Brasile: democrazia o catastrofe

A pochi giorni dal ballottaggio del 28 ottobre, un’analisi – con quattro interviste – pubblicata da Micromega a ridosso del primo turno delle presidenziali con una riflessione di Aldo Zanchetta sull’ampio vantaggio di Jair Bolsonaro su Fernando Haddad.

Brasile 2018: la politica economica nelle elezioni presidenziali

di Andrea Califano (*)
Dopo 13 anni di governo del Partito dei Lavoratori (PT), simbolicamente conclusi dai Mondiali di calcio e dalle Olimpiadi, gli ultimi due anni hanno visto approfondirsi la crisi economica e istituzionale: nel 2016 si è insediato il governo Temer, a seguito del “golpe istituzionale” ai danni di Dilma Rousseff, mentre solo pochi mesi fa è stato incarcerato l’ex presidente Lula (2003-2011): sarebbe stato candidato – largamente favorito nei sondaggi – per le prossime elezioni, che si svolgeranno il 7 ottobre. Il sostituto di Lula (Fernando Haddad) non gode dello stesso sostegno, e i sondaggi restituiscono un quadro completamente rovesciato: il favorito diventa infatti l’ex militare Bolsonaro, già soprannominato “Trump brasiliano”, e dalle posizioni ancor più marcatamente conservatrici e bellicistiche del presidente americano.
In questa cornice, i principali candidati “di sinistra” presentano programmi segnati da forti divergenze, in particolare sul fronte della politica economica; la radice di molte divergenze sta nel giudizio che tali candidati danno sugli anni di governo del PT. La posta in gioco è estremamente alta e l’intervista si conclude con un quadro a tinte decisamente fosche: al momento non si può nemmeno dare per scontato che ci sia una fuoriuscita pacifica da questa situazione di grave crisi economica e istituzionale; non a caso, negli ultimi mesi è esplosa la violenza in alcune città e alcune regioni del Paese, e la presenza dell’esercito tra le strade è ormai sempre più massiccia.
Anche in Brasile sembra matura la possibilità di un terremoto politico paragonabile a quello avvenuto negli Stati Uniti con l’elezione di Trump, o in Europa con, ad esempio, la Brexit prima, le elezioni francesi e quelle italiane poi. Simile è il discredito in cui versano le istituzioni, comparabile il peggioramento negli standard di vita, simili i tagli ai servizi pubblici e la crisi del welfare state; ancor più esacerbato, infine, il livello del conflitto politico. Per questo, in un certo senso, queste elezioni brasiliane parlano anche di noi, se non altro perché parte di un processo globale che ha investito anche il nostro continente e il nostro Paese.

Abbiamo intervistato Laura Carvalho, professoressa di economia all’Università di San Paolo, che ha collaborato alla stesura della parte economica del programma di Guillerme Boulos del Partito Socialismo e Libertà (PSOL) (pur non essendo ad esso organica e quindi non prendendo parte alla campagna elettorale); Nelson Marconi, professore di economia alla Fondazione Getulio Vargas, coordinatore del programma di Ciro Gomez del Partito Democratico Laburista (PDT); Marcio Pochmann, professore di economia alla Università di Campinas, candidato parlamentare per il Partito dei Lavoratori (PT) e uno dei tre coordinatori del programma del candidato presidente Fernando Haddad. Le interviste sono state condotte a San Paolo, nei giorni 25 e 27 settembre 2018, con l’aiuto di Carolina Amadeo, Nicolò Giangrande e Pedro Franceschini; il testo che segue non riporta necessariamente le esatte parole degli intervistati, se non altro perché le conversazioni sono avvenute in inglese (LC) e in portoghese (NM e MP).

Le responsabilità della crisi.

Per iniziare, pensa che sia stato giusto impedire la candidatura dell’ex-presidente Lula? Fino a che punto pensa che la forte opposizione nei confronti di Lula da parte delle élites del paese, e quindi la sua incarcerazione, siano da ricondursi alle politiche economiche adottate nei 13 anni di governo del PT?

Laura Carvalho – No, è illegale e così la pensa la maggior parte della società brasiliana: è possibile che abbia commesso crimini, e il PT ha sicuramente un rapporto promiscuo con imprese di costruzioni e con altri grandi gruppi economici del Paese, ma avrebbe dovuto essere il voto democratico a decidere se punire questa commistione. D’altra parte, il PT è un partito dell’establishment, ha governato per 13 degli ultimi 15 anni, nonostante adesso sia proprio questa persecuzione giuridica a renderlo anti-establishment: paradossalmente, più le élites si scagliano contro Lula, più cresce il consenso nei suoi e nei confronti del PT. Inoltre, credo che la persecuzione non sia dovuta alle politiche economiche del governo Lula, durante il quale i più ricchi hanno mantenuto la loro quota di ricchezza del Paese; deriva invece da motivi sociologici: c’è un elemento della lotta di classe che va al di là della sfera economica.

Nelson Marconi – Il processo è stato ingiusto e basato su prove insufficienti, ma adesso che è stato incriminato è giusto che non si candidi. La pretesa di Lula di essere comunque candidato e l’aver rinunciato solo all’ultimo ha contribuito all’estrema polarizzazione nel paese, e a far sì che ora chi vuole andare contro il PT sia disposto a votare un pazzo fascista. Lula riassume in sé questa tendenza del PT a voler rimanere al potere a qualunque costo, canalizzando contro il solo Partito dei Lavoratori la campagna della stampa contro la classe politica – in corso da anni. Ciro sfugge a questa pericolosa polarizzazione, proponendo un’alternativa di centrosinistra che non è il PT, ma non è nemmeno necessariamente anti-PT.

