Cent’anni fa il Pci

Alcuni estratti dal libro «C’era una volta il Pci» di Piero Bernocchi e Roberto Massari (*) da oggi nelle librerie. A seguire una breve nota di db.

Il peccato originale del PCI

di Piero Bernocchi

Una nascita disastrosa, una giovinezza succube dello stalinismo, una età adulta al servizio delle istituzioni nazionali e del Patto di Yalta, una morte ingloriosa a 70 anni: questa mi pare la sintesi, certo brutalmente icastica, della storia del Partito comunista italiano […]. Storia che, però, nasce soprattutto con un gravissimo peccato originale. Il peccato originale del PCI (alla nascita PCd’I, con tanto di apostrofo, per sottolineare che i comunisti italiani non si identificavano con il loro Paese, che non si stava fondando un “comunismo italiano”, ma una sezione nazionale del Faro Sovietico della Rivoluzione mondiale) in poche parole mi pare questo: nasce nel momento più drammatico della storia italiana del Novecento, mentre l’ascesa del fascismo è lampante, e lo fa senza avere la minima idea di cosa fosse diventata la società italiana dopo le distruzioni belliche, sfasciando tutto lo sfasciabile, spalancando le porte al trionfo di Mussolini, in preda ad una sorta di “delirio rivoluzionario” che obnubila il gruppo dirigente e i militanti più convinti, accecati dalla luce della Rivoluzione d’Ottobre. E questo “peccato originale” si accompagna e si motiva con una subordinazione totale, come in nessun altro partito comunista europeo, al bolscevismo sovietico malgrado quest’ultimo, nei quattro anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ne avesse già cambiato seccamente il segno, abolendo prima l’Assemblea costituente, poi i Soviet e poi ogni organo di rappresentanza istituzionale e partitica che non fosse il Partito comunista stesso. […]

Il “delirio rivoluzionario”, che indusse i comunisti italiani a operare la catastrofica scissione del Partito socialista il 21 gennaio 1921, può essere ben sintetizzato nei dieci punti (sintesi dei 21 punti che i sovietici imposero a chiunque volesse costituire partiti comunisti e entrare a far parte dell’Internazionale Comunista) che il Congresso di Livorno del Partito socialista ovviamente non poteva accettare e che divennero il programma politico della nuova formazione, ufficializzati il 31 gennaio 1921 sul proprio organo di stampa Il Comunista. […]

Dunque, mentre le squadracce fasciste imperversavano in Italia e Mussolini conquistava “trasversalmente” alla sua causa sempre più settori sociali, ceti e classi, e dopo il fallimento del “biennio rosso” e delle lotte nelle fabbriche del Nord, il Partito comunista nasceva preconizzando a breve «l’abbattimento violento del potere borghese… e la distruzione del suo apparato statale»; e assegnava questo immane compito solo alla classe produttiva, cioè a quel proletariato di fabbrica non solo già sconfitto nel biennio precedente ma numericamente significativo solo nei poli industriali del Nord più, in subordine, ad un bracciantato agricolo che ben pochi segni di spirito rivoluzionario aveva manifestato in precedenza, attribuendo solo a questi settori sociali i futuri diritti politici, di propaganda e di libertà di stampa che i comunisti si impegnavano a togliere non solo alla borghesia ma anche a tutti «i partiti avversi alla dittatura proletaria» e ai settori sociali da essi rappresentati. E il tutto, in un quadro in cui si interpretava la rivoluzione russa (che gli estensori del programma fingevano di considerare fondata su Soviet che, dopo una fugacissima apparizione strumentale, erano già stati cancellati da tempo) «come inizio della rivoluzione proletaria mondiale» due anni dopo il soffocamento nel sangue del movimento spartachista tedesco e la assoluta normalizzazione ”borghese” nell’unico Paese, la Germania, che nel 1918 ci si era illusi potesse seguire le orme della rivoluzione russa. […]

