Connessi felicemente o sconnessi definitivamente

di Chief Joseph … o se preferite Hinmaton Yalaktit (*)

Il disagio giovanile, l’incomprensibilità di molti comportamenti, la noia di vivere sono sicuramente ascrivibili a molteplici fattori; tuttavia, una variabile di cui non si parla quasi mai – e, nel caso in cui avvenga, viene ricondotta a sermoncini di circostanza – è rappresentata dal ruolo della formazione e delle nuove tecnologie educative come, ad esempio, l’incentivato uso dell’informatica nelle scuole di ogni ordine o grado. In particolare, sembra che la scarsa utilizzazione di Internet e degli ipertesti sia indice di arretratezza culturale. Pare che attualmente non sia più di moda dire: “Vivo felice”. Ma è la frase “Sono felicemente connesso” a sancire il nostro benessere. I bambini e i giovani, secondo la logica dei bottoni, vengono utilizzati come quegli scimpanzé che, in un famoso esperimento, erano stati addestrati per comunicare con gli scienziati per mezzo di simboli. Se volevano una banana, individuavano un pulsante con il simbolo della banana, lo premevano e un frutto usciva dallo scivolo. Altri pulsanti per l’acqua o per le variazioni di luce. Ce n’era uno, addirittura, che sollecitava manifestazioni di affetto fisico. Quando lo scimpanzé lo premeva, entrava uno scienziato che lo abbracciava e lo coccolava. L’esperimento fu salutato come la dimostrazione che questi animali avevano la capacità di astrarre. Jerry Mander, nel suo libro «Quattro ragioni per abolire la TV», pone invece un’interessante riflessione per la quale lo scimpanzé, come qualsiasi altro animale segregato, farà tutto ciò che sarà necessario per sopravvivere e trarrà il massimo da una situazione che sfugge totalmente al suo controllo. In questo modo, qualsiasi creatura riduce le sue aspettative mentali e fisiche per adeguarsi a ciò che può essere ottenuto e si avrà, come estrema e tragica conseguenza, che le creature segregate – nel caso in cui non riescano ad adattarsi a questo modello di comportamento – impazziscano, si ribellino o muoiano. Vorrei chiedere agli insegnanti, agli educatori, ai formatori, ma anche ai genitori, se non vengono sfiorati dal ragionevole dubbio che, non necessariamente, la conoscenza tecnica dei bottoni o dei tasti da schiacciare o dei link da sviluppare sia sinonimo di benessere o – più precisamente – di stare bene. Anche la costruzione dell’ipertesto come linguaggio dovrebbe porre qualche sano dubbio. Infatti la tanta esaltata possibilità di poter aggredire una comunicazione da qualsiasi punto di vista non può prescindere dalla conoscenza di un testo con una struttura lineare consequenziale. La creatività, come tutti sanno, non è la mancanza di regole ma la capacita di superarle dopo averle conosciute e magari sperimentate. Ritengo che una grave conseguenza dell’ipertesto, privato di un percorso di apprendimento, possa essere quella di perdere la capacità di iniziare e terminare un impegno perché, da qualunque parte, si può entrare e in qualsiasi momento uscire. In questo modo si perde la capacità di confrontarsi con ciò che ha inizio e fine. Tutto rischia di perdere senso perché nulla sembra più avere né scopo, né finalità, né ipotesi, né contenuto; perché l’approccio virtuale prescinde da tutto questo. Ci si trova infatti di fronte a un mezzo che può essere utilizzato in assenza di uno specifico fine: è sufficiente schiacciare un bottone, o dare un colpo di mouse per entrare e per uscire… da un’ipotesi di emozione.

Vorrei allora chiedere a insegnanti, educatori e fautori incondizionati delle nuove tecnologie educative (a cominciare dal professor Maragliano) se questi meccanismi non possano riflettersi anche sulla vita quotidiana e quindi sullo sviluppo complessivo della personalità. Porre questi interrogativi non significa demonizzare l’informatica e l’ipertesto in particolare, ma chiedersi come, dove, quando e perchè utilizzarli. Non credo – come sostiene Roberto Maragliano – sia bene immettere il bambino immediatamente in una logica virtuale informatica, perchè (com’è stato esemplarmente risposto) dalla filosofia delle scuole steineriane) la constatazione che tutti dovranno guidare un’autovettura non comporta mettere al volante bambini di cinque, sei, sette, otto anni. Forse essere connessi non porta necessariamente al benessere o meglio al vivere bene, perché molto spesso la connessione permanente produce “sconnessioni” non sempre felici.

NELL’IMMAGINE LA FIRMA ORIGINALE DI CHIEF JOSEPH

(*) Capo Giuseppe, in inglese  Chief Joseph (1840-1904) è stato una guida (militare e spirituale) dei Nasi Forati, un popolo nativo americano. Si chiamava in realtà Hinmaton Yalaktit, che in lingua niimiipuutímt significa Tuono che rotola dalla montagna.

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