Marcio Pochmann – Questo è il secondo golpe che il PT subisce in 3 anni, ma arriviamo comunque alle elezioni, con un programma e un candidato forti: la preparazione inizia all’indomani del golpe contro Dilma, quando la Fondazione Perseu Abramo [centro studi del partito, n.d.r.] istituisce una commissione per valutare in maniera critica i 13 anni di governo del PT: l’analisi è poi sfociata in due pubblicazioni. Nel 2017 inizia la seconda fase, di ascolto della società brasiliana: è il periodo delle “carovane” di Lula, che hanno girato il Paese per capire a fondo una società che era completamente diversa dagli inizi del XXI secolo, quando il PT andò al governo per la prima volta. Infine, nel 2018, si è insediata una commissione, incaricata di tirare le fila, coordinata da 3 persone, tra le quali io e Haddad, l’attuale candidato alla presidenza. L’idea è che nel corso del prossimo mandato il PT prosegua l’opera di trasformazione della società, facendo le cose che non è riuscito ancora a fare e continuando a tutelare gli interessi di tutti: infatti, con i nostri governi, se i più poveri hanno visto le loro condizioni migliorare più rapidamente, questo non vuol dire che i più ricchi non abbiano guadagnato, tutt’altro. Il punto chiave è che l’élite non può tollerare che anche i più poveri stiano meglio: i sondaggi elettorali mostrano che la percentuale di rifiuto per il PT [in Brasile vige un sistema maggioritario a doppio turno, per cui è molto importante quanto un candidato è “non avversato” dalla popolazione, in modo che al ballottaggio possa riscuotere più consensi rispetto alla cerchia dei suoi sostenitori, n.d.r.] cresce con il crescere del salario; tra coloro che percepiscono fino a 2 volte il salario minimo, chi avversa il PT è una percentuale largamente minoritaria.

Qual è la sua interpretazione delle cause della crisi economica che il Paese sta attraversando?

LC – Studi econometrici confermano la percezione che sia dovuta per il 50% a fattori esterni (spicca il crollo dei prezzi delle materie prime), per il 50% a scelte dei governi brasiliani. Ci sono fondamentalmente due interpretazioni della componente interna: per gli economisti ortodossi, la causa è un eccesso di spesa pubblica e di intervento dello Stato nell’economia. Io ritengo che sia da ricercarsi nell’agenda alla base delle politiche economiche dei governi del PT: gli investimenti hanno puntato solo a un rilancio della manifattura, la cui gestione è stata delegata interamente ai gruppi privati ancora attivi nel settore. Questi hanno chiesto che il governo promuovesse una riduzione dei costi di produzione, e così è stato fatto, in particolare con sgravi fiscali: naturalmente, gli sgravi fiscali non sono serviti a niente quando ha rallentato la domanda aggregata. Inoltre, queste esenzioni fiscali, e le conseguenti minori entrate di bilancio, hanno portato acqua al mulino dei sostenitori delle politiche di austerity: il terreno era fertile per quanto fatto dal governo Temer, le cui politiche fiscali e monetarie restrittive hanno dato un grosso contributo all’aggravarsi della crisi economica, in un preoccupante circolo vizioso: ad esempio, mentre si alzavano i tassi di interesse, cresceva anche l’inflazione, perché nello stesso momento veniva abolito il calmiere sui prezzi dell’energia. In realtà, già una frattura si era verificata nel corso dei governi PT, con il passaggio da Lula a Dilma: quando era presidente Lula, gli investimenti pubblici crescevano del 25% all’anno; con Dilma si passò a una media inferiore all’1%, quando, a partire dal 2011, il governo ha sposato la teoria dello “sgocciolamento” (trickle down economics): favorire i profitti del settore imprenditoriale privato immaginando poi che il reddito arrivi per sgocciolamento anche alla classe media e infine ai poveri.

NM – Il problema principale del Brasile è la tendenza alla primarizzazione dell’economia e alla regressione del tessuto industriale, che porta tra le altre cose alla creazione di impiego di bassa qualità. Si tratta dell’esito di una lunga serie di politiche economiche sbagliate, a partire dal governo di Fernando Henrique Cardoso che ha preceduto quelli di Lula, e durante il quale si è affermata questa prassi di sopravvalutare il tasso di cambio e alzare i tassi di interesse per controllare l’inflazione e attrarre capitali esteri, poi mantenuta da Lula. Solo Dilma, alla fine, ha tentato di invertire la tendenza, ma compiendo dei grossi errori poi portati all’estremo da Temer. La politica industriale del PT è stata tradizionalmente compensatoria: sussidi alle imprese per compensare la perdita di profitto dovuta ad un tasso di cambio che ostacolava le esportazioni e a tassi alti che alzavano il costo di finanziamento. Ma non è con i sussidi che si risolvono gli squilibri macroeconomici. La questione è che finché l’economia mondiale era in crescita, il Brasile riusciva a esportare anche con il cambio sopravvalutato, mentre le importazioni erano gonfiate artificialmente; con la crisi economica globale, le esportazioni sono crollate, mentre le importazioni sono rimaste alte. Così, oltre ai problemi di bilancia dei pagamenti, il settore industriale è stato fortemente penalizzato, e i profitti diminuivano ancora di più per il controllo statale sui prezzi dell’energia e per i salari che aumentavano più della produttività. In tutto questo, allo stesso momento, la situazione fiscale peggiorava. Nel 2015 Dilma prova a cambiare rotta: accompagna un ulteriore rialzo dei tassi a una svalutazione del real e alla cancellazione di molti sussidi. Tutto però viene fatto contemporaneamente, causando una vera e propria tempesta economica. Il successivo intervento di Temer è basato esclusivamente sul tentativo di recuperare la fiducia dei mercati, impegnandosi a tenere i tassi alti, puntando a un apprezzamento del real e scatenando una crisi ancora più profonda: imprese e famiglie si indebitano, sale la disoccupazione.

