Colonia, violenza maschile e dintorni

Tre testi ripresi dal numero 1/2016 di «Uomini in cammino» (*)

Uic

COME VIVONO LE DONNE

Sarebbe importante che i “fatti di Colonia” servissero da cassa di risonanza per un sollevarsi di voci femminili, ma anche maschili, a ribadire l’urgenza di rivedere le basi su cui si fonda il rapporto maschile/femminile.

Giunta alla soglia dei sessant’anni posso incominciare a tirare un po’ le fila di quel che ho fatto e non ho fatto nella vita e, inevitabilmente, i comportamenti condizionati/limitati dall’essere femmina in una società determinata dai maschi saltano all’occhio.

Non solo, quello che noi donne abbiamo interiorizzato – purtroppo come normale – è quella paura che ci fa percorrere la strada più lunga anziché quella più breve ma poco frequentata, che ci fa prendere il taxi la notte anziché la metropolitana, che, in buona sostanza, limita la nostra libertà di movimento come tante altre libertà. Credo che a tutte noi – e, se non a tutte, quasi – anche se abbiamo avuto la fortuna di non subire violenze pesanti, nell’adolescenza non sono mancati esibizionisti o uomini che approfittavano della ressa in autobus per allungare le mani e succede che a quell’età (ma non solo) ci si vergogni, si subisca e non si racconti mai niente, nemmeno a casa. Si interiorizza la paura e si impara che “gli uomini sono anche così” e nessuno lo può impedire. Come fosse nell’ordine delle cose.

Dico in estrema sintesi che questo è proprio l’ordine delle cose che non può più proseguire, ma, affinché questo avvenga, è necessaria una trasformazione culturale, alla quale, io credo, dobbiamo partecipare – da subito – tutte e tutti, ciascuno con le sue possibilità. La gravità della crisi che stiamo attraversando, a mio avviso, è economica come ultima conseguenza di una crisi strutturale le cui radici si fondano sulle modalità di rapporto, collaborazione e scambio tra donne e uomini. La condizione attuale delle donne in Paesi come Iran e Afghanistan ci può aiutare a vedere come si fa presto a precipitare indietro.

Silvia Papi (Lettera a «il manifesto» – 15.1.16)

 

Ogni volta si rinnovano gli inviti “per un sollevarsi di voci femminili, ma anche maschili”… A me sembra che ogni volta si alzino voci, non solo di donne, ma anche di uomini, per protestare contro le prepotenze e per invocare la revisione delle “basi su cui si fonda il rapporto maschile/femminile”. Purtroppo poi si passa ad altro, da parte di troppi; e si resta in pochi a camminare sui sentieri impervi di quella revisione.

Credo che nessuno/a si aspetti interventi incisivi da parte dei governi nazionali o dell’Onu… Siamo tutti/e consapevoli che a stare nelle relazioni con rispetto reciproco si impara giorno dopo giorno nella quotidianità “dal basso” delle relazioni “intime”. Da uomo mi sento di dire che:

  1. Il cammino di trasformazione di una maschilità misogina e prepotente è più facile e coerente se avviene in compagnia: in gruppi, maschili o misti, animati dal desiderio di trovare la felicità e il benessere – lo “star bene”.
  2. La nascita, negli ultimi mesi, di cinque altri gruppi di autocoscienza maschile (a Palermo, a Viterbo, a Trento, a Roma e a Pinerolo) è un meraviglioso indubbio segno di speranza; ma i numeri sono ancora troppo piccoli: pochi gruppi, pochi uomini coinvolti…
  3. Un’accelerazione nella nascita di gruppi sarebbe possibile se ogni uomo dei gruppi “storici” più consolidati non si limitasse a partecipare con assiduità al proprio gruppo, ma prendesse l’iniziativa di provare a dar vita a un altro gruppo nel proprio paese o nel proprio quartiere, invitando amici e compagni.
  4. So bene che non tutti se la sentono di prendere l’iniziativa, ma io continuo a proporlo perché condivido con convinzione “l’urgenza” della revisione di cui parla Silvia Papi nella lettera (qui sopra): credo che nei singoli gruppi e in «Maschile Plurale» di questo dobbiamo anche parlare, per vivere fino in fondo la nostra consapevolezza e la nostra corresponsabilità.
  5. Un altro sentiero da percorrere è quello che attraversa le scuole: le iniziative come quella nazionale di “Educare alle differenze” o quella pinerolese di “Mi fido di te” ci aiutano a riflettere sul ruolo decisivo che può giocare la scuola nella formazione di adulti e adulte consapevoli e reciprocamente rispettosi/e di ogni differenza. A Pinerolo ci stiamo provando: e dal basso, insieme a moltissime altre persone, associazioni, gruppi, che operano dovunque in Italia, cercheremo di arrivare a programmi formativi del personale scolastico orientati non solo alle specifiche competenze nelle singole “materie”, ma anche e soprattutto a quella competenza universale “che si impara” – e quindi si può trasmettere, con l’esempio e con la parola – e che è (come l’avevo appresa anni fa da Marco Deriu) “a stare nelle relazioni con cura e rispetto”.
  6. Su questa strada sono convinto che si snodi anche il futuro delle piccole comunità di base italiane, di matrice “cristiana”, preoccupate di scomparire per mancanza di ricambi generazionali. Io credo che la “conversione”, a cui ci sentiamo chiamati/e dal Vangelo, sia una pratica sessuata come tutte: imparare a vivere “con amore” non vuol dire nulla di più e di diverso che stare “con cura e rispetto” in tutte le relazioni con gli esseri umani e con tutte le altre creature. Su questa strada le comunità di base sono tantissime e in crescita, anche se non si definiscono cristiane. Questa è una bella notizia. E una bella compagnia!
  7. E’ importante anche prendere la parola pubblicamente, con coraggio e altrettanta cura, per seminare consapevolezza e inviti. Qui trova posto, a mio avviso, anche la pratica della “mediazione”: non solo tra uomini che già sono in cammino e altri che potrebbero/vorrebbero incamminarsi; ma anche tra chi scrive e dice cose non accessibili a tutti e chi non vi accederebbe per limiti personali o di formazione scolastica…
  8. Infine – mi riferisco solo a questo elenco improvvisato – ci sono le meritevoli iniziative istituzionali. Ne cito una per tutte: il disegno di legge-quadro regionale che è in discussione in Piemonte e che, come quasi sempre, predispone interventi e risorse per l’urgenza primaria di assicurare sostegno alle donne e ai bambini vittime di violenza maschile. Perché nelle istituzioni non si affronta mai la “questione maschile”? Forse perché amministratori e consiglieri, parlamentari e governanti sono in massima parte uomini? E si sentirebbero chiamati in causa? Io spero che sia così davvero, che abbiano davvero questa consapevolezza, ancorché confusa, perché prima o poi arriverà in quei palazzi qualcuno con sufficiente coraggio per porre la questione e, come sempre accade, qualcun altro ascolterà e aderirà alla proposta di “riconoscersi uomini” che governano, consapevoli della propria parzialità e di dover partire da sé per cambiare le modalità maschili patriarcali, personali e istituzionali, di stare al mondo. E conosceremo una nuova accelerazione… e ci renderemo conto della grande verità che ci comunica Silvia Papi al termine della lettera, quando mette in relazione diretta la crisi economica – possiamo dire “l’economia” tout court “e le sue forme” – con le modalità di rapporto, collaborazione e scambio tra donne e uomini. Siamo davvero interessati a un’economia del benessere?