E in primo luogo è davvero sconcertante, ancora oggi, leggere cosa scriveva, a proposito della società italiana degli anni post-bellici, Antonio Gramsci, l’unico leader comunista italiano apprezzato urbi et orbi e con immutata stima generale nei cento anni passati fino ad ora. E’ probabile che nei giudizi che Gramsci, nel biennio precedente alla fondazione del partito comunista, dette proprio sulle classi e sui ceti sociali che furono decisivi (a nostro avviso almeno quanto, se non più del padronato industriale e agricolo e dello stesso Vaticano) nel trionfo del fascismo – e che Mussolini dimostrò di conoscere assai più del gruppo dirigente comunista – e in particolare sulla cosiddetta “piccola borghesia” (termine general-generico usato da tutta la pubblicistica del comunismo ottocentesco e novecentesco per indicare tutto ciò che non fosse proletariato di fabbrica o agricolo o borghesia), pesassero molto i decenni di disprezzo, contumelie e ostilità che la sinistra marxista aveva riservato a questo insieme di strati e ceti sociali, dai quali paradossalmente essa stessa, nella grande maggioranza, proveniva. Ma i giudizi feroci, e alieni dalla realtà fattuale, di un sofisticato intellettuale del genere lasciano a tutt’oggi comunque sconcertati. Ecco ad esempio cosa scriveva Gramsci […]

Di contro al feroce odio sociale e disprezzo riversati con queste parole, in maniera indiscriminata e ultrasettaria, su milioni di persone – tra cui maestri elementari e insegnanti, artigiani e piccoli imprenditori, dipendenti pubblici e negozianti, tutti dipinti come «dissoluti e putrescenti» parassiti, «lacché abietti e corrotti», per i quali Gramsci, che pure da tali ceti proveniva (l’unico lavoro da lui svolto fu quello di giornalista, non proprio un’attività da proletario industriale o agricolo) come quasi tutta la leadership socialista e comunista, non trovava di meglio che proporre «l’espulsione dal campo sociale come si espelle una folata di locuste, col ferro e col fuoco» – si può ritrovare nello stesso articolo un’esaltazione altrettanto indiscriminata e sproporzionata degli operai “di città”, considerati senza eccezioni «rivoluzionari per educazione», e della fabbrica «come luogo dove deve iniziare la liberazione».

[…] Che il gruppo dirigente del futuro Partito comunista d’Italia – così come la quasi totalità di quel Partito socialista di cui esso costituiva al momento l’ala sinistra e che pochi mesi prima alle elezioni politiche aveva pur raggiunto il 34% dei voti, in gran parte proprio tra quei ceti “piccolo-borghesi” violentemente impoveriti dalla guerra – avesse capito ben poco del sommovimento che la disastrosa partecipazione alla guerra aveva provocato nell’intero corpo della società italiana, ma in particolare in vasti settori di salariati non operai nonché di piccola e anche di media borghesia impoverita e sbandata, ci pare, a cento anni di distanza, una verità storica abbondantemente acclarata.

[…] Soltanto pochi mesi dopo, nell’estate 1921 gli Arditi d’Italia (era la più consistente delle organizzazioni degli ex-combattenti, raggruppando tanti reduci di guerra, e anche la più odiata dai comunisti per la sua funzione di sostegno al movimento fascista) si scindevano in due parti più o meno equivalenti e, a sinistra, nascevano gli Arditi del Popolo, con l’intento dichiarato, e subito messo in atto, di creare gruppi armati a livello nazionale in grado di opporsi alle sempre più aggressive squadre d’azione fasciste, e con un simbolo inequivocabile: una scure che rompeva un fascio littorio. Molti studi sostengono che nel luglio 1921 gli Arditi avessero dai 20 mila ai 50 mila membri (a seconda che si calcolassero solo gli iscritti, o anche i simpatizzanti e i partecipanti alle azioni), con almeno 150 sezioni in tutta Italia. Politicamente l’iniziativa era partita dal gruppo romano guidato dall’anarchico Argo Secondari, ex-tenente dei reparti d’assalto; ma vi militavano a pari titolo comunisti e anarchici, socialisti e repubblicani, cattolici e ex-dannunziani, senza partito e anche gente che fino a poco prima aveva militato nel movimento fascista, convinta di trovarsi tra “estremisti” socialisti. Ma ancor più interessante ne era la composizione sociale che registrava, fianco a fianco, operai e impiegati comunali, contadini e artigiani, studenti e insegnanti, dipendenti pubblici e disoccupati, reduci di guerra e gente che il militare non lo aveva neanche mai fatto. Insomma, si trattava in embrione di una combattiva, coraggiosa e agguerrita rappresentanza di quella coalizione sociale che avrebbe potuto non solo stoppare il fascismo ma, con un’alleanza a largo respiro, mettere davvero alle corde il potere economico e politico borghese dell’epoca. Eppure, malgrado gli Arditi finissero per costituire su scala nazionale l’unica vera resistenza armata al fascismo, ben più concreta dei fumosi proclami verbali dei dirigenti comunisti sulla necessità dell’armamento operaio, e nonostante le loro prime azioni di difesa cittadina (tra tutte quelle vittoriose di Sarzana e Viterbo) creassero incrinature tra le componenti fasciste più “moderate” e quelle più oltranziste, né i comunisti né i socialisti approfittarono di quella insperata, considerevole e di fatto ultima occasione per sconfiggere il sempre più violento e montante fascismo. L’esasperato settarismo politico di Bordiga – che aveva la maggioranza nel nascente PCdI – malgrado la presa di posizione dei bolscevichi, della Terza Internazionale e dello stesso Lenin favorevoli ad un’alleanza con gli Arditi, finì per combinarsi con l’ultra-operaismo di Gramsci, il quale, pur favorevole di per sé a tale alleanza politica, ne entrava in contraddizione sul piano sociale a causa della sua drastica ostilità a quel «sovversivismo piccolo-borghese» che aveva giudicato, fino a pochi mesi prima, irreparabilmente reazionario, mentre ora una significativa parte di esso confluiva nella resistenza degli Arditi.

