Brusco, Civati, Dard, Harper, Manzini, Plomin e Rutherford

Brusco, Civati, Dard, Harper, Manzini, Plomin e Rutherford

7 recensioni di Valerio Calzolaio

UNO

Kyle Harper

«Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero»

traduzione di Luigi Giacone

Einaudi

508 pagine, 34 euro

Roma e dintorni. 24 agosto del 410. Per la prima volta in oltre 800 anni (dopo la mitica monarchia, comprendendo repubblica e impero) la Città Eterna fu saccheggiata dai Goti, in quello che fu il momento più drammatico nella lunga successione di accadimenti noti come “la caduta dell’impero romano”. Come poté accadere può essere valutato sotto vari punti di vista con l’ausilio di molte scienze, non solo sociali, non solo storiche. Certo, i Romani fecero alcune scelte (sbagliate dal loro punto di vista, postumo) che condussero alla catastrofe. Probabilmente c’erano da tempo vari problemi strutturali (militari e fiscali soprattutto) nel meccanismo imperiale. Forse sia l’avvento che la caduta sono cicli alla lunga inevitabili per ogni civiltà dominante. E, però, occorre considerare di più e meglio il secolare contesto ecologico delle vicende dell’attuale capitale italiana e degli immensi territori interconnessi e urbanizzati, mediterranei e atlantici, conquistati intorno alla città, ai margini dei tropici, in Eurasia e in Africa; dare il giusto peso alle pandemie antonina, di Cipriano, bubbonica (sotto Giustiniano). Il destino di Roma (da cui il titolo dell’accurato studio) fu portato a compimento da imperatori e barbari, senatori e generali, soldati e schiavi, ma venne parimenti deciso da batteri e virus, eruzioni vulcaniche e cicli solari. Solo negli ultimi anni siamo venuti in possesso degli strumenti scientifici che consentono almeno di intravedere, spesso fugacemente, il grande dramma del cambiamento ambientale di cui i romani furono attori inconsapevoli, talora dando vita e vigore al dissesto ulteriore e alla latente pericolosa evoluzione patogena (le malattie infettive emergenti). Il modo di produzione agricolo che creò la base energetica delle società premoderne non è un fondale statico, l’antropizzazione interagì (come anche prima e dopo) in forme più o meno prevedibili, vendicative, capricciose.

Il giovane storico americano Kyle Harper (Edmond, Oklahoma, 1979) esamina circa quattro secoli di storia romana distinguendo l’impero per zone ecologiche del volubile pianeta, valutando innanzitutto i differenti impatti dei periodi climatici: dall’optimum climatico (200 a. C. – 150 d. C) alla fase di transizione fino al 450 d. C. e all’inizio della piccola glaciazione della Tarda Antichità. Ogni volta che emergono gli eventi noti che portarono i Romani a cooptare intelligentemente i ceti elitari di tre continenti, con poche centinaia di propri funzionati di alto rango, decine e decine di migliaia di schiavi, battaglie e imperatori, attacchi e difese, frontiere e norme, in parallelo (con le opportune sincronie e diacronie) ragiona sullo stato della salute umana e del contesto ecologico, su malattie e pestilenze, mortalità e resilienza, energia solare e alimentare, assimilazione biologica e competizione sociale rispetto agli altri gruppi umani, recependo contributi interdisciplinari di microbiologia, geologia, climatologia, riflettendo sul ruolo della politica e delle ideologie nel modellare resilienza o meno, e comparando spesso il quadro mediterraneo con aree del resto del pianeta. Bravo! Le società umane sono profondamente radicate nei loro ambienti naturali, sono vulnerabili ai loro cambiamenti, che influiscono su ogni aspetto delle biografie individuali e collettive. L’impero romano non era sulla strada di un’inevitabile apocalisse, negli ultimi tempi era stato capace di determinare un patriottismo militare che andava oltre l’antica aristocrazia senatoria di origine laziale e mediterranea. Eppure crollò e l’autore ci aiuta a capire meglio i perché e il come. La rete globale di migrazioni e scambi aveva messo in circolazione anche le malattie, non solo idee e merci. Vi erano vari agglomerati urbani sovrappopolati e malsani, innanzitutto la megalopoli romana con oltre un milione di abitanti (e almeno 45 tonnellate di escrementi). Hanno avuto già meritato successo studi comparati sui collassi di civiltà antiche e moderne, qui si affronta con acume e precisione, con ricchissimi materiali (cartine e indici) un caso davvero paradigmatico.