MP – La crisi economica è frutto di una crisi politica, di un problema irrisolto del 2014: in quell’anno, l’elezione della presidente Dilma non viene accettata da alcune forze politiche, il risultato democratico non viene riconosciuto. La presidente è debole e sotto ricatto, dovendosi garantire l’appoggio di 22 partiti per poter governare. È addirittura il vice presidente Temer a promuovere il golpe e a prendere il posto di Dilma, e in quel frangente si rivela palese la natura politica della crisi, nonostante i media insistano con la favola della crisi fiscale: l’agenda economica diventa quindi apertamente quella che era stata sconfitta nelle quattro tornate elettorali precedenti. Da quel momento abbiamo vissuto importanti sconfitte: prima abbiamo gridato al golpe contro Dilma, e il golpe si è istituzionalizzato; poi abbiamo detto “fora Temer!” [lo slogan più diffuso contro l’attuale Presidente, n.d.r.] e Temer è rimasto; infine, abbiamo fatto di tutto perché Lula potesse candidarsi, e Lula è finito in prigione. Questa serie di momenti critici hanno segnato la scomparsa del centro politico, e adesso la competizione politica è tra due forze anti-sistema: Bolsonaro e il PT. In che senso il PT è anti-sistema? Intanto perché la nostra insistenza sulla candidatura di Lula mette in discussione la legalità del sistema giudiziario, poi perché, conseguentemente, chiediamo, e promuoveremo dopo le elezioni, l’istituzione di una grande Assemblea Nazionale Costituente.

A partire dal golpe istituzionale che ha deposto la presidente Dilma Rousseff, l’agenda economica che è stata applicata assomiglia molto alle politiche di austerità portate avanti in Europa nel corso della crisi: svalutazione salariale (attraverso la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro), tagli al bilancio pubblico (sanità, educazione e investimenti); l’emendamento che ha incluso nella costituzione un tetto alle spese dello Stato sociale ha un parallelo nell’inserimento del Fiscal compact in alcune costituzioni europee. Il Paese non è però tornato a crescere, mentre gli effetti dei tagli si fanno sentire. La domanda è la stessa che ci si fa in Europa: troppa austerità, o troppo poca? Qual è la via d’uscita dalla crisi?

LC – Il dibattito sulla riduzione dei costi del lavoro è lo stesso in tutto il mondo perché la globalizzazione ha ridotto i margini di autonomia di ogni governo: guardando all’America Latina, gli strumenti degli anni ’70-’80, usati nel contesto delle politiche di industrializzazione attraverso la riduzione delle importazioni, non sono più a disposizione. Quello che rimane allora è la svalutazione del tasso di cambio e la riduzione del costo del lavoro: mentre la prima è in apparenza una politica progressista, sono in realtà due facce della stessa medaglia, tant’è che le élites hanno promosso il golpe contro Dilma per passare dall’una all’altra. Prima sono stati favoriti dalle politiche valutarie, poi sono passati al costo del lavoro. Lo stesso vale per le proposte di Temer per il sistema pensionistico, che lo renderebbero ancora più insostenibile, sia socialmente che economicamente: i contratti prevedono sempre meno contributi, e occorrerebbe portare per tutti l’età pensionistica a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. Adesso invece i ricchi, che lavorano nel settore formale, vanno in pensione con 25 anni di contributi, anche a 50-55 anni. Invece di correggere questa distorsione, Temer propone di richiedere a tutti 25 anni di contributi: la stragrande maggioranza dei lavoratori – che adesso a 60 (o 65) anni ha diritto alla pensione – non potrebbe andare in pensione mai, dato che lavora tutta la vita per lo più nel settore informale dell’economia. In Brasile come in Europa bisogna invertire questa logica.

NM – Temer ha introdotto un tetto costituzionale alle spese che prevede una riduzione della spesa attraverso l’inflazione (ovvero, la spesa in termini nominali rimane la stessa di anno in anno) [la misura è simile a quella che la lista Più Europa aveva inserito in programma per le ultime elezioni italiane, n.d.r.], ottenendo così una complessiva riduzione del peso dello Stato rispetto all’economia del Paese. Il tetto dovrebbe essere invece vincolato alla crescita del PIL pro capite! Un altro errore che ha commesso è quello di aver lasciato la riforma previdenziale per ultima, senza poi riuscire ad approvarla: il sistema previdenziale continua così a mettere pressione sul bilancio pubblico e, dato il vincolo alla spesa pubblica, costringe a tagli massicci al welfare state. La riforma della previdenza doveva essere il primo passo – e, naturalmente, doveva essere disegnata in modo diverso. Noi abbiamo in mente di introdurre un reddito di base per i pensionati, distinguendo però nettamente tra ciò che è previdenza e ciò che è assistenza: la prima deve tendere a una sostenibilità propria, e questo può essere fatto solo ampliando il sistema a capitalizzazione. In particolare, il sistema a ripartizione deve rimanere in vigore fino a un certo livello di reddito pensionistico; la quota di reddito superiore deve derivare dalla capitalizzazione. Anche sulla riforma del lavoro abbiamo forti critiche, seppur non pensiamo si debba tornare al modello precedente: la modernizzazione deve avvenire introducendo differenti livelli di contrattazione: nazionale, settoriale, locale, interna alle imprese…

