Come Israele fa la guerra alla storia palestinese

di Jonathan Cook (ripreso da Invicta Palestina) con un film di Mohammed Bakri e una vignetta di Carlos Latuff

Quando l’attore palestinese Mohammed Bakri ha realizzato un documentario su Jenin nel 2002 – le riprese furono fatte subito dopo che l’esercito israeliano aveva terminato il feroce assalto alla città della Cisgiordania, lasciando una scia di morte e distruzione – ha scelto un narratore insolito per la scena di apertura: un giovane palestinese muto.

Jenin era stata isolata dal mondo per quasi tre settimane mentre l’esercito israeliano radeva al suolo il vicino campo profughi e terrorizzava la sua popolazione.

Il film di Bakri Jenin, Jenin mostra il giovane che si affretta silenziosamente tra gli edifici distrutti, usando il suo corpo nervoso per illustrare dove i soldati israeliani hanno sparato ai palestinesi e dove i bulldozer hanno fatto crollare le case, a volte sui loro abitanti.

Non è difficile dedurre il significato più ampio che  Bakri vuole dare: quando si tratta della loro stessa storia, ai palestinesi viene negata la voce. Sono testimoni silenziosi delle sofferenze e degli abusi fatti su di loro e sulla loro gente.

L’ironia è che Bakri ha affrontato un destino simile da quando Jenin, Jenin è uscito 18 anni fa. Oggi, poco si ricorda del suo film, o dei crimini efferati di cui parlava, a parte le infinite battaglie legali per tenerlo fuori dagli schermi.

Da allora Bakri è stato rinchiuso nei tribunali israeliani, accusato di diffamare i soldati che hanno effettuato l’attacco. Ha pagato un alto prezzo personale. Minacce di morte, perdita del lavoro e infinite fatture legali che lo hanno quasi mandato in bancarotta. Nelle prossime settimane è atteso un verdetto sull’ultima causa contro di lui – questa volta appoggiata dal procuratore generale israeliano -.

Bakri è una vittima particolarmente importante della lunga guerra di Israele contro la storia palestinese. Ma ci sono innumerevoli altri esempi.

Per decenni molte centinaia di residenti palestinesi nella Cisgiordania meridionale si sono opposti alla propria espulsione poiché i funzionari israeliani li definiscono “abusivi”. Secondo Israele, i palestinesi sono nomadi che hanno sconsideratamente  costruito case su terreni sequestrati all’interno di una zona di tiro dell’esercito.

Le contro-affermazioni degli abitanti del villaggio sono state ignorate fino a quando la verità non è stata recentemente portata alla luce negli archivi di Israele.

Queste comunità palestinesi sono, infatti, segnate su mappe precedenti a Israele. I documenti ufficiali israeliani presentati in tribunale il mese scorso mostrano che Ariel Sharon, un generale diventato politico, ha ideato una politica per stabilire zone di tiro nei territori occupati per giustificare gli sfratti di massa dei palestinesi come queste comunità sulle colline di Hebron.

I residenti sono fortunati poiché le loro affermazioni siano state ufficialmente verificate, anche se dipendono ancora dall’incerta giustizia di un tribunale degli occupanti israeliani.

Gli archivi israeliani vengono sigillati in fretta proprio per prevenire ogni pericolo che i documenti possano confermare la storia palestinese a lungo messa da parte e non considerata.

Il mese scorso Israel’s state comptroller , un organismo di controllo di Israele, ha rivelato che più di un milione di documenti archiviati erano ancora inaccessibili, anche se avevano superato la data di desecretazione. Tuttavia, alcuni sono caduti attraverso la rete.

Gli archivi, ad esempio, hanno confermato alcuni dei massacri su larga scala di civili palestinesi compiuti nel 1948, l’anno in cui Israele fu fondato espropriando i palestinesi della loro patria.

In uno di questi massacri a Dawaymeh, vicino a dove i palestinesi stanno combattendo oggi contro la loro espulsione dalla zona di tiro, centinaia sono stati giustiziati, anche se non hanno offerto resistenza, per incoraggiare la maggioranza della popolazione a fuggire.

Altri file hanno confermato le affermazioni palestinesi secondo cui Israele ha distrutto nello stesso anno più di 500 villaggi palestinesi in  un’ondata di espulsioni di massa fatte per  dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare.

