China Miéville, urbanista forse alieno

Se la morte venga prima della vita e altre questioncelle

di Bianca Menichelli

1 – La Città

China Miéville è un autore che è necessario affrontare con qualche cautela.

Innanzitutto non bisogna farsi prendere dall’ansia di seguire la trama dei suoi romanzi, poi occorre avere la pazienza di arrivare al punto in cui Miéville costituisce la chiave di volta della sua scrittura.

«Tutte le note erano come a strati, un palinsesto di interpretazione in progresso. Feci archeologia.

All’inizio, negli strati più bassi delle glosse, la sua scrittura era più attenta, i commenti più lunghi e precisi, con più riferimenti ad altri scrittori e al suo stesso saggio. Le sue abbreviazioni idiolettiche e poco ortodosse rendevano difficile capirlo del tutto. Cominciai, pagina dopo pagina, a tentare di leggere, trascrivere, quei primi pensieri …».

China Miéville “La Città & la Città” (Fanucci editore 2011; traduzione di Maurizio Nati)

Nei libri di Miéville bisogna fare archeologia, raschiare la pergamena per scoprire gli strati sovrascritti, scoprire qualche traccia che ci disveli i suoi universi.

E’ quello che ho cercato di fare anni fa con “Perdido Street Station(Fanucci editore, 2003, traduzione di Elisa Villa) perdendomi inizialmente nella mappa di New Crobuzon realizzata da Daniele Colaiacomo: Palude della Canaglia, Guado del Cadavere, Vertigo Ovest, Vertigo Est, Pantano dell’Eco, Crogiolo di Saliva, Altura dell’Ululato, Palude della Canaglia e via sprofondando, salvo un tenerissimo Colle Micio, contiguo tuttavia a Città delle Ossa.

Continuando con la citazione in epigrafe:

«Smisi perfino, per un po’, di fermarmi davanti alla finestra per guardare le luci e le strade profonde, illuminate. E’ una forma di morte, questa perdita di contatto con la città». Philip K. Dick Abramo Lincoln Androide

A questo punto si può iniziare l’immer(sione) nelle oltre 700 pagine lasciandosi condurre dalla raffinata ricerca artistica, linguistica e sociale, una cosmologia aliena (?) che travolge tutti gli schemi.

Il successivo romanzo “La città delle navi(Fanucci editore 2004, traduzione di Elisa Villa) – titolo originale “The Scar” cioè La Cicatrice/Il Segno – porta in epigrafe: «E tuttavia il ricordo non tramontava con il calare del sole, in quel bagliore verde e gelido sull’ampia distesa blu del mare dove i cuori infranti hanno fatto naufragio dalle loro ferite. Un cielo cieco ha sbiancato l’intelletto delle ossa umane, scorticando le emozioni dalla frattura per svelare il dolore nascosto. E lo specchio svela me, una realtà nuda e vulnerabile». Dambudzo Marechera Black Sunlight“.

E via con la seconda immer nelle quasi 700 pagine del romanzo (vedi sopra).

Negli anni seguenti ho cercato invano tracce di Miéville, finché qualche tempo fa nella Biblioteca Civica che frequento ho avuto un sobbalzo: nella rastrelliera dei suggerimenti di lettura era esposto “Embassytown(Fanucci editore 2016, traduzione di Federico Pio Gentile).

Epigrafe: «La parola deve comunicare qualcosa (di altro da sé) – Walter Benjamin “Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini”».

La protagonista, Avice in un universo inconoscibile, ai confini dell’impossibile, è, oltre che una immergente barcamenante, una similitudine.

Embassytown è una città-Stato ospitata all’interno di un pianeta alieno dove gli abitanti autoctoni parlano la Lingua che non ammette la bugia.

Le figure retoriche non esistono e per comunicare con il popolo di Embassytown, emigrato da chissaddove, gli Ariekei si servono di alcuni abitanti della stessa città perché rappresentino fisicamente la similitudine come un tutt’uno con il loro reciproco esistere .

Avice diventerà «la ragazza che mangiò ciò che le venne offerto», come un mentitore sarà «quello che dice cose che non esistono».

Chi ostinatamente, senza avere fatto tesoro delle letture precedenti, cercherà anche in questo libro una trama o una qualche analogia con la nostra percezione quotidiana affronterà una missione senza speranza. China Miéville delinea e persegue l’ estensione della citazione di Walter Benjamin ai limiti del post umano.

Il libro si chiude così: «E con Embassytown intendo la città. Perfino i nuovi Ariekei hanno cominciato a chiamare la città con quel nome, embassytown I embassytown talvolta variandolo con ambasciata I città o città I ambasciata».

A questo punto non potevo fare a meno di leggere “La Città & la Città(Fanucci editore 2011 traduzione di Maurizio Nati) anche se precedente a “Embassytown“.

L’epigrafe è un brano di Bruno Schultz da “Le botteghe color cannella” (cfr “L’epoca geniale e altri racconti” Einaudi 2008, traduzione di Anna Vivanti Salmon).

«Proprio nel cuore della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci».

La chiave del libro sta in un verbo: disvedere.

Due città, Beszel e Ul Qoma, coesistono con margini variabili, ma i loro abitanti non devono vedere reciprocamente l’altra città, persone, palazzi, negozi, strade, mezzi, pubblicità, tutto. Né si deve sconfinare, se non nelle zone franche delle intersezioni; la pena è essere consegnato alla Violazione e sparire.

Miéville inizia con un delitto e spinge l’ispettore Tyador Borlú della Squadra Crimini Estremi di Beszel a buttarsi a capofitto nelle indagini.