L’esaltazione per la vittoria bolscevica in Russia e per la fondazione del PCdI fece il resto ed accentuò il rifiuto sia delle alleanze politiche con socialisti, anarchici e popolari, sia di quelle sociali con gli strati “piccolo borghesi” disponibili, mentre il fatto che non fosse il Partito comunista a guidare la resistenza al fascismo degli Arditi del Popolo comportò un’ulteriore ostilità e l’isolamento progressivo di questa gloriosa esperienza e la sconfitta sanguinosa di un tentativo così coraggioso – che ebbe un punto culminante nella difesa di Parma contro diecimila squadristi fascisti che dovettero abbandonare la città con grande scorno politico e militare – e nello stesso tempo capace di superare, almeno in potenza, barriere ideologiche e sociali ingigantite dalla rigida ortodossia comunista, tragicamente incapace a capire la realtà di quegli anni. E fu la catastrofe: il fascismo trionfò e in breve tempo in Italia non restò traccia di operai “rivoluzionari” o resistenze, armate o meno, di comunisti e terzinternazionalisti, lasciando a tanti storici (ad esempio il Tom Behan di The resistibile rise of Benito Mussolini) la convinzione che un’alleanza di socialisti, comunisti e popolari con le forze degli Arditi e con gli anarchici avrebbe potuto fermare la «resistibile ascesa di Mussolini».

(*) Il libro è uscito oggi, pubblicato da Massari Editore: si può acquistare nelle librerie o presso l’editore.

UNA NOTA DI DB

Non proprio una “scordata” la nascita del Pci … ma certamente interpretata nei modi più diversi. L’occasione del centenario produrrà di certo tantissima aria fritta ma si spera anche discussioni utili. Di certo riaprirà molte ferite nella sinistra italiana; anzi nelle sinistre … perchè io ne ho sempre vista più d’una. Qui in “bottega” nella piccola redazione mi pare (se sbaglio verrò corretto) che nessuna/o sia mai stato militante del Pci: per chi è più giovane il motivo è ovvio; per gli altri (è il mio caso) e le altre fu una scelta, eravamo nella sinistra extra-parlamentare e/o nei movimenti che spesso si contrapposero alle scelte politiche del Pci.

Nei nostri limiti – soprattutto di spazio – cercheremo di offrire in “bottega” voci diverse (lo facciamo sempre) sull’evento storico ma anche sul senso e le ragioni del comunismo oggi che, secondo il mio modo di vedere, dovrà essere libertario quanto anticapitalista.

Sempre nei nostri limiti segnaleremo le iniziative che ci sembrano interessanti. Domani per esempio uscirà uno speciale sul “centenario” all’interno del quotidiano «il manifesto» (che sotto la testata continua a dichiararsi «quotidiano comunista», seppur dell’ala più eretica). E qui sotto trovate la segnalazione di un appuntamento che ci è stato inviato da compagne/i di «Sinistra Classe Rivoluzione».

