Classe, progresso e sciopero delle donne

Un’intervista a Silvia Federici

di Caterina Ciarleglio (*)

 

 

Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx (DeriveApprodi 2020, p.104, euro 12.00, edizione italiana a cura di Anna Curcio) è una raccolta di testi prodotti dagli anni Settanta ad oggi, volti ad interrogare il rapporto ancora problematico tra marxismo e femminismo. I nodi centrali della lettura di Silvia Federici sono due e ruotano intorno al tema della composizione di classe e del progresso tecnologico. Attraverso la lettura di Marx proposta dall’autrice il discorso però si amplia, si articola e si arricchisce, per raggiungere e toccare molte altre tematiche. In primo luogo la questione del lavoro, nella sua doppia accezione di lavoro produttivo e riproduttivo, quella dell’accumulazione, il tema del progresso e infine il problema stringente quanto attuale della distruzione ambientale. Riguardo a tali questioni l’analisi marxiana sembra essere insufficiente poiché ignora o dimentica alcuni aspetti strutturali che avrebbero meritato certamente maggiore attenzione.
Esiste un modo per superare i limiti del pensiero di Marx, senza per questo disconoscerne l’importanza storica? Secondo Federici solo attraverso una prospettiva femminista possiamo mettere in evidenza le relazioni dimenticate, mantenendo al contempo un’attitudine pragmatica verso categorie che devono indirizzare l’azione oltre che il pensiero.
Abbiamo discusso con l’autrice di tutto questo in una piovosa giornata invernale, nella sua casa di Parma. Dalla nostra conversazione nasce quest’intervista.Gli aspetti centrali di questo testo sono fin da subito evidenti. Già nell’introduzione, dove scrivi che è necessario porre al centro della lotta di classe la problematica delle divisioni costituite dal capitalismo all’interno della classe, metti in discussione la nozione stessa di classe, che in una lettura marxista più classica ha smesso di essere interrogata.«Vi è in Marx un unico proletariato, che non viene mai veramente esaminato. Il fatto che le economie e le scelte economiche vengano sempre prese in funzione dei rapporti di potere, per crearli e sostenerli, evidenzia l’aspetto tutto politico dell’economia capitalista. Sin dall’inizio il capitalismo ha creato, attraverso la strutturazione economica, rapporti di potere diseguali: lavoro pagato, non pagato, in condizioni schiavistiche, in condizioni libere… Dico schiavistico perché la schiavitù non è mai finita, ma al contrario è integrata nell’accumulazione del capitale. C’è inoltre moltissimo lavoro informale, a cui metà dell’America Latina deve la propria sussistenza. Rispetto a questo tema si potrebbero muovere delle critiche al pensiero di Nancy Fraser che fa una distinzione molto tradizionale tra lavoro sfruttato, inteso come lavoro salariato, e l’esproprio. Fraser identifica una gran parte del proletariato dell’America Latina con gli espropriati, ma non li vede come lavoratori. Questa differenza, che è assurda, serve solo a giustificare, ancora una volta, che il lavoratore è lavoratore salariato. Un’ottica ancora tutta molto, forse troppo, tradizionale.»

Quella che già negli anni Cinquanta Selma James aveva messo in discussione e che era stata al centro della campagna Salario al lavoro domestico…

«Esatto, c’è questa tendenza a non voler vedere come il capitalismo abbia anche bisogno del lavoro non pagato. Il capitalismo non eredita queste differenze da un mondo pre-capitalista per poi, a poco a poco, livellarle, omogeneizzarle. Al contrario ricrea e approfondisce divisioni e differenze che sono anche divisioni politiche per permettere uno sfruttamento più intensivo del lavoro, un’accumulazione più selvaggia, uno sviluppo maggiore, ma anche per accentuare divisioni e incapacità di comunicazione. Questo è un punto molto interessante che secondo me sia la critica femminista, sia la critica dei movimenti anti-coloniali hanno fatto presente, mettendo in evidenza che non è possibile comprendere il capitalismo se non sommando diversi punti di vista. Non si può guardare al capitalismo solo dal punto di vista della fabbrica e dell’operaio salariato, perché significherebbe mistificare il ruolo che hanno giocato il colonialismo e la storia della schiavitù… Ci sono stati tre secoli di schiavitù. Negli Stati Uniti è finita solo nella seconda metà del XIX secolo, quindi non stiamo parlando di un sistema precapitalistico. Il XX secolo è stato quello del colonialismo e anche in questo caso la situazione non è totalmente risolta; il sistema coloniale è ancora saldo. Anche oggi le lotte più sanguinose si fanno nei campi, nelle miniere, non nelle fabbriche. Tutto questo non si può ignorare, come non si può ignorare il problema della tecnologia. Non riesco a immaginare una società che prenda a modello Il frammento sulle macchine dei Gründrisse. C’è tutta una parte di lavoro che si potrà socializzare, collettivizzare, ma non lo si può tecnologizzare, per cui la macchina non risolve il problema generale del lavoro. Comunque solo le femministe, i movimenti indigeni e anti-coloniali stanno affrontando le problematiche legate a tali questioni, mentre mi sembra che i marxisti facciano molta fatica a considerarle, perché Marx è intoccabile. Come fanno fatica a mettere in discussione l’idea che il capitalismo sia stato un bene necessario, l’assunto per cui anche se è venuto al mondo grondando sangue, abbia portato comunque ad una razionalità più ampia. Qui c’è un fondo di storicismo hegeliano, una fiducia nella razionalità del mondo»