Beppe Pavan

 

DONNE, IL RISPETTO RIPARTE DA COLONIA

Lo scempio consumato la notte di Capodanno a Colonia sta imponendo a tutta l’Europa una rinnovata riflessione su quali siano le basi su cui impostare una convivenza tra “noi” e “gli altri” che sono arrivati e continuano ad arrivare. In queste basi, ai primissimi posti c’è il rispetto delle donne, nel corpo e nel pensiero, nella vita privata e in quella pubblica. “Gli altri”, si è detto, sono spesso portatori di un vissuto – un mix di religione, tradizioni e usi – di sottomissione femminile se non di autentica prevaricazione, e questo vissuto ha prodotto le molestie di massa nella piazza principale di Colonia.

A ricordarci bruscamente che la questione della religione come veicolo (o alibi?) della sottomissione delle donne non riguarda solo l’islam interviene con un certo tempismo la teologa femminista Elisabeth E. Green, pastora delle chiese evangeliche battiste di Cagliari e Carbonia. La tesi, assai nota, è che «lo stesso cristianesimo è stato terreno fertile per la cattiva pianta di leggi e tradizioni che opprimono e discriminano le donne» ed era stata già sintetizzata nel 2000 nel saggio «Lacrime amare» (…).

Green continua: il cristianesimo ha stabilito un “nesso tra donna e peccato”, innescando un “processo di colpevolizzazione” che arriva ai giorni nostri; come non ricordare l’enfatizzazione della docilità della donna e della sua sottomissione presente in alcune Lettere del Nuovo Testamento, oppure il ‘paternalismo’ di padri della Chiesa come Sant’Agostino… (…)

Se è vero che sul rispetto delle donne si gioca parte della partita della convivenza con le comunità immigrate, è altrettanto vero che occorre una attenta autocritica interna alla società occidentale, cristiana e secolarizzata. I residui di quella “cultura cattiva”, e che evidentemente sono penetrati a fondo in secoli di marginalizzazione femminile, sono davvero sepolti per sempre? La domanda resta aperta e basta uno sguardo a certi programmi tv e pubblicità per capire che tanto resta da fare sul cammino di una reale ed effettiva pari dignità.

Vale la pena qui accennare a un altro libro da poco pubblicato sul tema, scritto da una psicologa torinese, Silvia Bonino. In «Amori molesti» (Laterza, pagg. 146, € 15) la studiosa ricorda come sia la parte più antica (a livello evolutivo) del cervello, quella rettiliana, a favorire nell’uomo una sessualità aggressiva e nelle donne una tendenza alla sottomissione e alla paura. Istinti, si potrebbe semplificare, corretti dall’evoluzione e dalla socialità positiva che si instaura tra le persone.

Ma la società spesso solletica proprio gli istinti primitivi dell’uomo (che dire della pornografia diffusa, della libertà elevata a idolo, delle donne-veline, del perpetuarsi di rapporti di potere sul lavoro e in famiglia, del sesso usa e getta tra gli adolescenti…) e il risultato è che in Europa, nella «nostra cultura che si considera orgogliosamente evoluta», almeno il 10 per cento delle donne ha subìto qualche forma di imposizione sessuale.

La conclusione di Bonino in fondo è la stessa di Green: serve ancora tanto lavoro. Educativo, prima di tutto. E forse una sana autocritica: anche ripartendo da Colonia.

     Antonella Mariani – su «Avvenire» del 17.1.16 (proposta da Arci)

(*) ripreso dall’ultimo numero della rivista «Uomini in cammino» – di cui spesso si è parlato/ripreso in “bottega” – di Pinerolo. «Per informazioni e invio materiali: la redazione è presso Beppe Pavan: 0121 393053, 339 1455800, carlaebeppe@libero.it Chi può mandarci un contributo usi il bollettino di c/c postale 39060108 intestato ad associazione VIOTTOLI – Pinerolo, specificando nella causale “contributo per Uomini in Cammino”. Grazie. Lo invieremo comunque a chiunque ce lo chieda, sia in formato cartaceo che web».

 

Redazione
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