Anche i documenti ufficiali hanno smentito l’affermazione di Israele di aver chiesto ai 750.000 profughi palestinesi di tornare a casa. In effetti, come rivelano gli archivi, Israele ha oscurato il suo ruolo nella pulizia etnica del 1948 inventando una storia di copertura secondo cui erano stati i leader arabi a comandare ai palestinesi di andarsene.

La battaglia per sradicare la storia palestinese non si svolge solo nei tribunali e negli archivi. Inizia nelle scuole israeliane.

Un nuovo studio di Avner Ben-Amos, professore di storia all’Università di Tel Aviv, mostra che gli alunni israeliani non imparano quasi nulla di vero sull’occupazione, anche se molti presto la imporranno come soldati di un presunto esercito “morale” che governa i palestinesi.

Le mappe nei libri di testo di geografia eliminano la cosiddetta “Linea Verde” – i confini che delimitano i territori occupati – per presentare un Grande Israele a lungo desiderato dai coloni. Le lezioni di storia e educazione civica evitano ogni discussione sull’occupazione, le violazioni dei diritti umani, il ruolo del diritto internazionale o le leggi locali simili all’apartheid che trattano i palestinesi in modo diverso dai coloni ebrei che vivono illegalmente  nella porta accanto.

Invece, la Cisgiordania è conosciuta con i nomi biblici di “Giudea e Samaria”, e la sua occupazione nel 1967 viene definita “liberazione”.

Purtroppo, la cancellazione da parte di Israele dei palestinesi e della loro storia è ripresa all’esterno da colossi digitali come Google e Apple.

Gli attivisti della solidarietà palestinese hanno passato anni a lottare per far sì che entrambe le piattaforme includessero centinaia di comunità palestinesi in Cisgiordania escluse dalle loro mappe, con l’hashtag #HeresMyVillage. Gli insediamenti ebraici illegali, nel frattempo, hanno la priorità su queste mappe digitali.

Un’altra campagna, #ShowTheWall, ha esercitato pressioni sui giganti della tecnologia affinché segnassero sulle loro mappe il percorso della barriera di acciaio e cemento di 700 chilometri di Israele, effettivamente utilizzata da Israele per annettere i territori palestinesi occupati in violazione del diritto internazionale.

E il mese scorso i gruppi palestinesi hanno lanciato un’altra campagna, #GoogleMapsPalestine, chiedendo che i territori occupati fossero etichettati “Palestina”, non solo Cisgiordania e Gaza. Le Nazioni Unite hanno riconosciuto lo stato di Palestina nel 2012, ma Google e Apple hanno rifiutato di seguire l’esempio.

I palestinesi sostengono giustamente che queste aziende stanno replicando il tipo di scomparsa dei palestinesi reso loro familiare dai libri di testo israeliani e che sostengono la “mappatura della segregazione” che rispecchia le leggi apartheid  israeliane nei territori occupati.

I crimini sull’occupazione attuali – demolizioni di case, arresti di attivisti e bambini, violenza da parte dei soldati, espansione degli insediamenti – sono stati documentati da Israele, proprio come lo erano i suoi crimini precedenti.

Gli storici del futuro potrebbero un giorno portare alla luce quei documenti dagli archivi israeliani e conoscere la verità. Che le politiche israeliane non erano guidate, come ora afferma Israele, da preoccupazioni per la sicurezza, ma da un desiderio coloniale di distruggere la società palestinese e fare pressione sui palestinesi perché lasciassero la loro patria, per essere sostituiti da ebrei.

Le lezioni per i futuri ricercatori non saranno diverse dalle lezioni apprese dai loro predecessori, che hanno scoperto i documenti del 1948.

Ma in verità, non abbiamo bisogno di aspettare da qui a tutti questi anni. Possiamo capire cosa sta succedendo ai palestinesi in questo momento, semplicemente rifiutandoci di cospirare per farli tacere. È ora di ascoltare.

(Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul National, Abu Dhabi. L’autore l’ha pubblicata su The Palestine Chronicle.)

– Jonathan Cook ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism. Fra I suoi libri “Israel and the Clash of Civilizations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books).

Visita il suo sito web www.jonathan-cook.net

https://www.palestinechronicle.com/how-israel-wages-war-on-palestinian-history/

Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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