Mi trovi sostanzialmente d’accordo con questa critica alla funzione emancipatrice del capitalismo, però se guardiamo indietro anche il Medioevo è stato pieno di violenza e di sangue.

«Il tema non è guardare indietro, ma ipotizzare che sarebbe stato possibile un altro mondo, ricco di possibilità diverse, che però non sono maturate. Dire al contrario che è stato un bene che il capitalismo alla fine abbia vinto, significa accettare tutti i massacri che ha portato con sé, accettare le guerre contadine, la schiavitù. Marx scrive che in India il colonialismo inglese ha fatto atrocità su atrocità, però ha smosso un sistema statico, collegando l’India con il resto del mondo. Ora che abbiamo duecento anni di storia per fare le nostre analisi: è questo il progresso del capitalismo?»

In India, come in tutte quelle realtà che sono state sfruttate in nome del progresso capitalistico occidentale, il tema è quello della tecnologia o dello sfruttamento delle risorse?

«Entrambe. Marx ha una concezione della tecnologia come di un elemento neutro. Io critico tecnologia prodotta dal capitalismo che è sempre stata usata e pensata per distruggere i movimenti operai. Marx stesso vede che la macchina assorbe l’intelligenza: il salto tecnologico è sempre un salto di espropriazione di capacità creative, quindi la macchina assorbe sempre di più in sé quei compiti che una volta erano umani. Va ripensata e ricreata una tecnologia diversa rispetto a quella sfruttata dall’economia capitalista, colpevole per altro di star distruggendo la terra. Insomma io non vedo nessun progresso e credo che Marx abbia dato un’interpretazione errata della tecnologia e del progresso, senza vedere cosa sarebbe davvero successo.»

Credi che avrebbe potuto vedere, o diciamo prevedere, lo svilupparsi, in questa direzione, dello sfruttamento del territorio?

«A me non interessa criticare Marx, ma rilevarne l’influenza su tutto il pensiero marxista. Non voglio analizzare l’uomo o il pensatore, ma scardinare una problematica, ancora oggi importante per tanti movimenti siccome è una problematica che si è ritrasmessa attraverso i partiti comunisti, attraverso i movimenti radicali e continua tutt’ora. La ragione per cui affronto questi temi non è quella di dimostrare che Marx fosse più o meno illuminato, ma per mettere in luce il fatto che oggi c’è un problema che riguarda tecnologia, sviluppo capitalista e divisioni del proletariato. La questione che mi interessa è: che fare oggi? Lo sviluppo del capitale non si è mai dato ed evoluto solo per volere dei capitalisti. C’è sempre stato un antagonismo capace di incidere sulle forme di quest’evoluzione. La tecnica ad ogni modo non è una cosa da buttar via, ma sono contraria alla sua celebrazione acritica, quella che sta passando in tanti luoghi. La tecnica è e deve essere un campo di battaglia. E sia chiaro che con questo non voglio dire che sia necessario tornare alla zappa e al badile.»

Giustamente parli di campo di battaglia. Si evince molto spesso dal tuo testo che le questioni che poni sono sempre orientate verso un forma di lotta. Esiste un doppio movimento tra la riflessione e l’azione, perché se i saperi influenzano le pratiche, è altrettanto vero che molte delle tue osservazioni hanno preso forma nei luoghi della tua militanza. A questo proposito c’è una domanda che vorrei farti su una pratica in particolare che è quella dello sciopero. Secondo te, anche in vista del 8 marzo, che valenza ha ancora oggi lo sciopero dal lavoro produttivo o riproduttivo?

«Le questioni sono due perché rispetto alla riproduzione non si può fare lo stesso discorso del lavoro produttivo. È vero che il giorno dello sciopero tante donne usciranno dai posti di lavoro salariati, ma è anche vero che molte non potranno farlo. In quel caso si deve pensare a qualcos’altro ed esercitare la nostra creatività: usare lo sciopero per uscire dalla quotidianità del lavoro domestico, perché non possiamo bloccare totalmente quel tipo di lavoro. Però in quanto donne possiamo mettere in atto processi, per esempio creare incontri tra gruppi di donne che normalmente non hanno contatti. Penso al caso dell’Argentina dove le donne dell’economia solidale che lottano contro il transgenico si sono incontrano in assemblea con quelle dell’intersindacale di Ni una menos. Lo sciopero diventa l’idea di una giornata comune in cui tutte queste componenti diverse finalmente si incontrano. Non si può pensare allo sciopero solo come all’incrociare le braccia.»

