Cenni di rivolta nell’Iran piegato dalla crisi

di MARINA FORTI (*)

Dalle fabbriche presidiate dagli operai alle proteste degli insegnanti, l’Iran è scosso da un malcontento diffuso. Con il dispiegarsi degli effetti delle sanzioni, l’ondata di agitazioni è destinata a intensificarsi. Il riformista Rouhani corre ai ripari rafforzando l’intervento dello Stato

A man holds Iranian rials at a currency exchange shop, before the start of the U.S. sanctions on Tehran, in Basra, Iraq November 3, 2018. Picture taken November 3, 2018. REUTERS/Essam al-Sudani

 

Cambio dollari-rial, alla vigilia dell’entrata in vigore delle sanzioni Usa più dure, 3 novembre 2018. REUTERS/Essam al-Sudani

Un’acciaieria presidiata dai lavoratori, uno zuccherificio fermo da venti giorni per sciopero, gli insegnanti in agitazione in tutto il Paese: l’Iran è percorso nelle ultime settimane da un’ondata di proteste che coinvolge varie categorie sociali. Segno del profondo malessere diffuso nel Paese, un senso di incertezza aggravata dalle nuove sanzioni imposte dagli Stati Uniti contro la Repubblica Islamica.


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Alcune delle ultime proteste sono arrivate anche sulle pagine dei giornali. Una è quella della Haft Tappeh Sugarcane Agro-Industry Company, stabilimento che lavora la canna da zucchero, un migliaio di dipendenti alle porte della città di Sush, nell’Iran sud-occidentale. Nelle ultime tre settimane i lavoratori sono andati più volte in corteo a protestare davanti agli uffici del governatore provinciale: non ricevono i salari ormai da parecchi mesi, chiedono il pagamento degli arretrati. Hanno manifestato perfino durante la preghiera centrale del venerdì – ogni città iraniana ha un predicatore ufficiale, di solito espressione del clero più vicino al sistema politico della Repubblica islamica.

All’ultimo corteo, il 20 novembre, sotto gli uffici del governatore erano presenti anche le famiglie degli operai. Iran, quotidiano governativo, cita la moglie di un lavoratore: «È perché abbiamo la pancia vuota», spiega. Dopo mesi senza stipendio le famiglie non sanno più come tirare avanti. La loro protesta ha suscitato una generale simpatia e grande risalto sui social media; gruppi di studenti in tutto il Paese hanno solidarizzato. Finalmente, il governatore della provincia del Khuzestan ha promesso di rivolgersi al ministro delle Finanze per trovare una soluzione.

Intanto, nonostante le proteste siano state sempre pacifiche, alcuni lavoratori sono stati arrestati ­ – le autorità confermano quattro arresti – tra cui una giornalista che seguiva gli eventi: così ora i cortei operai chiedono anche la loro scarcerazione.

Non lontano da Sush, nella città di Ahvaz sono in rivolta invece gli operai di un’acciaieria, la National Steel Industrial Group. Il 10 novembre hanno scioperato per chiedere il pagamento di due mesi di salari arretrati. Qualche giorno dopo sono tornati a bloccare il lavoro; il 14 novembre sono andati in corteo davanti agli uffici dei due deputati eletti nella circoscrizione di Ahvaz, e poi alla sede del governatore. Temono per il proprio posto di lavoro: dicono che da qualche tempo l’azienda non ordina le materie prime necessarie, come se avesse deciso di chiudere. Così, «anche se ci pagassero all’istante gli arretrati, non metteremo fine alla nostra protesta finché non vediamo tornare le materie prime per riprendere la produzione», ha detto un manifestante, citato in modo anonimo dall’agenzia di stampa Ilna, vicina al Partito del lavoro, una corrente riformista. Il gruppo Nsig occupa quattromila operai in quattro diversi stabilimenti e di recente è stato rilevato da Bank Melli, banca di proprietà dello Stato, una sorta di salvataggio semi-pubblico per un’azienda in crisi.

Lo zuccherificio Haft Tappeh invece sembra un caso di gestione fraudolenta. Già un anno fa, in dicembre, i lavoratori avevano scioperato denunciando cinque mesi di stipendi non pagati; la protesta era finita quando l’azienda ha versato un mese arretrato e promesso il resto in tempi brevi. Poi però non ha mantenuto l’impegno; anzi, secondo notizie di stampa il proprietario dell’azienda ora è in fuga. La cosa suscita particolare indignazione perché lo zuccherificio Haft Tappeh è stato privatizzato nel 2015; il nuovo proprietario l’ha pagato meno di 2 milioni di dollari e ha anche ricevuto dallo stato 800 milioni di dollari in crediti agevolati per rilanciare l’attività. Ma la sua gestione è stata fallimentare.

Sull’identità del proprietario circolano notizie contraddittorie. Tempo fa era circolato il nome del giovane e inetto rampollo di una famiglia proprietaria di una holding con diverse attività e ben ammanicata con il potere. Di recente alcuni giornali hanno scritto invece che si tratta di un nipote del primo vicepresidente della repubblica Ishaq Jahangiri, esponente di primo piano dello schieramento riformista: tanto che Jahangiri è stato costretto a smentire pubblicamente, denunciando una guerriglia mediatica contro il governo.

Le acciaierie di Ahvaz o lo zuccherificio Haft Tappeh sono più volte finiti sulle pagine dei giornali ma non sono casi unici. Al contrario: da un paio d’anni in Iran le notizie di scioperi e proteste sono ricorrenti. Operai dell’industria, impiegati pubblici, pensionati, minatori, molto spesso per rivendicare stipendi o pensioni in cronico ritardo. Spesso si tratta di casi circoscritti, localizzati, questa o quella azienda o ufficio: così restano frammentari e anche per questo passano inosservati.