MP – C’è un pensiero unico dominante che afferma che il problema del Brasile sia di natura fiscale. I partiti devono prendere posizione su questo, e noi pensiamo che la questione fiscale sia un effetto, non una causa, conseguenza di 5 anni senza crescita economica. Quindi, la priorità è la crescita, e ora è possibile stimolare la crescita presto e facilmente: la situazione non è la stessa di quando Lula salì al potere, quando c’erano tassi d’interesse alti, alta inflazione e non c’erano riserve internazionali: Lula dovette muoversi in accordo con il Fondo Monetario Internazionale. Adesso possiamo invece proporre un massiccio programma di finanziamento degli investimenti basato sulle ingenti riserve internazionali detenute dalla Banca Centrale. Rispetto al governo Temer, sono molte le cose che vogliamo cambiare: intanto riteniamo che non sia opportuno parlare di “mercato del lavoro”, si dovrebbe fare riferimento a “mondo del lavoro”: non è una questione di domanda e offerta, ma sempre più di lavori atipici, veri o presunti lavoratori autonomi, etc. Proponiamo quindi un nuovo statuto del lavoro, che vada in direzione contraria alla precarizzazione voluta da Temer, che tra l’altro rende più insostenibile il sistema pensionistico. Anche qui, un chiarimento è opportuno: per noi la previdenza rientra in realtà nella sicurezza sociale, è giusto che sia finanziata dallo Stato, se crediamo in un approccio universale: dalla nascita alla morte, il cittadino ha diritto ad una vita dignitosa. Quindi, non bisogna guardare alla previdenza isolatamente, l’orizzonte è globale: chi vuole spacchettare in diverse aree i diritti dei cittadini, in realtà ha in mente di smantellarli poco a poco. La previdenza, così come le altre forme di sicurezza sociale, non va guardata dal lato fiscale, ma dal lato delle disuguaglianze.

Un altro parallelo con quanto successo in Europa, soprattutto in paesi come Grecia, Irlanda e Italia, riguarda la crescita del debito pubblico durante e dopo il governo Dilma. In qualità di consulente economico, spingerà il prossimo presidente a combattere questa tendenza?

LC – Gli anni di rapida crescita del debito pubblico sono stati solo gli ultimi 4 (tre dei quali con le politiche di austerità del governo Temer). Ma si tratta di un falso problema, in quanto la gran parte del debito è detenuto da brasiliani; questo implica per altro che il deprezzamento e l’inflazione degli ultimi mesi aumentano il valore delle ingenti riserve della banca centrale brasiliana, riducendo il valore dello stock di debito. Il problema del debito pubblico è solo ed esclusivamente un problema distributivo: gli alti tassi d’interesse implicano una forte redistribuzione di ricchezza dalla fiscalità generale ai ricchi investitori; per questo credo che sia opportuna una riduzione del debito quando il Paese tornerà a crescere. Nel programma di Boulos, questo avverrà alzando le tasse per i più ricchi: c’è un grandissimo margine per aumentare le tasse per i più ricchi, sono ridicolmente basse rispetto agli altri Paesi che nel mondo prevedono un sistema sanitario e un’educazione universale. Non proponiamo livelli scandinavi, ma almeno di portarle al livello degli Stati Uniti! Con la Costituzione del 1988 venne presa l’importante decisione democratica di associare il Brasile ai Paesi con welfare state avanzato, e la proposta del PSOL è l’unica conseguente con questo obiettivo: mentre gli altri partiti propongono riforme fiscali a saldo nullo, noi abbiamo calcolato che le entrate fiscali crescerebbero del 2% con la nostra riforma. Questo porterebbe per altro a un surplus nel bilancio pubblico, liberando risorse per la crescita e risolvendo immediatamente il falso problema del debito pubblico.

NM – Il Paese ha bisogno di un consolidamento fiscale, che è la nostra priorità, e questo potrà avvenire solo attraverso un aumento delle entrate e una riduzione della spesa. Il nostro programma prevede le seguenti misure di consolidamento del bilancio pubblico: introdurre tasse su rendite finanziarie e dividendi di persone fisiche, dalle quali contiamo di ricavare circa 50 miliardi di real [10,8 miliardi di €, n.d.r.]; alzare l’imposta di successione dal 4% al 20% (40 miliardi di real [8,6 miliardi di €]); ridurre per 50 miliardi di real i sussidi alle imprese [10,8 miliardi di €]; infine tagliare gli sprechi della pubblica amministrazione per 30 miliardi di real [6,5 miliardi di €]. A fronte di queste maggiori entrate, o risparmi, per 170 miliardi complessivi [36,6 miliardi di €], prevediamo un minor gettito solo per la riduzione delle imposte sui redditi d’impresa, per soli10 miliardi di real [2,2 miliardi di €]. In materia tributaria, occorre inoltre semplificare il confuso regime di tassazione del valore aggiunto, introducendo una vera e propria IVA sul modello europeo.

MP – Si torna alla questione della crescita e al supposto problema fiscale del Brasile. Negli anni del governo Cardoso, si sono fatte privatizzazioni massicce, tagli di bilancio e si sono alzate le tasse. Risultato: il debito è cresciuto. Con Lula è aumentata la spesa pubblica e il debito è calato. Da un punto di vista tributario, abbiamo disegnato una riforma che non prevede nessun aumento di tasse, è a saldo 0; ciò che prevede è una variazione nella composizione: meno tasse alla base, più tasse al vertice della piramide sociale. Da una parte ampliare la fascia di esenzione, dall’altra introdurre tasse sulle grandi fortune, sulle rendite e sui dividendi. Sarà anche questo oggetto della Assemblea Costituente, per quanto molte di queste cose siano già previste in parti non applicate della Costituzione.

Brasile 2018: la posta in gioco

Negli ultimi anni in Europa, sia in politica che in accademia, ci sono stati tentativi di ripensamento e ridefinizione del ruolo dello Stato in economia, rispetto alla concezione dominante degli anni della “fine della storia” e del trionfo della globalizzazione. Qual è lo stato del dibattito in Brasile? Qual è per il suo partito il giusto equilibrio tra Stato e mercato?