DUE

Frédéric Dard

«Il montacarichi»

traduzione di Elena Cappellini (originale 1961)

Rizzoli

140 pagine, 17 euro

Levallois (al confine con il XVII° parigino). Vigilia di Natale, oltre 50 anni fa. Il poco più che trentenne Albert Herbin torna a casa dopo sei anni di prigione, il piccolo appartamento dove viveva la mamma (ormai morta) è squallido, gira un poco nel suo vecchio quartiere, compra una gabbietta con un uccellino di velluto, entra in un rinomato grande ristorante (“Chiclet”). A mangiare vi sono anche Lucienne, una bimba di 3-4 anni, e Marthe, la magnifica mamma, bruna ed elegante. Gli sguardi s’incontrano, le accompagna nell’edificio dove si sale con la cabina metallica, hanno strani amori alle spalle, riescono solo loro due, vanno al cinema e la serata s’ingarbuglia molto. Continua la riedizione dei bei primi romanzi noir di Frédéric Charles Antoine Dard (1921-2000), anche questo, “Il montacarichi”, narrato in prima persona. L’autore divenne poi famosissimo per la serie poliziesca del commissario Sanantonio (lo pseudonimo scelto), qui l’incubo è leggero e ingenuamente torbido.

TRE

Giuseppe Civati (a cura di)

«Il piano Langer»

People

136 pagine, 12 euro

Perdita della terra e disfacimento della società marciano da un po’ insieme. Alexander Langer era un parlamentare europeo di 49 anni quando si è privato della vita nei pressi di Firenze il 3 luglio 1995, nato il 22 febbraio 1946 in provincia di Bolzano, padre medico, mamma farmacista. Militò in Lotta Continua, fondò i Verdi italiani, ha lasciato un’impronta biodinamica indelebile nell’ecologismo italiano. Dando avvio al lavoro di una nuova casa editrice, Giuseppe Pippo Civati (Monza, 1975) ha pensato che fosse giusto rendergli omaggio commentando una serie di suoi testi, frasi, appunti che mostrano un pensiero politico lucido e coerente, né velleitario né minoritario. Forse per l’Europa ci vuole non un Piano Marshall ma “Il piano Langer”, un piano che punti sull’innovazione, sulla mediazione, sulla biodiversità, un manifesto politico per i tempi a venire. Prefazione di Lucio Cavazzoni e postfazione di Irene Scavello (prima del profilo biografico).

QUATTRO

Carlo Brusco

«La grande vergogna. L’Italia delle leggi razziali»

prefazione di Liliana Segre

Edizioni GruppoAbele

174 pagine, 15 euro

Italia. 1938. La storiografia revisionista e una certa vocazione autoassolutoria hanno accreditato una lettura riduttiva e minimizzante della legislazione antiebraica promossa dal regime fascista, violento, omicida, discriminatorio e razzista fin dalle origini. L’interessante preciso volume dell’ex magistrato Carlo Brusco (Genova, 1941) spiega bene perché fu invece “La grande vergogna”. Non si trattava di norme di facciata, i fascisti perseguitarono impedendo l’esercizio di tutti i diritti, umani e civili. Allora vivevano qui 50.000 ebrei, in proporzione molto meno che in Austria e Germania. L’autore ne illustra la condizione durante il ventennio (ce n’erano ovviamente di tutti gli orientamenti politici e culturali, anche di fascisti), esamina la svolta del 1938 (il Manifesto della razza e il censimento), poi leggi e decreti conseguenti, in relazione a università, Chiesa, giuristi, sport e spettacolo, contesto europeo, fino al tragico rastrellamento del ghetto del 16 ottobre.