E’ un espediente narrativo per scrivere di noi, del nostro presente, della nostra società malata, dell’impossibilità di una salvazione.

Dice qualcosa a tutti noi – vero? – la pretesa di disvedere l’umanità che ci cammina accanto, come ha sottolineato la mia amica Laura.

Non c’è alcun potere salvifico, se non cercandolo in noi stessi e tentando di condividerlo.

«Siamo tutti filosofi, qui dove mi trovo, e discutiamo tra molte altre cose la questione di dov’è che viviamo. Su questo argomento mi considero un liberale. Vivo in un interstizio, certo, ma vivo nella città e nella città». E’ l’ultima considerazione dell’ispettore Borlù.

China Miéville è laureato in antropologia sociale e dichiaratamente di sinistra-sinistra; si può aggiungere che affronta da semiologo le consuete domande su chi siamo, dove andiamo, con chi e come vogliamo andare; i sistemi di segni che compongono i suoi (i nostri?) mondi non ci rivelano la realtà ma ce la fanno affrontare per una maggiore consapevolezza.

La sua scrittura esige una lettura che obbliga alla lentezza, facendo inciampare sulle difficoltà di comprensione immediata, ma non cessa di sollecitare; al tempo in cui la velocità di comunicazione con la conseguente, estrema, banale semplificazione la fa a padrona la lettura delle sue opere è un ristoro intellettuale.

Senza tralasciare la bravura dei suoi traduttori. Chapeau.

2 – & la Città

«Mi chiamo D’Arco e sono uno sbirro morto. Sono in forza da tre anni alla Centrale di Polizia della città dei morti».

Due città, quella dei vivi e quella dei morti: una/due realtà in cui allo sbirro morto D’Arco viene chiesto di indagare sul perché nella città dei morti, dove tutto procede come in quella dei vivi, di notte si alzi un coro di voci infantili che cantano quella che sembra essere una ninnananna.

E per questo dovrà andare nella città dei vivi, dove è stato ucciso.

Chi conosce Antonio Moresco sa che niente è facile con la sua scrittura; in questo libro, “L’addio” (Giunti 2016) la domanda fondamentale è «Viene prima la morte della vita?» senza dimenticare che «quelli della città dei vivi credono che basti chiedere ai morti cosa è successo per conoscere la verità. Ma i morti come i vivi non dicono la verità».

La città dei morti e la città dei vivi sono uguali, nessuna differenza, tranne la luce: nella prima tutto è nitido, nella seconda i lineamenti delle persone sono sfalsati e indistinti.

Nella città dei morti tutti credono di essere morti, nella città dei vivi tutti credono di essere vivi mentre in realtà sono morti.

Passare da una città all’altra è facile, non ci sono lampi di luce o tunnel spaziotemporali, solo un’unica strada ai cui lati esistono zone indistinguibili che sfumano una nell’altra.

Lo sbirro morto D’Arco avrà le risposte che cerca, perché, sì, la morte viene prima della vita.

Logica segreta

Città, città, città di fuoco

Città che trasudi rumore

o congedata che ci congedi

o insidiosa, slavata

o innominata così rinomata.

Arcangeli bussano ai vetri

cavalli sfondano le nuvole

carrozze si ribaltano nei cieli

la notte la notte la notte la notte.

E’ come un vapore liberato

come l’alito di una pietra

o corteo purificato.

Ai quattro venti dei rumori che sbuffano

all’incrocio dei quattro cieli

si condensa la città di fuoco

la città sognata e necessaria

i cui organi seminano la terra

di una miriade di tuoni

che recupera l’infinito.

Con la polvere dei vetri

con gli atomi di pietra

o ragnatela dei cieli

si compone la città creata

la città-città di tenere pietre.

Sul confine di una sofferenza

ai margini di un muto dolore

s’installa il castello segreto

dove la cenere del cuore si espande.

(22 settembre 1922) Antonin Artaud “Poesie della crudeltà” Stampa Alternativa 2003, traduzione di Pasquale Di Palma

Gente che corre

Se camminiamo di notte per strada e un uomo ci corre incontro, visibile da lontano, perché la strada è in salita e c’è la luna piena, non faremo nulla per trattenerlo, anche se è debole e lacero, anche se qualcuno lo insegue gridando, ma lo faremo continuare la sua corsa.

E’ notte e non è colpa nostra se la strada sale sotto la luna piena, inoltre può darsi che i due abbiano inscenato l’inseguimento per gioco, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza colpa, forse il secondo ha intenzioni omicide e noi diventeremmo complici dell’assassino, forse i due non sanno nulla uno dell’altro e ciascuno corre, per suo conto, a letto, forse sono sonnambuli, forse il primo è armato.

E, da ultimo, non è lecito essere stanchi, non abbiamo bevuto tanto vino? Che sollievo, non vedere più neanche il secondo.

Franz Kafka “Racconti” Universale Economica Feltrinelli 1978, traduzione di Giorgio Zampa

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.

– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? E’ solo dell’arco che m’importa.

Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

Italo Calvino “Le città invisibili

A te, sbirro morto D’Arco.

Per dirla con José Saramago “Està là tudo” e per dirla con me “Tutto si tiene“.

IN “BOTTEGA” tre link PER TROVARE SINTONIE E/O CONTRAPPUNTI

Torna in libreria «Perdido Street Station» di China Miéville

China Miéville: «La città e la città»

Antonio Moresco a cavallo fra le città dei vivi e dei morti

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *