Caggiano, Gherpelli, Gor’kij, Greco, Khadra, Scott più Bidussa (per 17 autori-autrici)

7 recensioni di Valerio Calzolaio

Yasmina Khadra

«Khalil»

traduzione di Marina Di Leo

Sellerio

256 pagine, 16 euro

Parigi. 13 novembre 2015. Accompagnati dall’autista a pagamento Ali, tre giovani terroristi, Lyes Driss e Khalil, hanno indosso una cintura esplosiva da azionare, i primi due tra la folla dello stadio di Saint-Denis, il terzo su un vagone della RER: servire Dio e vendicarsi. «Khalil» è il protagonista dell’ultimo ottimo romanzo di Yasmina Khadra (pseudonimo femminile dell’algerino francese Mohammed Moulessehoul, 1955): quando preme il detonatore, recitando un’ultima preghiera, il suo non funziona, resta vivo, non era mai stato in Francia, vuole tornare in Belgio, chiama Rayan, l’altro amico d’infanzia oltre a Driss, tutti e tre di origini marocchine, nati nel 1992 e cresciuti nei sobborghi di Bruxelles. Entriamo nella dinamica cieca e lucida del terrorismo, nella mente di chi tira le fila, di chi muore, di chi si rifiuta, di chi dubita, nelle reciproche relazioni religiose familiari affettive culturali e nel contesto dei grandi veri massacri che hanno insanguinato l’Europa.

 

Giandonato Caggiano

«Scritti sul diritto europeo dell’immigrazione»

Giappichelli (2° edizione)

260 pagine, 22 euro

Europa. Ultimo quindicennio. Per soggiornare dall’estero in Italia ci vuole una specifica documentazione, che prevede una tempistica (tre mesi) per il ritorno indietro; se lo straniero intende risiedere deve avere preventivamente un contratto di lavoro, anche stagionale, e rientrare nel numero massimo programmato degli ingressi possibili. Il diritto dell’immigrazione riguarda, dunque, le regole che consentono di arrivare ed eventualmente risiedere in un paese o, nel nostro caso, in un’Unione di Paesi. Il testo di Giandonato Caggiano «Scritti sul diritto europeo dell’immigrazione» è adottato (non “consigliato”) per il corso di Diritto dell’immigrazione dell’Università di Macerata anche per il 2018-19. Poveri studenti! Ma come si fa? Si tratta di una raccolta disordinata e ripetitiva di testi molto tecnici pubblicati su riviste specialistiche. Non c’è un filo formativo, 11 articoli zeppi di note confuse, uno dietro l’altro, senza definizioni e quadri, nemmeno indici di nomi o di leggi.

 

David Bidussa (a cura di), scritti di 17 autori-autrici

«The time is now»

Chiarelettere

Movimenti. Cinquant’anni dopo. Forse si può guardare al ’68 con gli occhi del 2018. Nel discorso tenuto il 17 febbraio scorso in Florida, Emma González, giovanissima studentessa sopravvissuta al massacro in una scuola, condanna i legami fra il presidente Trump e l’associazione americana dei produttori di armi (Nra), a nome di tanti ragazzi e ragazze grida: the time is now! Era lo slogan della manifestazione, è ora di mettere fine alla vendita di armi ai privati. Il suo discorso è il primo breve capitolo di un recente volume dedicato al cinquantenario dei movimenti del 1968. Il secondo testo è agli antipodi temporali, il brano di un “antesignano”, Carlo Pisacane (1818-1857) che nel 1849 rivendicò l’espropriazione dei capitali, l’abolizione della proprietà privata, il suffragio universale. Seguono estratti scritti dai riferimenti culturali immediatamente precedenti, da Don Lorenzo Milani nel 1965, da Ernesto Che Guevara nel 1967, da Martin Luther King nel 1963, da Nelson Mandela nel 1964. Nel momento dello scoppio della rivolta si espressero poi in vario modo intellettuali influenti, interni alla dialettica politico-culturale di quel periodo, come Pier Paolo Pasolini (su studenti e operai), Guido Viale (sull’università e l’integrazione), Dario Fo (sul teatro politico), Robert Kennedy (sul Pil), Hazel E. Hazel (sulle donne fra dominanti e dominati), Rudi Dutschke (sui partiti fuori e dentro i parlamenti), Herbert Marcuse (su rivoluzione e mistificazioni). E molti altri tornarono infine sugli avvenimenti di quell’anno per approfondirne o consolidarne gli aspetti spartiacque: Franco Basaglia (le istituzioni della violenza), Václav Havel (il potere dei senza potere), Alexander Langer (cambiare strada). Il bell’epilogo è affidato all’amaro lucido rimpianto contenuto in un ispirato testo di Giorgio Gaber: la sconfitta di una generazione.

