Continua il dibattito sul Venezuela

tre post a cura di David Lifodi (*):  “Sì, sono chavista”, il Venezuela e noi di Giorgio Cremaschi; Venezuela, l’opposizione si spacca e fa arrabbiare El País di Gennaro Carotenuto;  il documentario “In the Shadow of the Revolution” (con un link).

“Sì, sono chavista”, il Venezuela e noi

di Giorgio Cremaschi (**)

“Il ritorno dei colonnelli, ma ora sono di sinistra”. Così qualche giorno fa titolava sulla edizione on line Il Fatto, riferendosi al Venezuela, ma anche alla Bolivia, al Nicaragua, all’Ecuador, insomma a tutti paesi latino americani i cui governi non si sono piegati ai diktat degli Stati Uniti e della UE. Credo che questo titolo ben sintetizzi la deriva di una buona parte di ciò che in Italia, ed in Europa, viene considerato o si consideri di sinistra. Di quella sinistra che è stata complice della più vasta e sconvolgente campagna di disinformazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale.
La “feroce dittatura” di Maduro è stato il motivo guida di ogni servizio televisivo, di ogni commento giornalistico, nulla e nessuno sui quotidiani e sulle tv italiane sì è distinto dalle veline del dipartimento di stato degli USA, che amplificavano quelle della opposizione venezuelana. Persino sulla Corea del Nord i mass media occidentali hanno mostrato qualche cautela in più, neppure contro Saddam e Gheddafi c’è stata la stessa unanime violenza informativa che si è scatenata contro il governo venezuelano. La dittatura peggiore del mondo e della storia, dovrebbe pensare un comune cittadino che costruisca i suoi punti di vista solo sulla informazione ufficiale. La falsificazione dei fatti e delle opinioni è stata così completa e radicale che, dopo che Maradona si era schierato con Maduro, la stampa ha persino sentito la necessità esaltare l’attacco che il campione ha ricevuto da Kempes, tralasciando di ricordare che quest’altro calciatore argentino non aveva avuto problemi a ricevere la coppa del Mondo dalle mani insanguinate del dittatore Videla. Essere contro il Venezuela di Chavez è diventata una patente di democrazia distribuita a cani e porci.

Tutte questo lo abbiamo già visto nel passato, da trent’anni così si afferma il pensiero unico delle politiche liberiste e delle guerre per esportare la democrazia. La vera novità del Venezuela è il totale accodarsi a questo pensiero unico di gran parte delle sinistre e anche di altre forze che si erano poste su posizione critica verso di esso, come il movimento cinque stelle.

Nel passato abbiamo già avuto le sinistre di governo complici di guerre infami, la più grave di tutte quella contro la Jugoslavia del governo D’Alema. Ma c’era sempre stato un vasto mondo di opinione pubblica di sinistra, di movimenti civili, sociali, pacifisti che si schierava contro le bugie del potere. Ora invece non è cosi. Nel passato Federica Mogherini si incontrava nei social forum, nati proprio nell’America latina per opera di quelle forze che a partire dal 2000 portarono ai governi progressisti in quasi tutto il continente. Ora la rappresentante della UE fa il pappagallo alle minacce di Donald Trump. Il Manifesto nel passato ha orgogliosamente rivendicato di stare dalla parte del torto, ma sul Venezuela ha scelto quella della ragione dominante e ha censurato la sua giornalista Geraldina Colotti, l’unica in Italia che raccontasse un realtà diversa da quella ufficiale. E altri settori della cosiddetta sinistra radicale e dell’antagonismo hanno inanellato ponderose analisi, il succo delle quali era la scelta di non stare né col Venezuela chavista, nè con quello filoamericano e fascista. Una fuga sulla Luna in attesa della rivoluzione globale.

Intanto nell’America Latina le peggiori vecchie classi dirigenti, con il sostegno caloroso di USA e UE, stanno tentando di portare indietro l’orologio della storia, di affondare un quindicennio di esperienze progressiste, molto diverse tra loro, ma tra loro solidali. Il golpe in Brasile, avvenuto senza alcuna indignazione, anzi tra gli applausi, delle democrazie occidentali, ha segnato la svolta. Poi i vecchi regimi corrotti e assassini sono dilagati, ovviamente ripristinando tutte le peggiori infamie liberiste a danno dei poveri, anche là dove erano solo state pallidamente attenuate. Per la riconquista imperiale del continente però è decisivo il Venezuela, se quello resiste, tutte le vittorie multinazionali rischiano di non durare, i popoli sono già in rivolta contro i Temer, i Macrì e gli altri mascalzoni. Per questo l’assalto al governo di Maduro.

Non solo per un rivoluzionario, ma anche per un riformista onesto che davvero sperasse di contenere la ferocia della globalizzazione dovrebbe essere ovvio impedire che le multinazionali del petrolio si riprendano il Venezuela.. E invece no, la sinistra nella sua maggioranza sta coi golpisti. Perché?

Certo, tante sono le ragioni, causate dalle sconfitte e dalla regressione della sinistra, che portano alle posizioni assunte oggi da chi si è schierato contro il chavismo, ma accanto a quelle ce ne è probabilmente un’altra.

