L’insulto – Ziad Doueiri

(visto da Francesco Masala e da db)

entrambi pensano di avere ragione, nessuno arretra.

il meccanismo di odio è quello che funziona quasi sempre, nella realtà, se non ci sono giudici e/o avvocati e/o politici con dubbi e umanità e saggezza che spengono i fuochi (appare anche un politico nazionalista che assomiglia a Salvini, ma dev’essere una coincidenza; in Libano, per loro fortuna, non lo conosce nessuno).

la storia è come quella di un legal thriller, quello schema narrativo permette colpi di scena, argomentazioni e punti come in un’avvincente partita di tennis.

la consapevolezza che tutti hanno un po’ di ragione e un po’ di torto si trasforma nel compromesso per spegnere l’incendio che stava iniziando.

bravissimi tutti gli attori, pedine di una sceneggiatura che non lascia scampo.

ed è strano che si rischi la galera per fare film così, buon segno, vuol dire che è un film che vale.

Nei titoli di coda (per non eccedere nel politicamente corretto) mancano le immagini nelle quali Tony diventerà il meccanico di fiducia di Yasser, loro sanno che i tedeschi fanno le cose molto meglio dei cinesi (mentre nelle vernici fanno un ottimo lavoro gli italiani, veniamo a sapere, e anche che qualcuno si appella al  boicottaggio di questo film).

non lasciatevi sfuggire questo film, addirittura in 60 sale (con uno dei migliori incassi per sala della settimana)

http://markx7.blogspot.com/2017/12/linsulto-ziad-doueiri.html

Concordo con Francesco Masala – qui sopra – che «la sceneggiatura non lascia scampo». Aggiungo, da cinefilo, che anche la regia è ottima. Non svelo la trama ovviamente ma anticipo una possibile obiezione: i colpi di scena non saranno troppi… per un film solo? A me pare che in questa storia siano tutti logici, anzi forse – in un casino come quello libanese – risultano persino pochi.

E vengo appunto al Libano, alla questione più politica, C’è chi sostiene che «L’insulto» offende – come fa uno dei protagonisti – pesantemente i palestinesi; non sono d’accordo. C’è chi dice (anche su «Alias-il manifesto» e in altri luoghi di sinistra, vera o presunta…) che il film è ambiguo, reticente, non prende posizione. E’ una obiezione sulla quale si può discutere però secondo me non si tratta di “viltà” o di ambiguità,  piuttosto di una scelta, del tentativo di raccontare un pezzetto di quel grande, insanguinato, doloroso, complicatissimo puzzle in Libano… che tale era negli anni ’70 e ’80 ma per molti versi non è mutato granchè, sempre sull’orlo (anche in queste ore tragiche) di una nuova guerra civile e internazionale. Chi conosce un po’ di storia del cosiddetto Medioriente – per noi è il Vicino Oriente – noterà nel film un’omissione storica pesantissima. Durante il processo (o fuori) la strage di Sabra e Chatila mai viene nominata; lo ricordo: è accertato al di là di ogni possibile dubbio che furono le Falangi libanesi, con l’aiuto dell’esercito israeliano, a sterminare migliaia di palestinesi. Mi chiedo se non parlarne – neanche in una frase – sia una scelta del regista o se invece in Libano sia ancora un tabù, qualcosa di innominabile. Nulla so del regista ma propendo per la seconda ipotesi.

Un film parziale dunque ma certo non anti-palestinese e, a mio avviso, neanche ambiguo; o meglio… ambigua resta la realtà con mille ragioni e torti, tragedie antiche e più recenti mescolate, come è davvero il Libano, e di cui questa piccola storia mostra bene un frammento, se volete “una miccia”. Per una volta che un film politico esce in molte sale (succede perchè in odore da Oscar? o ci sono altre ragioni che io non intendo?) sono felice che si possa discutere e magari raccontare alle molte persone giovani anche questo pezzo di una storia tremenda e che fa comodo (soprattutto ai vincitori, cioè i governi israeliani) tenere nascosa.

Non si racconta – neanche al cinema – la storia da un angolo così particolare? Mi viene in mente un’obiezione simile fatta per i film sulla nostra Resistenza; quante volte ho sentito dire che QUEL film (volta a volta era «Il terrorista» di Gianfranco De Bosio, o «Tutti a casa» oppure il recente «Una storia privata») non poteva rappresentare l’antifascismo o la Resistenza nel suo insieme… Certo che no e come pensare che potrebbe un solo film?

Insomma io credo che questo film – bello da star male – di Doueiri sia comunque coraggioso e importante. Le ambiguità, le colpe, i tabù non sono del regista ma purtroppo della realtà.  E – come sempre qui – ogni discussione è benvenuta.

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Un commento

  • domenico stimolo

    Ottimo il regista. Riesce bene nell’intento di creare un clima di serrato suspense, coinvolgendo gli spettatori. Di grande bravura i due attori protagonisti. E’ palese che il film, pur avendo come movente una questione di diatriba complessivamente secondaria nel contesto socio-politico globale, si sviluppa avendo come riferimento esclusivo lo scontro storico tra la componente cristiana – maronita ( la destra politica) e i profughi palestinesi, che drammaticamente ha caratterizzato la storia recente del Libano, già a partire dal 1975.

    Ad iniziare da quella data il percorso storiografico generale rimane complessivamente nell’ombra. Forse volutamente. Si intuisce che Il regista franco- libanese Ziad Doueiri, per non toccare esplicitamente “corde” ancora molto sentite in Libano, e non sollevare di conseguenza potenziali pericolose inimicizie, preferisce stare sull’asta dell’equilibrismo, di una ricercata neutralità. Dando spazio adeguato alla strage di Damur del 20 gennaio 1976, par di capire le sue preferenze politiche religiose.

    Lo spettatore che non conosce in maniera appropriata il sanguinoso percorso della guerra civile conclusasi nel 1990, che ha provocato oltre 150.000 vittime – il paese ha ora circa 6 milioni di abitanti – ( non documentandosi prima della visione del film), le varie tragiche tappe durate 15 anni compreso il ruolo significativo svolto in maniera diretta e particolare da Israele e Siria ( ci sono stati anche altri attori esteri), la debole tregua che permane, il Libano principale polmone di presenza dei profughi palestinesi, corre il rischio di non capire bene il contesto complessivo che ha determinato le violente contrapposizioni, e quindi l’odio.
    E’ vero nel film non c’è riferimento alla strage di Sabra e Shatila del settembre 1982. Una dimenticanza voluta?

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