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Gramsci, Bordiga e la nascita del Partito Comunista d’Italia 

Sabato 23 gennaio dalle 14.30 alle 19.30  

Ricorre quest’anno il centesimo anniversario della nascita del Partito comunista d’Italia.

Quali sono state le lotte e le idee che hanno segnato la fondazione del movimento comunista nel nostro paese?

Che ruolo ha giocato Antonio Gramsci in questo processo?

Quali lezioni possiamo trarre dal passato per orientare oggi una battaglia rivoluzionaria contro il capitalismo?

Il seminario nazionale sarà su Zoom Per partecipare, iscriviti a questo link.

A questi link gli ultimi due articoli che abbiamo pubblicato sul sito marxismo.net in preparazione del seminario.

AMADEO BORDIGA – ASCESA E CADUTA DI UN RIVOLUZIONARIO 

ANTONIO GRAMSCI, DAGLI SCRITTI GIOVANILI ALLA SCISSIONE DI LIVORNO

I primi cinque anni del Partito Comunista d’Italia e l’Internazionale Comunista

Serrati, il massimalismo e la nascita del Partito Comunista d’Italia

Sinistra Classe Rivoluzione

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

8 commenti

  • Mi chiedo, come mai il sig. Bernocchi ritiene necessario ed opportuno lanciarsi in una filippica denigratoria del Partito Comunista e della sua storia? Se non gli piace, faccia a meno di tranciare giudizi.
    Non è bello e neppure opportuno usare il web come luogo per sfogare le proprie ire sopite ed i propri giudizi onnipotenti sulla storia. Onnipotenti, perchè è facile gettar parole sulle complesse realtà del mondo, svalutandole moralmente. Come fa l’etica religiosa, che condanna la colpa, come destino umano e non conosce altro valore che il suo.
    La Storia, anche quella del Partito comunista va studiata, va compresa nella sua straordinaria complessità di organismo composto di milioni di persone, va apprezzata per la funzione civilizzatrice che ha avuto presso la società italiana, per i diritti del lavoro che ha sostenuto e, non ultima per la straordinaria spinta a studiare e a conoscere che ha dato a centinaia di migliaia di italiani, aiutandoli ad uscire dalle miserie della cultura cattolica tradizionale e della subordinazione passiva alle classi sfruttatrici.
    Se posso azzardare una spiegazione per tanto livore, penso che ciò che non si perdona alle vite di tanti militanti del comunismo sia il fatto che, oggettivamente, hanno vissuto una forte identità, umana e storica. Questo in un paese che tuttora è pieno di opportunismo, servilismo e parassitismo.

    • Maria Paola Fanni

      Anch’io trovo denigratorio e livoroso l’articolo qui pubblicato. Non c’è nessuna ricostruzione storica della complessità e della ricchezza del dibattito che accompagna la scissione e quel che ne segue nella difficile situazione internazionale. Infamante e ignobile il giudizio su Gramsci.
      Che dire? inventare la storia anzi che studiarla e sforzarsi di comprenderla, è in linea con quella tendenza revisionistica della storia, sempre cara alle classi dirigenti, liberisti e filofascisti.
      Finalmente è una storia che sta venendo a galla, e chi vuole conoscerla, se non l’ha vissuta, può farlo grazie alle recenti pubblicazioni di veri storici.

  • Nasce rivoluzionario e smarrisce la via, complici i regimi autoritari del cosiddetto socialismo reale. Che meglio sarebbe definire socialismo irrealizzato.
    Il marxismo-leninismo era una ipotesi vecchia e sconfitta già nel 1968. I gruppi della Sinistra rivoluzionaria spazzarono via la parte più vera e libertaria di quel movimento e imposero la loro egemonia.
    Gli esiti nefasti sono sotto gli occhi di tutti.
    Nessun rimpianto del vecchio Picci, ci mancherebbe.
    Bisognerebbe prendere atto di quella che impropriamente viene chiamata “sconfitta” e cercare altre strade per la rivoluzione sociale.
    Il movimento residuale e’ come schiacciato. Da un lato, i massimi sistemi dell’ideologia; dall’altro, lotte settoriali e sussulti.
    Manca una prospettiva. Mancano un progetto che sia minimamente credibile di trasformazione dell’esistente e manca l’organizzazione orizzontale che dovrebbe portarlo avanti.
    Siamo totalmente inadeguati ed assenti. E divisi, come al solito.