CINQUE

Adam Rutherford

«Umani. La nostra storia »

traduzione di Sabrina Placidi, illustrazioni di Alice Roberts

Bollati Boringhieri

232 pagine, 24 euro

Animali. Da quando esistono sulla Terra a prima o poi. La biologia ha quattro pilastri condivisi da ogni fattore vivente e da ogni individuo vivente, per quanto unico: universalità del codice genetico (le quattro lettere che vanno a comporre il DNA, A, C, T e G), teoria cellulare (organizzazione della vita in cellule discrete che ricavano energia dal resto dell’universo), chemiosmosi (processo basilare del metabolismo di ogni cellula per utilizzare quell’energia) e selezione naturale (intuita e spiegata da Darwin). Noi siamo viventi e siamo una specie, l’unica residua, del genere Homo dell’ordine dei primati. Il corpo dei primi pochi sapiens era abbastanza simile a quello dei 7,7 miliardi di oggi, eppure qualcos’altro è cambiato profondamente e ha reso la nostra evoluzione capace di squilibrare gli ecosistemi locali e quello globale. Vale la pena studiare e ristudiare il pacchetto delle nostre imperfette facoltà per capire cosa davvero non può essere paragonato con gli animali non sapiens. Molti dei tratti che un tempo venivano considerati unicamente come umani non lo sono: altri animali utilizzano strumenti, fanno sesso non per riprodursi e tra membri dello stesso sesso, comunicano in vario articolato modo. Ogni percorso evolutivo è unico ma tutti gli esseri viventi sono imparentati fra loro. L’evoluzione è cieca, la mutazione è casuale, la selezione no. La novità più grande è che noi accumuliamo cultura e la insegniamo ad altri. Trasmettiamo informazioni, non solo di generazione in generazione attraverso il DNA, bensì in ogni direzione, a persone con cui non abbiamo legami biologici diretti. Narriamo storie che abbiamo creato noi stessi. Insomma, siamo animali straordinari.

Il biologo e divulgatore scientifico inglese Adam Rutherford (Ipswich, Suffolk, 1974) ha scritto un altro bel libro (con riferimenti bibliografici composti soprattutto di articoli recenti), che ruota intorno alla frase di Amleto (Shakespeare) sull’uomo come “capolavoro” anche attraverso “il paragone degli animali”. Per la comparazione sceglie gli elementi cruciali, nessuno solo nostro, tutti più e specialmente nostri: gli strumenti e gli utensili, il sesso, l’anatomia bipede, il linguaggio con parole e simboli. Illustra le tecnologie di delfini e spugne, uccelli e scimmie; affronta le pratiche sessuali più o meno piacevoli di svariati animali; ogni volta evidenzia che abbiamo antenati comuni per quanto oggi stentiamo a crederlo e vediamo solo lo specifico accumularsi e trasmettersi della cultura umana. Il viaggio di ognuno di noi si fonda su migliaia di anni di conoscenze accumulate, a loro volta basate su miliardi di anni di evoluzione. La nostra cultura fa parte della nostra evoluzione ed è un errore cercare di separarle. Non è mai esistito un momento in cui un attimo prima non eravamo Homo sapiens e poi di colpo lo siamo diventati perché un gene è mutato. L’autore saggiamente accenna anche all’idea che noi siamo “un ibrido”, discendiamo da vari tipi di umani africani antichi; fa così spesso riferimento alle migrazioni, talora assegnando loro un decisivo ruolo nell’evoluzione dei caratteri umani, cita (giustamente) spesso Darwin e tuttavia mai la sua teoria a riguardo. Quel che non viene abbastanza sottolineato sono i nessi evoluzionistici dell’interconnesso fenomeno migratorio delle specie, considerato in altri testi o uno spettacolo pirotecnico da ammirare o un fatto storico conchiuso, comunque teoricamente e praticamente separato da quello umano.

