (1994) e presso la Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (1995). Dal 1996 insegna all’Università di Pisa, dove attualmente tiene il corso di Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria. Dirige inoltre il Laboratorio di Narrativa del Master di Scrittura Creativa, presso la Scuola Sagarana di Lucca. È fondatore e direttore della rivista culturale Sagarana (www.sagarana.net).

All’attività di scrittore e docente affianca un impegno attivo in campo politico e sociale. Nel 1983 è uno dei fondatori del del Partido Verde brasiliano, e successivamente, nel 1986, del movimento ambientalista brasiliano “Os verdes”. Nel 1991, avendo affrontato studi universitari di indirizzo giuridico, è avvocato dei diritti umani per il Centro Brasileiro de Defesa dos Direitos da Criança e do Adolescente (ONG), occupandosi in particolare dell’incolumità dei meninos de rua chiamati a testimoniare in tribunale, in seguito all’orrenda strage della Chacina da Candelária, nella quale una squadra di poliziotti in borghese uccise nel sonno a colpi di mitra bambini abbandonati che dormivano in strada a Rio de Janeiro.

La produzione letteraria di Julio Monteiro Martins comprende numerose opere sia in portoghese brasiliano sia in italiano, essendo quest’ultima la lingua attualmente preferita dall’autore. Pur prediligendo la forma narrativa, Monteiro Martins ha pubblicato anche poesie e pièce teatrali. Da alcune sue opere sono state tratte sceneggiature di cortometraggi. Di seguito i principali titoli.

In portoghese: Torpalium (racconti, Ática, São Paulo, 1977), Sabe quem dançou? (racconti, Codecri, Rio, 1978) Artérias e becos (romanzo, Summus, São Paulo, 1978), Bárbara (romanzo, Codecri, Rio, 1979), A oeste de nada (racconti, Civilização Brasileira, Rio, 1981), As forças desarmadas (racconti, Anima, Rio, 1983), O livro das Diretas (saggi politici, Anima, Rio, 1984), Muamba (racconti, Anima, Rio, 1985) e O espaço imaginário (romanzo, Anima, Rio, 1987); suoi lavori sono inoltre apparsi in numerose antologie.

In italiano: Il percorso dell’idea (poesie, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1998), Racconti italiani (Besa Editrice, Lecce, 2000), La passione del vuoto (Besa, Lecce, 2003 ), Madrelingua (romanzo, Besa, Lecce, 2005) e L’amore scritto (racconti, Besa, Lecce, 2007); ricordiamo infine la partecipazione, assieme ad Antonio Tabucchi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Erri de Luca e Gianni Vattimo, all’opera collettiva Non siamo in vendita – voci contro il regime (a cura di Stefania Scateni e Beppe Sebaste, prefazione di Furio Colombo, Arcana Libri / L’Unità, Roma, 2002). Nel 2011 è stata pubblicata la monografia sulla sua opera Un mare così ampio: I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, di Rosanna Morace, per la Libertà edizioni, di Lucca. Nel dicembre 2013 è stata pubblicata la sua raccolta poetica “La grazia di casa mia” (Milano, Rediviva).

 

 

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