  • Questo intervento di Franco Astengo aiuta tutte/i noi a ricordare che non c’ è solo la storia dei “grandi capi” ma anche quella delle tante persone in carne e ossa che hanno lottato.

    COMUNISTI di Franco Astengo
    Nell’occasione dei 100 anni di Livorno, con l’intento di non cadere nella trappola del “aveva ragione questo” o “aveva ragione quello” e della semplicistica retorica della “dannazione” delle scissioni della sinistra mi limito a pubblicare un elenco, quello dei candidati del Partito Socialista alle elezioni comunali di Savona del 1920.
    Il Partito Socialista conquistò il Comune e, nel gennaio del 1921, il sindaco Mario Accomasso (già spartachista a Berlino e consiliarista in Baviera) assieme alla gran parte della giunta e dei consiglieri aderì all’appena costituito Partito Comunista d’Italia.
    La lista del 1920 era composta pressoché integralmente da operai: compagni che compivano un duro lavoro e cercavano di studiare in condizioni che è impossibile descrivere dalla nostra situazione di assoluta comodità di vita.
    Studiavano, soprattutto studiavano da autodidatti nelle Università Popolari ( scriveva Gramsci: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”). e lottavano per migliorare la condizione della propria classe: mentre cominciava a farsi strada la violenza fascista.
    Oggi a cent’anni di distanza quasi tutta la cospicua produzione giornalistica e letteraria che è stata generata per ricordare l’evento di Livorno di un secolo fa è incentrata sulle logiche di vertice e la descrizione delle mosse dei grandi capi del socialismo e del comunismo da Mosca a Milano e a Roma.
    Invece non si può e non si deve dimenticare come, concretamente, era composto, in carne e ossa, il partito socialista e – di conseguenza – come andasse socialmente formandosi il partito comunista.
    La fatica del lavoro, la vita difficile, la violenza politica non costituivano in allora mere rappresentazioni di facciata: le donne e gli uomini lottavano per il riscatto della loro condizione sociale, per accrescere la loro cultura, per fare in modo di conoscere una parola in più del padrone, e stavano subendo la tremenda reazione dell’avversario.
    Come ho cercato di ricordare anche qualche giorno fa rammentando l’esito del plebiscito fascista del 1929 con i 135.000 voti contrari per la metà concentrati nel triangolo industriale ci troviamo di fronte alle storie delle prove di coraggio e di abnegazione del proletariato: poi verrà tutto il resto, il congresso di Lione, l’antifascismo, la svolta di Salerno, la Resistenza, il grande partito di massa, l’inopinato scioglimento, la quasi cancellazione della sinistra dal sistema politico italiano e dalla stessa coscienza del Paese.
    Un Paese, l’Italia di oggi, nel quale le idee di solidarietà e di uguaglianza sembrano essere quasi scomparse e la politica ridotta al trasformismo individualista e alla volgare immediatezza dell’egoismo populista.
    In origine però ci stavano la fatica del lavoro e della conoscenza; senza alcun richiamo, beninteso, al romanticismo deamicisiano ma con la piena consapevolezza di cosa rappresentasse in allora la durezza della lotta di classe:
    Accomasso Mario, fucinatore
    Andrea Aglietto, aggiustatore
    Nicolò Aschero, tubista
    Andrea Astengo, operaio chimico
    Pietro Baldessari, calderaio
    Luigi Bertolotto, elettricista
    Giuseppe Crotta, macchinista ferroviario
    Nicolò De Benedetti, fuochista
    Giovanni Edro, operaio chimico
    Giuseppe Gabrielli, montatore elettricista
    Antonio Gamalero, organizzatore
    Umberto Gazzaniga, trapanista
    Cesare Ivaldi, piastrellista
    Giuseppe Maffei, portuale
    Giulio Maggetti, operaio ferroviario
    Giovanni Battista Olivieri, meccanico
    Gaetano Odera, fonditore
    Giovanni Pio, magazziniere
    Arturo Poggioli, conduttore capo
    Giovanni Battista Ratti, tranviere
    Bartolomeo Repetto, aggiustatore
    Giuseppe Robutti, macchinista ferroviario
    Giovanni Rossello, elettricista
    Ferrante Scarabelli, cameriere
    Francesco Schiappapietra, dipendente comunale
    Giuseppe Scotti, ex-segretario della Camera del Lavoro
    Giuseppe Scotto contadino, presidente della Cooperativa Contadini
    Francesco Sivori, tracciatore
    Carlo Sugherini, fonditore
    Filippo Tessitore, calzolaio
    Angelo Vercelli, operaio ferroviario
    Rinaldo Villa, motorista

