Messico: c’è altro da non dimenticare

Una riflessione di Gustavo Esteva (*)

Cinquant’anni dopo il massacro di centinaia di studenti nella piazza Tre Culture a Città del Messico, il neopresidente Andrés Manuel López Obrador ha promesso che non sarà più usata la forza per reprimere i movimenti sociali.

Non dobbiamo dimenticare. Ma neanche insabbiare.

Il 2 di ottobre è stato detto e scritto ciò che era necessario, ma rimangono ancora da trarre le adeguate conseguenze della commemorazione e ricordare il contesto.

Come insistono a dire i genitori di Ayotzinapa, la prima cosa è la verità. Non può esserci giustizia se non conosciamo la verità. Ha detto bene Rosario Castellanos: “Non frugare negli archivi, perché non risulta nulla agli atti (…) Ricordo, ricordiamo / finché la giustizia non viene in mezzo a noi”.

Tuttavia, che cosa sarebbe la giustizia? Riesumare Díaz Ordaz e arrestare Echeverría? Scovare o screditare ulteriori colpevoli? È sufficiente far luce sui fatti e punire i colpevoli? In ciò consiste la giustizia? È questo ciò che cerchiamo oggi per tutti i crimini di cui sopra?

Una delle madri di Ayotzinapa ha indicato la via: non recupererà la serenità fino a quando ciò che è successo a suo figlio non potrà più succedere a nessuno. Prendiamola sul serio. Che cosa occorre perché sia così?

Il monopolio della violenza legittima concessa allo Stato è andato perduto da tempo in Messico; i governi non hanno più il monopolio della violenza e meno ancora la legittimità. Quella di AMLO sembra essere fuori discussione. È sufficiente? C’è senza dubbio un’apertura alla speranza (Magdalena Gómez, La Jornada, 2/10/18). Il presidente eletto si impegna a non usare più la forza per reprimere i movimenti sociali. Ma “il suo impegno personale (…) non garantisce che ciò non avvenga di nuovo” (Luis Hernández Navarro, La Jornada, 2/10/18).

Il problema non è fidarsi oppure no della sua parola, ma chiedersi se questo è tutto. In fin dei conti, è in gioco il modello stesso dello Stato-nazione, che è solo la forma politica del capitalismo e una struttura di dominio e di controllo, teoricamente democratica. Può esserci una reale possibilità di giustizia soltanto se adottiamo un nuovo orizzonte politico, al di là di quella struttura.

Questo è ciò che comincia ad emergere. “È il momento (…) di cominciare a costruire l’autonomia della base sociale (…) e trovare alternative comunitarie allo Stato-nazione”, si sostiene all’interno del movimento catalano. L’11 settembre, festa nazionale della Catalogna, è risuonato lo slogan: il popolo comanda, il governo obbedisce” (Mireia Pérez, La Jornada, 1/10/18).

Aveva ragione il compianto sup Marcos quando diceva che il ’68 è stato più che Tlatelolco. È stato la strada come territorio della politica altra, quella dal basso, quella nuova, lottatrice e ribelle. È stato l’imparare dal confronto aperto tra vari modi di fare politica. Trent’anni dopo, scrisse il sup Marcos nel 1998, la lotta continua  (2/10/1998).

Un movimento incentrato sugli universitari ha aperto loro spazi politici, economici e sociali. Ha fatto anche fare dei passi avanti verso la normalità democratica. Non bisogna sottovalutare il suo contributo, diretto e indiretto, alla chiusura del ciclo di dominazione che per 90 anni associamo al Partito Rivoluzionario Popolare e che si è concluso il primo luglio scorso, sebbene ci siano ancora in circolazione degli zombie che gli sono fedeli e altri vogliano prendere il testimone nelle proprie mani.

La strage del 26 settembre 2014 a Iguala, in Messico colpì gli studenti della Escuela Normal Rural Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa. Sei furono uccisi subito, 25 feriti gravemente, 43 fatti scomparire. Le responsabilità furono subito chiare: era stato lo Stato. Foto Horizontal.mx

Manca quello che manca. Ricordando e commemorando l’altra politica, quella dal basso, non dimentichiamo il contesto da cui è germogliata. Per buoni motivi si mettono in evidenza Berkeley, il maggio di Parigi, Tlatelolco… Ma i riflettori sull’anno 1968 e sugli studenti possono impedirci di vedere l’intero decennio, che non si può non chiamare rivoluzionario.

C’è stato realmente uno spirito degli anni Sessanta, e accanto ad una corrente individualista ce n’è stata un’altra, solidale e comunitaria; è stato messo tutto in discussione: la famiglia, il lavoro, l’educazione, il successo, il senno, la pazzia, la cura dei bambini, l’amore, l’urbanesimo, la scienza, la tecnologia, il progresso, la ricchezza (José Ma. Sbert, 2009). Bisognava cambiare tutto (Germán Dehesa, 1997). The sky is the limit [Il limite è il cielo]. È decollato un nuovo movimento femminista, quando Betty Friedan ha fondato nel 1966 la National Organization for Women. C’è stato Martin Luther King. “Sembrava che in un lampo si potesse vedere tutto ciò che una società aveva di intollerabile, e nello stesso tempo le possibilità di un’altra realtà sociale… Per l’80% dell’umanità è stato come se il medioevo finisse all’improvviso negli anni Sessanta” (Henri Weber, 1998). Ed è successa una cosa molto importante: d’un tratto si è cominciato a credere nel substrato degli esclusi e dei disadattati, degli sfruttati e dei perseguitati per motivi razziali, dei dis-occupati e dei non-occupabili (Marcuse, in Kumar 1991). I giovani “non desiderano un futuro come il nostro, il futuro di noi che abbiamo dimostrato di essere codardi (…) distrutti dall’obbedienza, vittime di un sistema chiuso” (Sartre, in Winock 1997). Il decennio termina come un ciclone. Praga, le Guardie Rosse, le Pantere Nere, Woodstock…

È stato un errore agganciarsi alla rivoluzione di leader che l’hanno tradita.Ma non hanno sbagliato quelli che hanno creato la Commissione Trilaterale per soffocarla e hanno inventato l’equivoca etichetta ‘neoliberale’ per la loro campagna. Questo è ciò che termina ora. Comincia ad essere possibile, in mezzo all’orrore e alla devastazione, ciò che allora non ha potuto avere luogo.

(*) Traduzione a cura di Camminar domandando

Fonte originale: “El olvido otro”, La Jornada, 8/10/2018 – Ripreso da Comune-Info

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