Laura Carvalho – In Brasile abbiamo uno strumento importante, a differenza di molti altri Paesi: la Banca Nazionale di Sviluppo (BNDES). Tuttavia, si tratta solo di uno strumento, quindi agisce secondo quello che è il macro-progetto industriale del governo: non si può prendersela con la BNDES se gli investimenti non crescono, e non si può pensare che sia la BNDES a fare politica industriale. Nel programma di Boulos in un certo senso recepiamo l’idea di “missione” di Mariana Mazzuccato, arricchendola come “missione sociale”: in Brasile milioni di persone vivono senza infrastrutture basiche (fognature, acqua potabile, presidi medici…), e queste dovrebbero essere l’obiettivo fondamentale della politica industriale. La crescita – e anche la rinascita della manifattura – sarebbero un risultato collaterale: nel programma del PSOL l’obiettivo non è l’industrializzazione del Paese, ma il soddisfacimento di bisogni primari della popolazione. Chiaramente, perseguendo questo obiettivo, specialmente in un mercato di dimensioni continentali come quello brasiliano, si favorisce anche l’industria del Paese, a patto che lo Stato gestisca l’investimento stesso, per esempio attraverso l’acquisto pubblico di beni e servizi, che deve favorire le imprese brasiliane (quando possibile, medie e piccole) e non le multinazionali estere; e avendo come orizzonte la crescita tecnologica e non la riduzione del costo del lavoro, anche per competere con gli altri Paesi a medio reddito. Anche la banca centrale può e deve contribuire allo sviluppo del Paese, e questo può succedere solo se si irrigidiscono i controlli sui movimenti di capitale; infatti, la questione dell’indipendenza della banca centrale è generalmente mal posta: innanzi tutto, la banca centrale non è e non sarà mai indipendente dalla società; tuttavia, sarebbe illusorio pensare che sciogliere la commistione tra le élites e la dirigenza della banca centrale (ad esempio intervenendo sul fenomeno delle “porte girevoli”) possa di per sé consentire alla banca centrale di collaborare con il governo per perseguire gli attuali obiettivi di stabilità economica (o altri, come per esempio la riduzione della disoccupazione). La banca centrale non sarà mai indipendente dalla Federal Reserve americana finché non verranno introdotti maggiori controlli sui movimenti di capitali!

Nelson Marconi – Noi siamo contrari alla privatizzazione di Embraer [impresa costruttrice di aeromobili, terza più grande al mondo, n.d.r.] e a proseguire nella privatizzazione di fatto di Petrobras (che d’altra parte non va nemmeno ri-nazionalizzata completamente) [azienda petrolifera brasiliana, n.d.r.]. Tuttavia, tutto l’apparato statale nel suo complesso deve avere un atteggiamento più responsabile da un punto di vista fiscale: non perché è il mondo finanziario a chiedercelo, ma proprio per avere uno Stato più forte, per liberare capacità di investimento. Questo approccio fa sì che la nostra agenda neo-sviluppista attiri critiche sia da sinistra che da destra (ci posizioniamo alla sinistra del PT anche per quel che riguarda la politica dei tassi di interesse e per la tassazione dei dividendi). In effetti, vediamo la BNDES, la Banca Centrale (indipendente da cosa? È un falso problema, va bene così com’è), le imprese pubbliche e l’uso delle concessioni ai privati come i principali strumenti di politica industriale. La nostra è una strategia di sviluppo che, pur essendo espansiva, non usa risorse del bilancio pubblico: le imprese pubbliche e la BNDES hanno bilanci propri, che non gravano sulla fiscalità generale, e saranno impiegate in particolare in tre settori strategici in cui lo Stato deve essere protagonista, petrolio, difesa e sanità, nonché per promuovere esportazioni e, soprattutto, lo sviluppo infrastrutturale. Investire in infrastrutture permette di affrontare l’emergenza occupazionale (la disoccupazione è ben più alta delle statistiche ufficiali, compilate con criteri discutibili: raggiunge circa il 25%, lo stesso livello del dato ufficiale per i giovani), di stimolare gli investimenti privati, di aumentare la competitività del sistema Paese, di aumentare la domanda aggregata, e ha infine un grande impatto sociale (basti pensare a cosa vorrebbe dire completare la rete fognaria in tutto il Paese).

Marcio Pochmann – Partiamo dal presupposto che il Brasile è un’economia ibrida, con il settore privato dominante. Quello che è successo è che lo Stato ha internalizzato la logica privata. Se si vuole uno Stato che funzioni come il privato, allora tanto vale lasciar fare al privato! Ma lo Stato non può operare con la stessa logica: perché le banche, una volta privatizzate, hanno registrato grandi profitti? Precisamente perché hanno smesso di svolgere la funzione pubblica che svolgevano in precedenza, e hanno ad esempio chiuso gli sportelli nei piccoli paesi. Allo stesso modo, Petrobras era obbligata a comprare petrolio brasiliano, anche se questo implicava farlo a costi più alti. Eliminando questo vincolo, Temer ha fatto sì che il Brasile abbia aumentato le esportazioni di petrolio grezzo, importando gasolina raffinata. Questo va in direzione contraria alla necessità di reindustrializzazione che il Paese si trova di fronte, dopo aver vissuto una distruzione precoce del sistema industriale (avendolo per altro costruito tardivamente). Proprio perché l’industria è la colonna vertebrale della società, noi la vogliamo sostenere anche attraverso investimenti in scienza e tecnologia per portare avanti un grande piano di transizione ecologica, con un cambiamento della struttura produttiva in direzione di una maggiore sostenibilità. Questo piano sarà realizzato dai privati e finanziato con il fondo di finanziamento basato sulle riserve valutarie del Paese, a cui facevo riferimento prima: vi metteremo inizialmente 300-400 miliardi di real (63,8-85,1 miliardi di €).

Negli ultimi mesi si è assistito a un forte deprezzamento del real brasiliano. È un fenomeno positivo o negativo? Più in generale, quale sarà la politica dei tassi d’interesse? Gli investimenti esteri saranno una priorità?

LC – È chiaro che il Real non deve essere sopravvalutato, ma non è la questione principale. Non si può nemmeno pensare che la banca centrale controlli il tasso di cambio, si metterebbero a rischio le riserve e potrebbe addirittura aumentare l’instabilità. Il punto centrale riguarda invece il controllo dei capitali, solo così si può recuperare autonomia (andrebbero aumentati anche per scoraggiare i movimenti di breve periodo, più volatili). Per altro, di fronte a un deprezzamento drastico come quello in corso, cresce l’inflazione (e quindi il deprezzamento, almeno nel breve periodo, ha effetti restrittivi sulla domanda aggregata), senza contare che si instaurano dinamiche di guerra valutaria e di “fallacy of composition”, dato che tutti i Paesi della regione potrebbero voler fare lo stesso per essere competitivi. Come dicevo prima, è l’altra faccia della medaglia della contrazione salariale, e anche in Europa dovreste saperne qualcosa…

NM – Avere una valuta competitiva è una condizione necessaria, se pur non sufficiente, allo sviluppo economico. Adesso, e non certo grazie all’azione di governo, ma per cause esterne e per la preoccupazione dei mercati per le imminenti elezioni e gli incerti scenari elettorali che si profilano, il tasso di cambio è al livello giusto: consente di esportare e evita che crescano le importazioni. Questo è avvenuto per altro senza che si creasse inflazione, per cui non ci sono stati effetti negativi sui salari reali. L’occasione è buona per ridurre il deficit, mettere i conti in ordine per poter investire, avendo a quel punto il favore dei mercati e non la loro opposizione.

MP – I problemi del tasso di cambio sono due: sopravvalutazione e oscillazioni. Agiremo per controllare entrambi, nella cornice di un cambio flessibile gestito, ma questo non basta. In primo luogo, metteremo un’imposta sulle esportazioni di materie prime, il cui prezzo non si forma internamente, bensì sul mercato internazionale, imposta così strutturata: nei momenti in cui il prezzo è più alto della traiettoria storica, scatta l’imposta, i cui proventi vengono accantonati in un fondo al quale si attinge quando il prezzo scende sotto la soglia di riferimento. Similmente, istituiremo una imposta agganciata ai tassi d’interesse bancari: se una banca fissa il tasso sopra un certo livello, dovrà pagare l’imposta; questo andrà ad incentivare la concorrenza tra gli istituti di credito.

Come si comporterà il prossimo governo sulla scena internazionale, nella quale si assiste a una sempre più profonda crisi della globalizzazione?

LC – Anche se parlare di BRICS non ha mai avuto molto senso (d’altra parte è un’idea di JP Morgan…), nel contesto di guerra commerciale che si sta delineando ci sarebbe spazio per maggiore coordinamento tra i paesi del Sud del mondo: l’attuale crisi della globalizzazione dovrebbe spingere questi Paesi a reagire alla struttura del sistema economico mondiale, smettere di accettarne come un dato di fatto le condizioni attuali, e coordinarsi per riprendere controllo di alcuni strumenti di politica economica. Ci sono le premesse per un’operazione del genere? Probabilmente no, ma un governo progressista in Brasile potrebbe cambiare le cose: il Messico ha eletto un presidente socialista, e sarebbe la prima volta nella storia che i due giganti della regione potrebbero avere entrambi, contemporaneamente, un governo di sinistra.

NM – Il PT ha tentato di porre il Paese al centro di un’alleanza con il Sud del mondo, puntando anche sul gruppo dei BRICS. Ma la sovranità del Paese non passa da queste alleanze; la sovranità del Paese passa dalla sua industrializzazione, che permetterebbe ad esempio di non dover fare affidamento su infrastrutture tecnologiche americane. La nostra politica estera non sarà dettata da pregiudizi ideologici, ma dal massimo pragmatismo. Che senso ha voler stringere legami sempre più forti con la Cina, quando questi sono basati sulla esportazione, da parte nostra, di materie prime e sulla importazione di macchinari cinesi? Inoltre, negli ultimi anni, il Brasile ha smesso di ricoprire il ruolo di leader in America Latina: ad esempio, avrebbe dovuto imporsi come mediatore in Venezuela, invece di attaccare il governo di Maduro. Una priorità è anche quella di rilanciare l’integrazione latinoamericana.

MP – Nel mondo si assiste a una polarizzazione tra l’egemonia decadente degli USA da una parte e un’alternativa asiatica, soprattutto cinese. In questo contesto, gli Stati Uniti hanno cambiato strategia: con Obama, l’egemonia veniva esercitata attraverso gli accordi multilaterali, mentre Trump adesso si basa sulla difesa del mercato americano. In ogni caso, gli USA non gradiscono che il Brasile si erga a leader dell’America Latina, e possa coalizzarla in un’alleanza regionale, mentre è proprio di questo che il Paese ha bisogno. In altre parole, il nostro sviluppo e le nostre relazioni economiche sono atlantiche, radicate nella costa atlantica e proiettate al di là dell’Atlantico. Abbiamo invece bisogno di “interiorizzare” lo sviluppo, rivolgerci verso l’America Latina, e semmai, attraverso di questa e quindi del Pacifico, verso l’Asia. Inoltre dobbiamo stare molto attenti alle questioni monetarie: i casi di Russia e Turchia, per esempio, ci ricordano che la moneta è spesso strumento di guerra. Negli anni ’30, il Brasile recise il legame monetario con l’Inghilterra, e si trovò di fronte l’alternativa tra ricadere sotto l’influenza monetaria statunitense o sotto quella della Germania, Paese con il quale i vincoli erano fortissimi. La spuntarono gli Stati Uniti, ma forse adesso è arrivato il momento di mettere in discussione questa scelta e trovare un’altra strada per il nostro Paese.

In caso di vittoria del suo candidato, quale sarà il primo provvedimento del governo? A che riferimento internazionale possiamo pensare?

LC – Fine delle esenzioni fiscali per i ricchi e uso delle conseguenti maggiori entrate fiscali per massicci investimenti pubblici (anche con creazione di pubblico impiego). Nel programma prevediamo che l’aliquota marginale al di sopra dei 325000 Reais [circa 70000 €] passi dal 27,5% al 35%. Il programma è molto dettagliato, ma per quel che riguarda la parte economica, quella di mia competenza, è in linea con quanto in questi ultimi anni stanno dicendo Bernie Sanders, Jeremy Corbyn o il Bloco de Esquerda in Portogallo. Boulos si vede come un Pablo Iglesias brasiliano, ma in realtà le nostre proposte economiche non coincidono con quelle di Podemos!