  • Esito nel commentare l’intervento del compagno Bernocchi. Perché credo non ammissibile rimproverarlo di una omissione che a me medesimo può essere ascritta. La parte distruttiva senza quella costruttiva. Sarò miope, ma questa parte non la vedo. Questa parte dubito di essere in grado io stesso di mostrare.
    Può essere che la parte costruttiva data dal post risieda nella sola approvazione del movimento, per altro benemerito, degli Arditi del Popolo? Unica parte che si salva dalla furia iconoclasta dell’estensore dell’articolo… Personalmente ritengo che, dati i presupposti e cioé i ritardi teorici del marxismo della Seconda Internazionale, entrati quasi integralmente e senza consapevolezza nella Terza, la generazione degli anni ’20, Bordiga o non Bordiga, nulla poteva fare per fronteggiare la controffensiva borghese, la cui punta di diamante era il fascismo.
    Riassumo il quanto dell’ideologia borghese che aveva inquinato il Movimento Operaio: storicismo, economicismo, umanesimo, determinismo filosofico, teoria del predominio delle forze produttive (=apertura di credito nei confronti del fordismo) e accettazione del quadro di sistema trovato, costituivano la base fatale del settarismo del PCd’Italia, molto più che le rigidità del compagno Amadeo o i ritardi di Antonio Gramsci; il quale faticosamente tentava di costruire una alternativa alla deriva dirigistica dei militanti russi, deriva che ben presto si sarebbe rivolta contro di loro, estinguendoli tutti. Lenin si è salvato perché è morto in tempo per non vedere il completamento della distruzione della grande opera che aveva costruito.
    e’ nel quadro delle insufficienze del marxismo che occorre inquadrare fallimenti e successi degli anno Venti e Trenta. Senza l’ingenerosità di porre a carico dei militanti dell’epoca, che generosamente hanno messo a disposizione le proprie vite, gli errori che per altro non potevano evitare. Che neppure coloro che sono venuti dopo di loro sono riusciti a evitare.
    Rispetto a questo ho solo un argomento da offrire. La consapevolezza che se tanto abbiamo da imparare da un secolo di lotte operaie, non possiamo prenderle acriticamente. Giusto pertanto, anche se utilizzando maggiore comprensione e apprezzamento per chi tanto ha sbagliato, ma anche tanto ha realizzato, criticare e indicare i punti dolenti di una crescita che ancora non sembra giunta alla maturità. Con pazienza, capacità di confronto, tolleranza e soprattutto curiosità e consapevolezza che le molte teste hanno ognuna qualcosa da insegnarci, andare e una revisione del passato e su di essa costruire il futuro. Avendo però almeno questo di acquisito: che il dogmatismo, l’incomprensione recioproca, non sono proprie al movimento comunista. Un comunista non ha dogmi, non ha miti (tipo l’inevitabilità della vittoria del comunismo). Ha curiosità, ha domande, cerca risposte, si confronta. Soprattutto è portatore di un concetto di umanità più alto e nobile. Su questo bisogna attestarsi.

  • Non vorrei aver dato l’impressione che gli estratti (scelti da me e non dai due autori) riassumano il pensiero di Piero Bernocchi. Dunque inviterei tutte/i a leggere il libro per vedere se è fondato il giudizio così negativo degli autori ma anche per valutare altri due elementi importanti: quello sotteso all’intervento di Franco Astengo – non bisogna fermarsi alla storia dei “grandi capi” ma capire quanto conti anche quella delle tante persone in carne e ossa che hanno lottato – e la necessità di cercare una parte costruttiva, come chiede Mauro Antonio Miglieruolo, partendo dagli errori e dalle tragedie. Per andare avanti.