SEI

Antonio Manzini

«Ogni riferimento è puramente casuale»

Sellerio

Italia. Intorno a oneri e onori della produzione di libri e a noi ignari lettori che alcuni ne consumiamo. Le presentazioni: il 34enne romano Samuel Protti, barba rossiccia ed esperienze ecosostenibili, dopo 5 romanzi rifiutati da tutte le case editrici del paese, diventa improvvisamente celebre quando un grande editore milanese gli pubblica L’altra bellezza; ora dovrà presentarlo in giro per l’Italia, gli hanno organizzato 143 appuntamenti nei successivi tre mesi; comincia da Gorizia a gennaio, già a inizio febbraio talora piange solo in albergo, dopo la 74° presentazione a Brugherio lo chiamano dall’ufficio stampa in seguito alle lamentele per le risposte sgarbate e gli scarabocchi sulle copie, poi Como e Pavia, finché se ne perdono le tracce; un’odissea, un incubo per ogni scrittore. Le recensioni: l’incorruttibile critico milanese quasi sessantenne Curzio Biroli è il più accreditato commentatore di romanzi, intrattabile cane sciolto; detesta premi e scuole di scrittura creativa, ormai non sopporta più quel che gli suggeriscono di leggere con i continui pacchetti postali, le telefonate, le raccomandazioni; ogni giorno scrive una critica, solo che ormai sono sempre stroncature; tutti gli innumerevoli professionisti non scrittori (né lettori, spesso) operanti fra chi ha scritto (non sempre molto letto, talora) e chi compra il (perlopiù in libreria, ancora) s’industriano per corteggiarlo; ci provano anche negli uffici della famosa Hyperion di Brugherio per Amore 2 punto zero, il discutibile manoscritto di Gabriele Seppi; così si rivolgono alla costosa arma finale Adoración Moretti, diversamente bella, una bomba sessuale dalla chioma rosso fuoco naturale. E Biroli forse capitola, a suo modo, i recensori sono vittime. Seguono i mitici autentici scrittori stranieri con i loro amici editori; i mitici isolati scrittori sardi nella collana Meridiani di Mondadori; i mitici librai indipendenti periferici (questa volta a Giugliano) con i loro parenti, amici, amori; le apprese arti dei ringraziamenti finali e delle dediche autografe durante i firmacopie.

L’attore, sceneggiatore e regista Antonio Manzini (Roma, 1964) è uno degli scrittori italiani di maggior (meritato) successo da solo sei anni, dall’avvio della mitica serie alla ricerca dello Schiavone perduto. Aveva pubblicato qualcosa di interessante anche prima e ha continuato poi ad alternare scritture varie ai romanzi e ai racconti sul vicequestore romano trasferito ad Aosta per punizione. Qui in sette brevi episodi grotteschi e surreali immersi in un vocabolario di parole appropriate, sceglie la forma del racconto con l’obiettivo di descrivere alcuni aspetti sostanziali del mondo dell’editoria per come ha imparato a conoscerlo in poco tempo sulla propria pelle, nella fama e nei drammi, nei trucchi e nelle leggende, nelle dinamiche di cultura e di mercato, nei miti tragici e nei tic ridicoli, fra i saloni di Torino, i cortili di Mantova e le tecnostrutture di Pordenone, fra circoli dei lettori, uffici di marketing e quattro amici al bar. Delizioso tutto, a tratti esilarante, con una persistente vena satirica e noir; compreso il titolo, visto che molti riferimenti non sono affatto casuali, tanto che ai ringraziati corrispondono nomi più o meno importanti di quel mondo. Solo pochi scrittori hanno fatto eccezione alla regola che sui Meridiani si pubblica solo chi non è più in vita: «ma quelli sono scrittori senza regole, esecrano tutti i dettami e nella vita fu impossibile misurarli, sia coi meridiani che coi paralleli. Sempre sfuggirono alle conte e … ai cataloghi. Liberi come la lingua e come le storie» (uno fu Camilleri). Sembra per altro che l’unico vero autentico scrittore italiano contemporaneo, Alvaro Careddu (sostiene Protti), abiti nelle campagne del maceratese o faccia il barbone in Friuli Venezia Giulia. Come al solito, discreta attenzione al panorama enologico.

