Brasile: (in)sicurezza di stato

di David Lifodi

Una recente statistica dell’Associazione Brasiliana dei Giornalisti Investigativi (Abraji), evidenzia che la polizia è la responsabile del 74% delle aggressioni e di veri e propri attentati compiuti nei confronti dei lavoratori dell’informazione. In generale, aspetto ancor più preoccupante, i militari brasiliani agiscono spesso con estrema violenza in occasione delle proteste di piazza e durante le loro operazioni nelle favelas: l’insicurezza di stato caratterizza l’ordine pubblico brasiliano, come è emerso con chiarezza anche in occasione delle manifestazioni che all’inizio dell’estate hanno visto centinaia di migliaia di persone scendere per le strade durante la cosiddetta “rivoluzione dei venti centavos”.

Il 14 luglio scorso, in occasione delle proteste che hanno attraversato Rio de Janeiro con l’obiettivo di rovesciare il governatore Sérgio Cabral, il muratore Amarildo de Souza (47 anni) è stato prelevato  dagli agenti dell’Unidade de Polícia Pacificadora (Upp), le forze di sicurezza che operano nelle favelas, e da quel momento si è trasformato in un desaparecido della democrazia brasiliana. La Upp della Rocinha, la favela di Rio de Janeiro dove abitava Amarildo, come tutte quelle che agiscono nelle favelas carioca, se da una parte svolge un ruolo di interposizione in un contesto sociale difficilissimo, dall’altro contribuisce a far vivere gli abitanti in una situazione di emergenza e terrore costanti. Nate per venire incontro alle reali necessità dei favelados, le Upp hanno finito per caratterizzarsi come una forza d’occupazione spesso violenta: la morte di Amarildo non è il primo caso di omicidio di cui sono state responsabili. Secondo Jailson de Souza Silva, direttore dell’Osservatorio sulle Favelas, i militari brasiliani, dalle Upp all’esercito, non hanno mai cessato di esercitare azioni violente: “In Brasile ci sono almeno cinquantamila casi di desaparecidos ancora non chiariti”. Alla crescita economica a ritmi vertiginosi del gigante dell’America Latina è corrisposta una sorta di inarrestabile guerra di sterminio non dichiarata ufficialmente, ma di fatto praticata, nei confronti dei neri, dei poveri e di tutti i marginali che abitano all’estrema periferia delle megalopoli: l’ultimo caso di pulizia sociale corrisponde agli sgomberi forzati per far posto alle strutture che ospiteranno i prossimi mondiali di calcio e le Olimpiadi che si disputeranno nel 2016 proprio a Rio de Janeiro. I movimenti sociali che si battono per la smilitarizzazione delle strutture repressive ancora presenti Brasile, sostengono che Amarildo è stato torturato e assassinato dagli agenti dell’Upp e il loro coraggioso lavoro di controinformazione è stato riconosciuto dalla Divisão de Homicidíos da Polícia Fluminense, che ha ufficialmente indagato dieci poliziotti dell’ Unidade de Polícia Pacificadora della Rocinha. Tutti dovranno rispondere per tortura e occultamento di cadavere: Amarildo è stato portato nella sede dell’Upp e li è stato molto probabilmente torturato. Il caso del muratore è servito per riaprire la discussione sulle funzioni delle Upp e per ripensare ad un modello di sicurezza che privilegi la risoluzione dei problemi in modo pacifico rispetto al confronto militare e ad una logica di criminalizzazione della povertà e della protesta sociale che fa intravedere alla polizia solamente una minaccia nelle persone che si pongono di fronte a loro. Le Unidades de Polícia Pacificadoras hanno finito per contribuire alla militarizzazione delle favelas e per rappresentare la faccia peggiore dello stato, quella violenta ed escludente. Ad onor del vero, sul caso si è mosso il governo, in particolare la ministra dei Diritti Umani Maria do Rosário, e i deputati Jandira Feghali (Partido Comunista do Brasil) e Jean Wyllys (Partido Socialismo e Liberdade), che hanno sottolineato come la polizia abbia cercato di estorcere alla moglie e al figlio di Amarildo dichiarazioni non veritiere sulla sua morte. Per entrambi il governo ha accettato l’ingresso nel Programa de Proteção a Crianças e Adolescentes Amenaçados de Morte. Lo stato si è comunque mosso molto tardi ed è stata la campagna Onde está o Amarildo, ribattuta su tutte le reti sociali, a sollevare l’attenzione sul caso, mentre la polizia ha cercato di giustificarsi sostenendo che si era trattato di uno scambio di persona per cui il muratore era stato erroneamente confuso con un trafficante di droga. A questo proposito assume una particolare importanza il progetto di legge 4471/2012, che sancirebbe l’abolizione della “licenza di uccidere per legittima difesa”, una misura risalente alla dittatura militare e mai abolita. Su questo progetto si è creata in più di una circostanza un’aspra discussione alla Camera: se il 4471/2012 diventerà legge sarà possibile investigare sui casi di morte e lesioni inflitte dai militari nell’esercizio del loro lavoro. Si tratta di un’antica rivendicazione del garantismo brasiliano, dei movimenti di lotta per la casa e di quelli che si battono per l’uguaglianza razziale e permetterebbe, inoltre, di strappare questi casi dalle mani della stessa polizia che, in un evidente conflitto di interessi, investiga sugli abusi commessi dai suoi stessi agenti. Finora i cosiddetti autos de resistência, che hanno lo scopo di mascherare i delitti commessi dalla polizia come legittima difesa, sono ampiamente utilizzati tra le forze di sicurezza. Purtroppo l’insicurezza sociale, di cui lo stato è il principale responsabile, emerge in più circostanze, e sempre a scapito delle fasce sociali più deboli e marginali della popolazione brasiliana, come testimoniato dal nuovo Codice Penale che criminalizza i migranti e i rifugiati che giungono clandestinamente in Brasile. Sotto accusa ci sono gli articoli 452-453-454, che stabiliscono pene pesantissime per i migranti che utilizzano documenti falsi per far ingresso nel paese: dai due ai cinque anni di carcere. Questi articoli non tengono conto dell’urgenza che hanno i richiedenti asilo, la cui necessità è quella di raggiungere al più presto un paese dove non sia a rischio la loro vita e quindi non possono certo attendere i tempi biblici della via burocratica ordinaria prevista dalla normativa brasiliana. Sorprende, inoltre, che in questo contesto il Brasile riduca la questione dei migranti ad un mero problema di ordine pubblico, anche in considerazione del suo ruolo di crescente importanza sulla scena internazionale: oltre un anno fa il caso dei migranti haitiani, accampati per mesi nelle città di Tabatinga (stato di Amazonas) e Iñapari, (Perù, al confine con lo stato brasiliano dell’Acre) in condizioni difficilissime, è ancora un ricordo recente.

La polizia brasiliana non ha mai smesso di utilizzare la tortura come arma nei confronti delle persone arrestate e delle loro famiglie: questa è una sfida, e al tempo stesso uno dei maggiori problemi da risolvere, per un paese che mira ad ergersi come paladino dei diritti in America Latina e nel mondo.

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