NM – Il consolidamento fiscale e la riforma tributaria saranno i primi provvedimenti del governo: non solo perché i più urgenti, ma anche perché il governo deve approfittare del capitale politico di cui dispone appena eletto. A questo proposito, non faremo alleanze parlamentari suicide come il PT, ma impegneremo tutte le nostre forze nel consolidare e suscitare consenso e supporto nella società nel suo complesso: in questo, ci sentiamo vicini ai socialisti spagnoli e all’attuale governo portoghese. In questo modo, lo scoglio della maggioranza parlamentare verrà superato quando i governatori e gli amministratori locali in generale – anche se di altri partiti – faranno pressione proprio sui parlamentari di altri partiti perché votino le nostre proposte.

MP – Ci sono delle azioni emergenziali da compiere per rispondere alla disoccupazione in Brasile, con 28 milioni di persone che cercano lavoro: l’unica strada è far uscire l’economia dalla paralisi, favorendo l’impiego con il creare condizioni favorevoli ad un profitto delle imprese che non sia speculativo. Sono due anni che il PT lavora con altri 5 partiti [tra i quali PSOL e PDT, n.d.r.] per costruire un fronte progressista per cambiare il Paese, sul modello dell’alleanza che attualmente governa in Portogallo: siamo arrivati all’accordo su un contenuto programmatico minimo comune da attuare insieme, immediatamente alla conclusione del momento elettorale.

A cosa va incontro il Brasile?

LC – Il semplice fatto che la campagna elettorale si sia complessivamente spostata a destra implica che il prossimo governo brasiliano si sposterà in ogni caso a destra rispetto ai programmi elettorali, anche per cercare alleanze in parlamento e nella società. Al momento vedo favorito il PT, ma la vera domanda è cosa succederà dopo. Considerando che Dilma non è stata in grado di mantenere il potere pur nominando il più ortodosso degli economisti brasiliani come Ministro delle finanze e realizzando quindi il programma delle opposizioni, cosa potrà fare adesso Haddad? Nel migliore degli scenari possibili, riesce a rimanere al potere, ma senza realizzare niente di ciò che è nel suo programma. Paradossalmente, Ciro Gomez, avendo molte più ambiguità sul piano programmatico, ed essendo difficilmente collocabile sull’asse destra-sinistra, avrebbe più possibilità di fare politiche di sinistra, perché verrebbe meno osteggiato dalle élites. Il miglior scenario possibile è quindi ben peggiore di quando Dilma è stata eletta nel 2014: questa volta il PT farà di tutto per evitare un altro golpe, cercando di essere il più conciliante possibile con la destra del Paese. È infatti molto preoccupante anche solo che già si parli di intervento dei militari senza contare, per altro, che il PT è abbastanza organizzato e radicato sul territorio da costringere un eventuale regime militare a una repressione lunga e profonda. Nel ’64 la repressione invece iniziò più tardi, non c’erano forze con militanza diffusa e organizzata.

NM – Non lo so, ma mi è ben chiara la situazione. Da una parte c’è Bolsonaro, una marionetta nelle mani dei militari (per altro, il suo vice è a lui gerarchicamente superiore come grado nell’esercito, e questa gerarchia non potrà essere ribaltata in politica); dall’altra Haddad, un’altra marionetta nelle mani di Lula, simile a Dilma, senza credibilità e con una forte opposizione nella società. Un governo presieduto da Ciro, invece, sfuggendo a questa polarizzazione, potrebbe unire la società dietro una agenda politica e economica progressista. Il PT sarebbe invece costretto a piegare sempre più a destra, compiendo di nuovo l’errore di Dilma, mentre in tutta la campagna Ciro ha mantenuto chiaro il proprio profilo progressista, non ha fatto alcuna concessione alla destra che avrebbe potuto garantirgli l’appoggio dei molti conservatori che non vogliono votare Bolsonaro.

MP – La massa silenziosa che si sta muovendo ha pudore nel dire che voterà Bolsonaro o che voterà il PT? Non lo sappiamo, anche perché la campagna di quest’anno è stata fatta con una piccola frazione delle risorse di 4 anni fa [per innovazioni legislative in materia, n.d.r.], e anche per questo non siamo in grado di prevedere che esito avrà quella destra legata strettamente alle chiese evangeliche e alla criminalità organizzata. La cosa sicura è che il PT al governo non potrà fare come è successo in parte con Dilma, ovvero dire una cosa e farne un’altra: l’esperienza del Partito Socialista francese insegna che a spostarsi verso il centro si rischia di sparire.

(*) articolo tratto da Micromega – 5 ottobre 2018

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Brasile: un’amara sorpresa

di Aldo Zanchetta (*)

Sorpresa amara, ma non per tutti sorpresa, specie pel chi aveva letto dell’improvviso cambiamento di umori rilevato nei sondaggi degli ultimi 10 gg. La rapida ascesa del mumero di preferenze per Ferdinando Haddad, candidato in extremis dall’incarcerato Lula e dal PT, si era arrestata poco sopra il 20%, mentre le intenzioni di voto per Jair Bolsonaro, un ex militare torvo, misogino e ultrareazionario, ferme da tempo sul 30%, inaspettatamente avevano cominciato a salire. Così il primo turno ha visto in prima posizione Bolsonaro, col 46,2% e in seconda posizione, distanziato, Haddad, col 28,9%, quando lo scrutinio era oltre il 98%.

