Ci manca(va) un Venerdì – 31

Graffi, grafiti, brut, muzak: l’astrofilosofo Fabrizio Melodia incontra i «bambini adulti» e le basi azotate

Basquiat
«Io non penso all’arte quando lavoro. Io tento di pensare alla vita»: lo disse il famoso writer Jean-Michel Basquiat, traghettato nell’ambiente dell’arte ufficiale dall’amico Andy Warhol che in lui vide la massima espressione dell’arte fuori dai meccanismi dell’industria e del mercato.
Tossicodipendente ma talentuoso, Basquiat fece del graffittismo la sua ragione di vita, arrivando a pagarla a caro prezzo, fino alla morte.
Un “poco di buono”: come l’amico Keith Haring voleva solo che l’arte smettesse di essere qualcosa di elitario e diventasse alla portata realmente di tutte/i, fosse un’arte non riservata al valore per i materiali usati ma partorita con quello che la società considera scarti. Soprattutto un’arte che si occupasse della vita quotidiana, come fu per gli impressionisti uscire dalle anguste gabbie dell’accademia e nutrirsi d’aria, spazi aperti, tuguri dei bassifondi e colori ricavati dalla terra.
Lo stile pittorico di Basquiat, come quello di Haring, si rifaceva direttamente all’«Art Brut» del pittore e scultore francese Jean Dubuffet, il quale intravedeva nei disegni dei bambini e dei malati di mente la vera realizzazione dell’arte primordiale privata di sovrastrutture.
«La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee» affermò Dubuffet.
Tale logica porta molti artisti a usare proprio il veicolo della graffiti art: la tela diventa il muro. In ogni spazio lasciato in degrado, lo scarto della società. I colori sono anch’essi scarti d’industria o persino penne a sfere, lezione ispirata dal pittore Giacometti.
«La tela come materiale in sé è meravigliosa. È robusta, può essere venduta e in un certo senso è duratura. Ma mi inibisce. Spendo otto dollari per una tela di 75 centimetri per cento e per la pittura a olio; poi vado in paranoia per come riuscirà perché ho speso 12 dollari per quel quadro e penso che debba valere qualcosa. Invece, quando dipingo su un pezzo di carta che ho trovato oppure ho comprato a poco prezzo, e uso l’inchiostro ad acqua, faccio un intero quadro di 120 centimetri per 270 senza aver speso praticamente nulla» scrive Kieth Haring nei suoi diari di strada, quando già era ammalato di Aids.
Fuori dalla logica del mercato, da qualsiasi logica, si riscopre il mondo “altro” indicato da Dubuffet: si pensa finalmente alla vita, non più dunque un’arte elitaria, ma democratica al massimo. Arte che possa arrivare direttamente ai bambini, anzi fatta da “bambini adulti” nel rispetto dell’intelligenza infantile, diversa e migliore della fredda logica adulta della società capitalista, industrializzata e che relega l’arte e la crescita delle coscienze nella morta sacralità dei musei.
«Un giorno mi piacerebbe fare un libro fotografico con immagini di me insieme a bambini di tutto il mondo… I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato. I bambini subiscono una fascinazione per la loro esperienza quotidiana che è molto speciale e che sarebbe di grande aiuto agli adulti se potessero imparare a capirla e a rispettarla… […] Voglio essere sempre un dodicenne, dentro» annota Haring.
La stessa direzione viene presa anche dalla musica: «Lo studio dei Throbbing Gristle si trovava all’interno di una fabbrica vicino a London Fields, ad Hackney, dove erano seppellite molte vittime della pestilenza. Oltre i muri c’erano migliaia di cadaveri, perciò la soprannominammo Fabbrica della Morte. Ma per noi la Fabbrica della Morte ha sempre rappresentato una metafora della società industriale. Quando finimmo di produrre i nastri, uscii in Martello Street, mentre sulla linea ferroviaria passava un treno, e c’era una radio a transistor che sbraitava dietro l’angolo, e in una segheria tagliavano il legno, e un cane abbaiava; allora dissi “Non abbiamo inventato nulla. Abbiamo soltanto sistematizzato ciò che qui accade ogni momento”. Fu allora che proposi di fare muzak per le fabbriche, impiegando il rumore autentico della fabbrica, ma rendendolo ritmico e per sé stesso accettabile, invece di soffocarlo con disgustosa musica popolare» ricorda il leader dei Throbbing Gristle, Genesis P. Orridge, considerato il gruppo iniziatore della musica detta Industrial, stile d’avanguardia che usa mix di nastri preregistrati e rovesciati, rumori e sonorità abrasive ostiche ed ipnotiche. Un’esperienza che contagiò altri gruppi come i Chrome, i Cabaret Voltaire e i Clock DVA, generando in parallelo l’EBM (Elettronic Body Music) che enfatizza i suoni ritmici e la “Power Electronics”, musica completamente atonale e cacofonica.
La filosofia s’accoda, anche se si potrebbe considerare il primo movimento di tale azioni, che culminano nella lettura d’avanguardia e postmoderna, costruita con citazioni da altre fonti, partendo dall’assunto che tutto già stato scritto, ma che da queste “basi azotate” della letteratura, attraverso varie combinazioni, possano generare diversi tipi di Dna, alla base della nuova vita letteraria.
«La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente» afferma Umberto Eco.
Basquiat non si limita a distruggere il passato ma va direttamente alla radice e esprime una nuova arte per tutti, scevra dall’industria e dalla Storia che da sempre è l’affermazione dei potenti e della cupidigia dettata dal profitto, una mercificazione da cui l’arte e il pensiero non sono per nulla esentati.
«Da quel momento chi porta una tasca o è un artista oppure un tossico o entrambi come Basquiat» rappa alla grande il mitico capellone Caparezza.

 

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