L’insegnante e storico David Bidussa (Livorno, 1955) ha curato l’ennesimo agile libro sul Sessantotto, presentando discorsi e interventi perlopiù di protagonisti di quel movimento, esigenze che venivano da lontano e, in parte, sono arrivate lontano. La breve introduzione rimanda anche alle riflessioni di Hannah Arendt, Marc Bloch, Giovanni de Luna, Elvio Fachinelli, Goffredo Fofi, Eric J. Hobsbawm, Claudio Pavone, Paolo Pombeni, Rossana Rossanda. Fu uno scontro intergenerazionale con un’idea di avvenire contro un sistema economico. Fu un evento ristretto nel tempo capace di impostare un modulo rimasto oltre il suo momento, sia attraverso realtà politiche che lì si originarono o ne derivarono, sia dis-orientando altri mondi, quello delle donne e quello del lavoro. Tentò, anche con gesti simbolici e pratiche ironiche, di rompere il quadro autoritario delle istituzioni e creare una modalità diversa di vivere, agire, lavorare, curare, educare. Più che l’insoddisfazione dei bisogni, la chiusura del ’68 lascia irrisolti i desideri, una parte dei quali motivano ancor oggi tanti e tante. Fra gli elementi criticati ma riprodotti ci sono forse il rifiuto dei partiti (assemblearismo e delega al capo) e il rifiuto dei consumi (minoritarismo e delega all’effimero). Sono usciti tanti volumi celebrativi e tanti volumi storici, l’evento Sessantotto probabilmente lo meritava, pur se resta talora eccessiva (anche in questo caso) l’ideologizzazione dei percorsi storici e dei movimenti sociali, attribuire il tutto a parti, enfatizzare il peso della soggettività di cui si è espressione. Unico apparato finale sono le sintetiche biografie degli autori di cui sono stati estratti i brani, presentati via via con poche righe in corsivo.

 

Evita Greco

«La luce che resta»

Garzanti

288 pagine per 17,90 euro

Oggi in provincia. Sul treno 12047 viaggiano spesso Filomena e Carlo, madre scossa e figlio adulto, lui avvocato in uno studio legale la segue sempre per proteggerla; se ne prende cura visto che il padre Marco non si vuole più far carico della situazione, sta a Londra e suggerisce il trasferimento in una casa protetta per persone con problemi, mentali e non. Lei rimpiange quell’amore, si erano sposati il 29 giugno 1980. Sullo stesso treno, fra turisti e studenti, viaggia una ragazza sempre trafelata, Cara, impiegata, che prima deve lasciare la piccola figlia Vita all’asilo nido e poi pensa molto a quanto sta scrivendo. Marco e Cara s’incontrano. Dopo il successo del primo, ecco “La luce che resta”, secondo bel romanzo di Evita Greco (Ancona. 1985) che, dopo aver avuto diagnosi di dislessia e provato vari lavori, si dedica intensamente a una scrittura delicata, piena di piccole cose, segnata dalla recente doppia maternità, un evento irreversibile sia per le donne che per i bimbi.

 

Maksim Gor’kij

«Lenin, un uomo»

traduzione e cura di Marco Caratozzolo

Sellerio

originale 1924-1931, varie versioni;  precedenti edizioni italiane: 1947, 1961, 1974

168 pagine, 13 euro

Unione Sovietica. Gennaio 1924. Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin (1870-1924) morì il 24 gennaio, l’URSS c’era da poco più di un anno e durò poi fino al dicembre 1991. Il grande scrittore autodidatta del “realismo socialista” Maksim Gor’kij (1868-1936), marxista dubbioso, lo frequentò a Capri e durante i primi anni della Rivoluzione, mantenendo opinioni autonome e spesso diverse. Commosso e abbattuto dalla scomparsa, raccontò con garbo e sensibilità critica «Lenin, un uomo», evidenziando ricordi e tratti personali in una serie di scritti di getto, poi successivamente più volte rimaneggiati, variamente usciti anche in Italia. L’utile accurata lunga introduzione del ricercatore Marco Caratozzolo (Napoli, 1975) colloca le (47) riflessioni di Gor’kij nel contesto storico e nel dipanarsi del rapporto con Lenin, ricostruendo dettagliatamente sia le versioni pubblicate che le traduzioni precedenti. Opportuno l’indice finale dei nomi.

 

Lamberto Gherpelli

«Che razza di calcio»

Edizioni GruppoAbele

240 pagine, 15 euro

Campi di calcio. 1863-2018. Quando il football fu inventato dagli inglesi, già gli sportivi di colore erano discriminati in gran parte del mondo, c’erano in giro molta schiavitù e razzismo. Con gli anni e i decenni l’apertura ai bravi calciatori di colore fu comunque molto selettiva, ancora quasi un secolo fa solo Uruguay e Francia ne schierarono uno in Nazionale. Per l’Italia i primi meticci (“oriundi”) schierati furono all’estero Oshadogan nel 1996 e in patria Liverani nel 2001. A vedere ora le nazionali maschili e femminili di volley o basket non si direbbe! In realtà, pure oggi è proprio nel calcio italiano che si annida maggiormente il razzismo. I cori contro i neri spesso non sono osteggiati dalle società, anche tra i giocatori talora si annidano pregiudizi. Con un ottimo documentato testo, «Che razza di calcio», il giornalista Lamberto Gherpelli (Reggio Emilia, 1959) narra gli episodi di discriminazione dalle origini a oggi.

 

James C. Scott

«Le origini della civiltà. Una controstoria»

traduzione di Maddalena Ferrara

Einaudi

260 pagine, 28 euro

Mesopotamia, Mezzaluna fertile. Tra 8.500 e 3.600 anni fa. È un luogo comune che, dopo la fine dell’ultima glaciazione, la domesticazione di piante e animali da parte di Homo sapiens abbia condotto alla sedentarietà e all’agricoltura stanziale. Sbagliato. Vi sono di mezzo circa cinquemila anni in cui la maggior parte degli umani viveva in altro modo, la sedentarietà precedette la domesticazione ed entrambe esistevano molto prima che apparissero villaggi agricoli. Certo, quello contadino fu il primo lavoro vero e proprio, però chi lo faceva, costretto per ragioni di sussistenza e mancanza di alternative, stava peggio non meglio. La vita fuori dai campi coltivati e poi dalle residenze agricole era materialmente più facile, libera e sana, almeno per gli umani non schiavi (per loro era pessima ovunque). Qui l’attenzione si concentra quasi esclusivamente sulla Mesopotamia, la piana alluvionale meridionale a sud dell’odierna Bassora tra il Tigri e l’Eufrate, il Paese di Sumer, poi la zona dei Sumeri. L’intervallo di tempo particolarmente approfondito va dalla cultura di Ubaid al periodo babilonese antico, con al centro la fase chiave della costruzione delle città murate (Uruk e poi altre) e della formazione degli stati primordiali. Si parte da lontano, dalla prima domesticazione (come controllo della riproduzione), quella del fuoco (Homo erectus, quasi mezzo milione di anni fa in Africa) e si va oltre quella contadina di piante e animali, per interpretare così anche l’assoggettamento degli schiavi allo stato e delle donne nella famiglia patriarcale. Fu un periodo cruciale per tutta la successiva enorme costruzione dell’impronta umana sulla Terra, un anticipo dell’Antropocene.

Lo scienziato americano di politica e antropologia James C. Scott (Mount Holly, New Jersey, 1936), docente a Yale, esperto finora soprattutto di Stati antichi e anarchismo, ha dedicato l’ultimo quinquennio a studiare meglio il nesso ecologico nell’era del Neolitico fra mobili cacciatori-raccoglitori e primi contadini residenti, fra cereali e organizzazioni amministrative. All’inizio la popolazione mondiale non crebbe. La faticosa opzione stanziale sarebbe stata poi imposta dalle circostanze climatiche, risultando biologicamente vantaggiosa per il lentissimo saldo attivo fra maggior tasso di fertilità e riproduzione pure rispetto al maggior tasso di malattie infettive croniche acute e mortalità infantile. L’autore sottolinea le questioni cruciali, capitolo dopo capitolo, con molti dati e feconde riflessioni: l’importanza dei cambiamenti climatici e particolarmente delle terre umide nel garantire l’approvvigionamento alimentare; l’affollamento di popolazione che si determinò con conseguenti malattie epidemiche; la specificità del grano (da cui il titolo originale) nel determinare condizioni per la creazione delle mura e degli Stati (obbligato lavoro fisso e duro, misurazione registrazione contabilità, esazione fiscale, difesa dei raccolti, infine scrittura); la crescita di poteri sovrani e il controllo della popolazione interna ed esterna tramite schiavitù, guerre, deportazioni; la fragilità climatica, epidemiologica e sociale dello stato antico e la lunga epoca d’oro dei barbari o selvaggi che potevano razziare chi stava “fermo”. Rimarchevoli sia le note che gli spunti, talora solo provocatori e non sempre efficaci. Molte le figure interessanti e originali (foto, mappe, schemi), ricca bibliografia.

Redazione
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