Per ora ho letto solo i risultati del primo turno, senza leggere alcun commento e scrivo ricordando quanto viene alla memoria di alcuni articoli letti nel corso della campagna elettorale, alcuni dei quali fuori dagli schemi preconfezionati. Come tutti sanno, Bolsonaro pochissime settimane or sono è stato accoltellato da un folle e, degente in ospedale, da allora non ha partecipato alla campagna elettorale se non con una ripetuta dichiarazione teletrasmessa durata pochi secondi. Un maligno ha scritto che il suo successo è dovuto a questo forzato silenzio e che la partecipazione attiva alla campagna per il ballottaggio che avrà luogo il 28 ottobre lo seppellirà. Certo, una frase, urlata a suo tempo a una collega deputata, lo incornicia a sufficienza: “non ti violo perché non lo meriti”!

Tre mesi or sono l’opinione corrente era che  Bolsonaro non avrebbe superato il 30% e che, se fosse arrivato al ballottaggio grazie a questo pacchetto di voti, sarebbe stato irrimediabilmente battuto perché in nessun caso sarebbe andato oltre tale percentuale. E invece ha rischiato di vincere al primo turno e a un certo momento dello spoglio, prima che arrivassero i dati del Nord-est del paese tradizionale roccaforte lulista, era sembrato riuscirvi con il 49,1% dei voti raggiunti a scrutinio inoltrato. Non ho visto dati sulla partecipazione al voto, che sarà interessante conoscere. Ma che senza il Nord-est, zona economicamente più depressa, Bolsonaro sia andato ben oltre il cospicuo 46,2% è fortemente preoccupante.

Ora a sinistra, ingoiato il boccone amaro, inizierà il coro delle spiegazioni: Lula penalizzato dall’essere finito in prigione per motivi prettamente politici, i grandi media che hanno al solito giocato sporco, le divisioni e gli astensionismi a sinistra, la crescente forza delle conservatrici Chiese evangeliche. E dietro tutto questo, immancabili, gli Stati uniti.

Tutto vero, ma spiega tutto e bene? Come giustificare il magro 28,9% di voti ad Haddad, quando Lula aveva detto: “chi vota Haddad, vota me!”. La schiera dei simpatizzanti di Lula, data per certa ben oltre il 30%, non avrebbe dovuto votare compatta anche a causa dell’ingiusta detenzione, anzi accresciuta da ulteriori consensi degli indignati per questa forzata operazione giudiziaria?

Ho letto di errore di Lula e del PT (Partito dei lavoratori) nell’insistere oltre i limiti ragionevoli a mantenere la sua candidatura, quando ormai era certo che il potere giudiziario sarebbe stato fermo sul suo accanimento contro Lula. Ho letto del capitale di  consensi del PT dilapidato dalle due disastrose presidenze di Dilma. Ho letto che la scelta di Dilma era stata fatta per tenere il posto caldo a Lula per un suo ritorno, e che Lula stesso aveva impedito il crescere attorno a lui di personaggi che potessero minacciare la sua leadership. Ho letto che la scelta di Haddad non era stata la più felice ma la più funzionale alla supremazia di Lula nel partito anche dalla prigione. Ho letto che Haddad non aveva brillato come sindaco di san Paolo. Ho letto che forse il petismo (da PT) avrebbe dovuto guardare oltre il proprio ombelico optando per appoggiare un dignitoso Ciro Gomez, sempre di sinistra ma in un altro partito. E altre cose su cui tornerò con più calma.

Ricordo che già nel 2013 -anno che aveva visto imponenti manifestazioni di piazza in oltre 300 città brasiliane contro la violenza con cui la polizia aveva represso alcune proteste di movimenti di base a San Paolo (ricordate il pase livre?)-, si era parlato di perdita di contatto fra i dirigenti del partito e gli umori della gente (infermità, questa, ormai contagiosa nella sinistra mondiale). Ancora prima, di ingenti finanziamenti dei socialdemocratici tedeschi al PT, per moderarne l’anima rivoluzionaria. Avevo letto che molti covavano malumore per le ingenti spese per il duplice evento dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi, accompagnato da scandalose corruzioni e violente rilocalizzazioni di decine di migliaia di persone dovute alla ristrutturazione ad uso turistico di interi quartieri di Rio de Janeiro. Avevo letto che le proteste del 2013 avevano alla base il pessimo stato dei servizi pubblici di trasporto, specie nelle due grandi mega-città del paese. Avevo letto che anche la sanità e la scuola di base, quest’ultima in certe zone urbane con triplici turni, creavano malcontento. E, dopo il primo periodo presidenziale, avevo letto del lulismo come fenomeno politico ambiguo e discutibile (qualcuno ricorda la hegemonía al reves analizzata dal sociologo Chico de Oliveira?), con la sua volontà di accontentare tutti, ricchi e poveri, cancellando la lotta di classe. E delle politiche sociali (Fome Zero, Bolsa-Familia), essenzialmente “assistenzialiste” senza alcuna incidenza strutturale. E ancora, la trasformazione per cooptazione di una generazione di già battaglieri leader sindacali in nuova classe di alti burocrati dello Stato. Evidentemente la spettacolare crescita numerica della classe media di cui si vantava il petismo era stata mal interpretata.

Molte di queste cose le avevo scritte, insieme anche al riconoscimento degli indubbi meriti e successi, in occasione della seconda elezione di Lula alla presidenza, cercando di tracciare un bilancio della prima. E se lo avevo scritto era perché avevo letto alcune voci critiche mi avevano fatto riflettere, al di là degli osanna.

E ora? E ora ci sono molte cose da ripensare e molte domande da porsi, con onestà, senza trincerarsi dietro le solite stantie abitudini di scaricare sugli altri le ragioni dei propri insuccessi, evitando ogni ragionevole autocritica. Certo, sarà difficile darsi ragione del perché questi malumori anziché orientare il voto su forze politiche alternative (invero il discredito dei partiti cresce ovunque, a torto o a ragione, ed è fortissimo in Brasile), abbiano prodotto una convergenza su un candidato così truce.

(*) Mininotiziario America latina dal basso n. 10/2018 – 8 ottobre 2018

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