SETTE

Robert Plomin

«L’impronta genetica. Come il DNA ci rende quello che siamo»

traduzione di Elena Stubel

Raffaello Cortina

260 pagine, 22 euro

Dentro di noi, da quando siamo nati e in futuro. La possibilità di usare il DNA per capire chi siamo e prevedere chi diventeremo è emersa solo negli ultimi anni, grazie allo sviluppo della genomica personalizzata. Da decenni, comunque, psicologi e genetisti ci lavoravano, consapevoli che i bambini sono geneticamente simili ai loro genitori per il 50%. Sia i geni che l’ambiente contribuiscono a determinare le differenze psicologiche tra le persone. Tuttavia quel 50% forse è maggioranza assoluta, certo è maggioranza relativa, risulta più di qualsiasi altra componente all’origine dell’individualità psicologica di ciascuno di noi. Se scegliamo alcuni tratti umani e ci domandiamo quanto sono influenzati dalla genetica, le opinioni di migliaia di intervistati e i risultati della ricerca scientifica ci danno risultati diversi. I tratti che più dipendono dalle differenze ereditate al momento del concepimento sono il colore dell’iride, la statura, il peso, l’autismo, l’ulcera gastrica, le abilità spaziali, anche se non tutti gli intervistati ne sono consapevoli (soprattutto per l’ulcera, le abilità, il peso, l’autismo). I tratti che meno dipendono dai genitori sono il cancro al seno e la personalità complessiva, comunque circa il 50% la schizofrenia e l’intelligenza generale, anche se non ne siamo del tutto consapevoli (quasi per niente relativamente al cancro). Nell’ultimo secolo la ricerca genetica si è affidata soprattutto a due sistemi per scindere natura e cultura, connettere differenze genetiche e tratti psicologici: l’adozione, ovvero la crescita di bambini insieme a genitori diversi dai propri; la gemellanza, ovvero la crescita parallela di due bambini che hanno ereditato lo stesso DNA. Bisogna prenderne atto: gli effetti genetici sui tratti psicologici sono statisticamente sostanziali e importantissimi per la quantità della varianza che spiegano, gli effetti dell’ambiente sono perlopiù casuali e privi di effetti a lungo termine.

Lo psicologo americano Robert Plomin (Chicago, 1948) fin dal principio della lunga apprezzata carriera ha studiato il ruolo dell’ereditarietà sui tratti biologici, morfologici e psicologici degli umani e ora insegna proprio Genetica comportamentale a Londra. Il testo riassume e aggiorna quarantacinque anni di ricerche genetiche, di dati e possibili implicazioni, sulla salute e sulle malattie mentali, sulla personalità e sulle abilità (disabilità) intellettive. La prima parte esamina lungo nove capitoli perché il DNA è importante; la seconda in cinque capitoli offre una alfabetizzazione di genetica e biologia; ricchissime le note, non limitate ai riferimenti bibliografici. La narrazione non è brillante, contiene molti giustificati riferimenti personali, ribadisce con chiarezza il punto di vista dell’autore sul rilievo decisivo dei geni nell’indirizzare e plasmare la nostra vita. Famiglia, scuola, ambiente, esperienze sono comunque meno influenti. Questo non significa assegnare al DNA un ruolo divinatorio e subire percorsi ineluttabili, piuttosto accettarci per quel che siamo e incidere sulle mediazioni vitali delle nostre possibilità di scelta. Non siamo determinati geneticamente né programmati, meglio se capiamo un poco però come genetica e biologia influenzano davvero alcuni nostri comportamenti. Invece che subirci passivamente, possiamo percepire, interpretare, selezionare, modificare attivamente qualcosa di quanto abbiamo ereditato e creare ambienti correlati alle nostre predisposizioni genetiche; tanto più che le influenze genetiche diventano più importanti (non meno!) con l’avanzare dell’età. L’anormalità è più normale se la riconosciamo con (non contro!) gli altri.

 

Redazione
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