A volte invece le proteste arrivano a fare notizia, come l’estate scorsa quando uno sciopero dei camionisti ha preso ampiezza nazionale. O come quando sono scesi in campo gli insegnanti, protagonisti di un movimento che nella scorsa stagione si era esteso a numerose città iraniane: ora è ripreso, appena un mese dopo l’inizio del nuovo anno scolastico, con una giornata di sciopero in ottobre e poi varie giornate di assemblee con gli studenti. A volte le proteste vengono enfatizzate dall’opposizione conservatrice, per attaccare il governo del presidente Hassan Rouhani e accusarlo di incapacità, o di favorire le élites e aver perso il contatto con il Paese reale. Va detto che gli insegnanti, al contrario, sono tacciati dai media conservatori di creare disordine (il loro sindacato è tradizionalmente vicino ai riformisti) e anche tra di essi si contano già numerosi arresti.

L’ondata di agitazioni sembra destinata a intensificarsi. In settembre il parlamento iraniano ha diffuso un rapporto sulla situazione sociale comprensibilmente allarmato: afferma che la disoccupazione galoppante minaccia la stabilità del Paese. «Un’inflazione intorno al 10% e un tasso di disoccupazione che supera il 12% sono la principale causa delle recenti proteste», afferma il documento. E avverte: se la situazione economica è la principale molla dei conflitti sociali visti finora, «non osiamo immaginare l’intensità delle reazioni di fronte a una impennata di inflazione e al crollo dell’occupazione» (riprendo dall’agenzia Reuter, 23 novembre).

Il fatto è che l’incertezza del futuro è destabilizzante e il primo effetto delle nuove sanzioni decretate dagli Stati Uniti contro l’Iran è stato un drastico rallentamento delle attività economiche. Il valore del rial iraniano è crollato dall’inizio dell’anno, ancor prima che Trump annunciasse il ritiro dall’accordo sul nucleare: in gennaio era cambiato a 40mila rial per un dollaro, in maggio a 60mila, nell’estate ha toccato quota 120 mila. Ogni prodotto d’importazione è rincarato di conseguenza e anche l’import di materie prime o componenti per l’industria.

Poi sono arrivate le sanzioni: da settembre colpiscono l’acquisto di dollari e oro, e l’industria automobilistica; dal 4 novembre anche petrolio e gas, voci principali dell’export iraniano. L’impatto delle sanzioni resta da valutare, resta da vedere in che misura le altre nazioni firmatarie dell’accordo sul nucleare, Europa in testa, riusciranno a mantenere aperti canali commerciali con l’Iran.

Intanto però centinaia di aziende hanno chiuso. Le case automobilistiche straniere sono state le prime ad andarsene: le francesi Peugeot e Citroen, la coreana Hundai, la giapponese Mazda, che avevano avviato grandi investimenti dopo la firma dell’accordo sul nucleare, hanno lasciato l’Iran nei mesi scorsi per non incorrere in sanzioni secondarie, quelle che gli Stati Uniti impongono a imprese di Paesi terzi se restano in affari con l’Iran. Oltre 300 aziende di ricambi per auto e motori hanno chiuso di conseguenza. Gli investitori stranieri si sono defilati, le imprese iraniane sono in difficoltà.

In agosto l’allora ministro del lavoro Ali Rabei aveva detto che circa un milione di iraniani rischiavano di perdere il lavoro entro la fine dell’anno in conseguenza della pressione economica provocata dalle sanzioni degli Stati Uniti. La crisi colpisce in particolare i giovani, per cui la disoccupazione supera il 25% secondo stime ufficiali, ma molti analisti scommettono che sia ben più alta, e tocca punte del 50% tra i giovani con buoni titoli di studio. In un Paese dove due terzi della popolazione ha meno di trent’anni ed è ben istruita, un’intera generazione si sente defraudata del futuro.

Con un quadro simile, il presidente Rouhani ha adottato una linea di gestione della crisi. Lo dimostra il recentissimo rimpasto di governo: in agosto sono stati dimessi i ministri dell’Industria e Commercio, quello del Lavoro e Welfare, poi quelli dell’Economia e dello Sviluppo urbano, ovvero i quattro ministeri chiave per la politica economica.

Dopo alcune settimane di trattative con il parlamento, che deve votare la fiducia a ogni singolo nome proposto, una nuova squadra di ministri si è insediata. Con l’occasione Rouhani ha annunciato le sue priorità per far fronte alle sanzioni: garantire l’approvvigionamento di beni essenziali; combattere la corruzione; garantire i servizi sociali; stabilizzare l’occupazione, riformare il sistema bancario, prevenire l’iperinflazione, assicurare liquidità alle imprese, affrontare la crisi degli alloggi. In altre parole, un governo che puntava sulle riforme strutturali di mercato per stimolare gli investimenti privati sia interni che stranieri, ora si è rassegnato a intensificare l’intervento dello Stato.

Molti fanno paralleli con gli anni ’80, ai tempi della guerra Iran-Iraq, quando il governo iraniano aveva saputo evitare penurie e accaparramenti. «La nostra priorità è creare lavoro», ha dichiarato giorni fa il vicepresidente Jehangiri, ripreso da numerosi media di Stato: «Non permetteremo che imprese produttive cadano nella stagnazione a causa delle sanzioni».

Intanto gli operai dello zuccherificio Haft Tappeh e delle acciaierie di Ahvaz aspettano i loro salari, e tanti altri come loro: non sarà una sfida facile.

(*) ripreso da eastwest.eu/it/

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