Eppure lo sciopero in genere è inteso come momento per bloccare la valorizzazione e l’accumulazione del capitale. Come si può mettere in luce questo aspetto quando parliamo di sciopero dalla riproduzione?

«Il discorso della riproduzione ha sempre due facce. Da una parte è riproduzione della vita e dall’altra è produzione del capitale. Bloccare la riproduzione è possibile solo entro certi termini perché non puoi bloccare la riproduzione della tua vita. Puoi lasciare i bambini agli uomini, ma devi sempre farti da mangiare. Il paradosso del lavoro riproduttivo è che riproducendo il capitale, riproduci comunque anche la tua vita. È chiaro che non si può scioperare anche in questo senso, perché sì distruggi il capitale, ma diventa anche un suicidio.»

Quindi lo sciopero per dirla in sintesi, che valenza ha oggi?

«Il rifiuto delle donne di continuare a subordinare la loro riproduzione e la riproduzione della vita al profitto individuale. Concretamente è un’invenzione continua. Dipende da un giorno in cui paralizzi la città, dipende dal fatto di organizzarsi, ma soprattutto serve ad attivare un processo e un dibattito tra le donne. Lo sciopero deve avere un significato provocatorio. Dobbiamo utilizzare l’immaginario tradizionale per porci in una relazione antagonista allo Stato e al capitale e questo, nel concreto, si attua in forme molto diverse. Non solo dalla tradizione operaia: in Chiapas, a New York, in un paesino dobbiamo attuare forme diverse di resistenza.»

Le trasformazioni produttive parlano anche del fatto che spesso le donne hanno acquisito ruoli di potere e li esercitano in modo dispotico. Così la forma della comunicazione, la relazione, l’affettività, che è tipica del lavoro femminile viene rovesciata completamente di segno. In quel caso, se il mio datore di lavoro è una donna che esercita un ruolo di potere, allora non è mia sorella, ed io sciopero contro di lei. Bisogna essere chiari su questo punto, soprattutto oggi. Tra oggi e gli anni Settanta, in cui voi avete costruito la campagna per il Salario domestico, le cose sono cambiate moltissimo.

«Questo problema c’era già allora. Quando le altre femministe ci dissero di lasciar perdere il lavoro domestico e di uscire dalla casa perché il lavoro fuori di casa era più creativo, noi analizzammo questi lavori «più creativi». In genere sono lavori dove si esercita potere per lo Stato contro altre donne, per disciplinare altre donne. Bisogna organizzare la lotta sul salario anche sul posto di lavoro. C’erano compagne che lavoravano nei servizi sociali e si rendevano conto che buona parte del loro lavoro era parlare con donne che avevano crisi familiari, cercando di convincerle a risolverle. Io come insegnante dovevo discriminare, capire chi doveva andare a pulire le strade e chi poteva fare altro. Il lavoro creativo allora era lavoro per lo Stato e grazie ad esso il tuo prestigio sociale aumentava tanto più era cospicuo il tuo salario, perché rappresentavi una forma di disciplinamento.»

Questo se vogliamo è un po’ il contrappunto del discorso delle materialiste francesi che come sappiamo sappiamo creano una cesura tra la classe delle donne e la classe degli uomini.

«Anche se le capisco, io non sono d’accordo con loro. Le capisco rileggendo gli scritti degli anni Sessanta perché il movimento del 1968 è stato molto maschilista, ma se non guardiamo al fatto che in tante posizioni anche noi siamo rappresentanti dello Stato, allora non si esce. La donna deve rinunciare, scioperare a tutto questo, altrimenti è una nemica».

Potremmo quasi parlare di un rovesciamento: un matriarcato che porta con sé tutto il peggio del dominio. Forse dobbiamo pensare che il capitale oggi abbia bisogno proprio di questo? Che dopo aver subordinato le donne in un ruolo domestico riproduttivo, oggi debba farlo anche in un ruolo che è immediatamente produttivo?

«In tutti i lavori sporchi, che implicano cioè soprusi e menzogne nei confronti del pubblico, vengono assunte delle donne. Come se potessero dare un carattere di mitezza e contemporaneamente essere più convincenti. Il capitale ha imparato ad usare le donne anche nei posti chiave dove si deve far passare un sopruso. La funzionalità crea un personaggio e una psicologia. Queste donne, investite di nuovo potere, fanno di queste dinamiche la loro normalità. Questo è un punto che io ho sempre sottolineato e che bisogna tener presente: essere donne significa riproduzione, significa aver fatto una serie di esperienze che non hanno nulla a che vedere con il fatto di avere la vagina, la vulva, chiamala come vuoi.»

(*) Fonte: Derive e Approdi

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