«Bubelè: il bambino nell’ombra»

Recensione al libro di Adolphe Nysenholc (Il Pozzo di Giacobbe, 2018)

di David Lifodi

Bubelè è un bambino che, suo malgrado, è costretto ad abbandonare la famiglia e i suoi affetti per entrare in una famiglia “altra”, amorevole e piena di attenzioni nei suoi confronti, ma comunque non quella biologica. Più volte, nel corso della sua adolescenza, Bubelè dovrà abituarsi a fare i conti con un nuovo ambiente familiare, con tutte le difficoltà e i problemi del caso. Sullo sfondo, la seconda guerra mondiale caratterizzata dalla persecuzione nazista e i precetti dell’ebraismo.

Bubelè altri non è che lo scrittore e drammaturgo Adolphe Nysenholc, che ripercorre gli anni della sua adolescenza, in fuga dalla Gestapo e alla continua ricerca di un equilibrio interiore con la religione ebraica. È il 1942 quando i suoi genitori, Léa e Salomon, decidono di portare il piccolo Bubelé a Ganshoren, un sobborgo di Bruxelles, per affidarlo ai coniugi Van Halden. Il bimbo, che ha soltanto tre anni, non immagina che non rivedrà più i suoi genitori, che cercano di espatriare negli Stati uniti per sfuggire al nazismo, ma in realtà finiranno per essere deportati ad Auschwitz. Bubelé, il nomignolo con cui verrà chiamato Nysenholc, nel lessico familiare yiddish rappresenta “un vezzeggiativo che incarna tutto l’amore struggente e superfluente per i propri piccini esposti nell’esilio a così tanti pericoli”, come ha scritto Moni Ovadia nella prefazione.

Nel raccontare la sua storia, in effetti, Nysenholc si mette a nudo ed è costretto ad un grande sforzo, a livello psicologico, per narrare quel periodo della sua infanzia così doloroso. Bubelé vive nella costante attesa dei suoi genitori, in particolare di sua mamma, nonostante alla fine si adegui ai ritmi della vita familiare di Tanke e Nunkel Van Halden. Al tempo stesso è consapevole di dover essere invisibile, non solo quando gioca a nascondino con i suoi coetanei, ma nella quotidianità. Per questo, nel corso del romanzo, che può essere definito a buon diritto come una sorta di autodramma personale, più volte Bubelè afferma di essere stato protetto dalla strada, dalla gente del quartiere e soprattutto dai suoi nuovi genitori, che mentono anche di fronte alla Gestapo, esponendosi così a un grandissimo rischio, pur di difenderlo.

In realtà, i coniugi Van Halden non immaginano nemmeno lontanamente che non sarebbero stati i nazisti a portarsi via il piccolo divenuto adolescente, ma uno zio sbucato dal nulla, Abraham, l’unico sopravvissuto ai lager della famiglia che adesso intende riprenderselo a ogni costo, fino a strapparlo a Tanke e Nunkel. Il senso di smarrimento, per il giovane Bubelè, è forte, anche perché, ancora una volta, è costretto a fare i conti con un’identità che non sente sua. Lo zio lo introduce e lo avvicina infatti a quei principi dell’ebraismo da cui finora era stato poco più che sfiorato per quanto riguarda la questione religiosa. Da bambino Bubelè non era stato circonciso per via degli ideali comunisti del padre, fin quando, da adolescente, non sarà sottoposto alla Brith Milah e, come sottolinea Moni Ovadia, <<diventa ineludibilmente un ebreo, sopravvissuto, che alla fine della guerra deve ritrovare i “suoi” e appartenervi>>.

Tuttavia, il percorso per comprendere in pieno l’appartenenza al popolo ebraico non sarà dei più semplici e lineari, nonostante Nysenholc scelga di raccontare la sua storia sotto forma di fiaba, vista dagli occhi di un bambino che pian piano scopre il mondo e tutto ciò che gli sta intorno. Per questo Bubelè è il bambino che vive nell’ombra, costretto a fuggire sia dai nazisti sia da uno zio con cui instaurerà un rapporto complesso, caratterizzato in parte da amore, ma in parte anche dallo sgomento iniziale a seguito del suo abbandono obbligato della casa dei Van Halden.

Nysenholc ha la capacità di legare la sua storia, quella di scampato all’Olocausto, al dramma dei tanti bambini nascosti che hanno perso i genitori a causa della persecuzione nazista e che impiegheranno inevitabilmente tempo per sentirsi parte a tutti gli effetti del popolo ebraico.

Bubelé. Il bambino nell’ombra

di Adolphe Nysenholc

Il pozzo di Giacobbe, 2018

13,50

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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