  • Gian Marco Martignoni

    Molto interessante l’articolo di Franco Astengo, così come mi paiono sensate le considerazioni di Miglieruolo. Mi perdonerà Daniele, ma avendo dato uno sguardo al testo di Bernocchi – comprendendo l’incazzatura di Giuseppe Scuto – mi guarderò bene dal leggere quel libro, stante il tono saccente e recriminatorio che contraddistingue la prosa, si fa per dire, di Bernocchi . Semmai consiglio la lettura del saggio di Luciano Canfora ” La Metamorfosi “, perchè il suo caustico realismo storiografico è veramente sia lucido che stimolante.

  • Martignoni mi richiama implicitamente a soffermarmi su un aspetto dell’articolo di Astengo che, nonostante l’importanza, ho ignorato. Lo studio, il lavoro intellettuale, la crescita delle condizioni di vita (che è anche crescita della coscienza di massa) che passa anche attraverso l’acquisizioni di strumenti culturali capaci di aiutare la comprensione dei tempi che attraversiano e delle poste in gioco. Le parole di Gramsci sono esemplari in proposito. Omologa le fatiche dello studio a quelle del lavoro subordinato, equiparando la lotta per l’emancipazione, che parte dall’acquisizione dei mezzi per la sopravvivenza, alla lotta per l’acquisizione degli strumenti intellettuali che portano non “all’ascensore sociale”, come banalizzano i media, ma a ammettere e praticare la necessità dell’emanzipazione, che parte dall’acquisizione del diritto a migliori condizionbi di lavoro. Non istintivamente: coscientemente. Il marxismo, che pure pensa questo processo, sta alla fine (diciamo a metà strada) di questo processo. A metà perché si tratta di limitate avanguardie, all’inizio, poi vengono i “dirigenti” che tali sono se abdicano all’idea di dover insegnare qualcosa alle masse, ma si pongono al servizio delle masse in quanto “esperti” che hanno già letto e studiato. E continueranno a leggere e studiare insieme alle masse per correggere le distorsioni ideologiche e psicologiche di tutti, insieme alle masse per la crescita della coscienza di massa.
    La lotta incessante che la borghesia conduce da sempre contro il proletariato, alla quale il proletariato risponde come può e non sempre in modo adeguato, ha segnato punti importanti nel demolire i semi di senso comune socialista anche perché e proprio perché è riuscito a demolire l’interesse per il “lavoro intellettuale”. Impensabile ancora 60 anni fa prendere di petto un professore non per quello che diceva, ma in quanto professore. Da decenni assistiamo alla svalorizzazione della formazione in quanto acquisizione di strumenti che acuiscano la capacità critica. I media sono pieni di non pensiero, o di pensiero che veicola disvalori, rassegnazione e anzi esaltazione dell’esistente. La scuola o è luogo di formazione dell’elite, e si struttura per questo, o è abbandonata a sé stessa. Non si vogliono cittadini coscienti, si vogliono lavoratori flessibili, portatori di una visione del mondo nella quale vige il primato d’impresa, con il corollario della subordinazione del lavoro condannato alla precarietà permanente. Il valore medio di ciò che è immesso in circolazione si abbassa di giorno in giorno. Le eccellenze continuano a esserci, ma sempre più isolate e direi persino accerchiate. L’accerchiamento del marxismo è anche conseguenza dell’accerchiamento culturale delle masse. L’incultura quale funzione della cultura del dominio.
    Coloro che frequentano questo blog possono dare il loro contributo alla rinascita della Uonnità (Umanità). Ognuno dando il meglio di sé, ognuno avanzando dubbi, ponendo domande, opponendo critiche. Ognuno, tutti. Un milione di teste, un milione di idee… Sono poche rispetto il compito immane di ricostruire il marxismo, il marxismo del 20 secolo, condizione inderogabile per l’emancipazione del lavoro, prima mossa per la costruzione di una Uonnità nuova. Ma il proletariato non lavora per sé, lavora per tutti e solo se lavora per tutti può arrivare alla propria liberazione. Cioé al miliardo di teste pensanti e al miliardo di idee chee si confrontano, si scontrano, s’accordano: per la realizzazione di ognuno mentre procedono nel cammino comune.

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