Mezzo secolo dopo la rivoluzione cubana, Chavez e Morales si sono dati come obiettivo esplicito la ripresa della marcia verso il socialismo. L’hanno realizzato? Certo che no. Hanno dovuto fare compromessi e anche errori? Sicuramente e anche hanno commesso ingiustizie che hanno deluso una parte di chi li sosteneva. Ma ovviamente non è per questo che sono sotto attacco, al contrario lo sono proprio perché nonostante tutto questo non hanno rinunciato all’obiettivo del socialismo. Ed è proprio questa parola, socialismo, che dà fastidio e che crea persino rancore in una certa sinistra. Ma come osano dai loro lontani arretrati paesi di parlare di socialismo? E come fanno a mescolare questo puro obiettivo di un lontano futuro con movimenti populisti e patriottici, con politiche di stato? E come si permettono di ribellarsi alle minacce dei governi USA e della UE rispolverando l’accusa di imperialismo? Che roba vecchia, la sinistra europea tutto questo l’ha superato, qui si parla di globalizzazione dei diritti, non di lotta di classe. Se si sceglie di combattere il capitalismo americano nel nome del socialismo, si finisce con i colonnelli, questa la conclusione reazionaria de Il Fatto, de La Repubblica, del PD con Renzi e di quello senza Renzi.

La sinistra in Europa è oramai in gran parte una espressione geografica, un luogo della politica formale al quale non corrisponde nulla di diverso da quanto si fa negli altri luoghi. Sul lavoro, sulle banche, sui migranti, sulla guerra, destra, sinistra e chi non è né di destra né di sinistra alla fine fanno le stesse cose, naturalmente in polemica tra loro su chi le realizzi meglio. Così il Venezuela è diventato una cartina di tornasole e ha rivelato che nello spettro delle posizioni della politica ufficiale il colore è sempre lo stesso.

Una sinistra vera in Italia ed in Europa rinascerà assieme alla solidarietà e al sostegno al Venezuela chavista, se quel paese lontano reggerà e andrà avanti, anche qui la parola socialismo tornerà nella politica. Per questo oggi prima di tutto c’è un’affermazione da condividere e diffondere: “sì sono chavista”. Sono le parole fiere con cui il giovane venditore ambulante Orlando Figueroa, in un quartiere bene di Caracas aveva risposto ai giovanotti fascisti che lo minacciavano. E che per questo lo hanno bruciato vivo, aggiungendolo alle decine di vittime degli squadroni della morte golpisti che qui i mass media presentano come vittime della repressione governativa. Sono parole con le quali qui non si rischia la vita, ma si difende la verità e si dice basta alla sinistra inutile o venduta.

Venezuela, l’opposizione si spacca e fa arrabbiare El País

di Gennaro Carotenuto (***)

Dopo il gran tam-tam estivo il Venezuela è sparito dai giornali italiani. Eppure, nel giro di tre giorni, El País di Madrid, che da una ventina di anni sta alla versione ufficiale delle destre neoliberali sull’America latina come la Pravda stava al PCUS e all’URSS, e come tale merita di essere letto con la massima attenzione, ha pubblicato ben due articoli significativi di un cambiamento in atto. Questi infatti dimostrano grande frustrazione, e un filino di rabbia, rispetto al comportamento dell’opposizione venezuelana, appoggiata fino a ieri con trasporto nella sua lotta contro la “dittatura castrochavista” di Nicolás Maduro.

Il primo è firmato dal giornalista venezuelano Ewald Scharfenberg, di fatto corrispondente dalla capitale caraibica, il secondo è un editoriale del cattedratico argentino di stanza a Georgetown, Héctor Schamis, che da Washington è sempre stato durissimo con tutti i governi progressisti latinoamericani. Per entrambi l’opposizione sarebbe rea di non aver dato la spallata finale al regime chavista che, come ripetuto per mesi, era ormai cosa fatta.

In particolare per Schamis l’opposizione sarebbe incomprensibilmente più volte andata in soccorso del governo. Nonostante citino eventi noti, come e perché ciò sarebbe successo, i due articoli evitano di spiegarlo. Architrave della linea editoriale resta l’illegittimità del chavismo e il suo non diritto a esistere. Spiegare la dialettica della politica interna di una democrazia in crisi non è possibile perché metterebbe in discussione se stessi, millanterie e informazioni false volte a rappresentare la severa crisi venezuelana in una lotta tra bene e male con Maduro nei panni di Pol Pot e l’opposizione neoliberale formata da dame di San Vincenzo e paladini dei diritti umani.

Giustamente Schamis ricorda che per creare le condizioni per la caduta di una “dittatura” (attraverso una “rivoluzione colorata” parrebbe, ma lasciamo il beneficio del dubbio) sono necessari tre requisiti: 1) l’unità dell’opposizione; 2) le manifestazioni di piazza verso un regime odioso e repressivo (più morti ci sono meglio è); 3) la pressione internazionale. Queste tre condizioni si sarebbero date più volte in Venezuela e in particolare da aprile fino all’elezione della Costituente chavista a fine luglio quando il regime sarebbe stato al collasso. La tesi è che da allora, inopinatamente, visto che secondo la grande stampa internazionale la Costituente sarebbe stata un fallimento e i pochi votanti lo avrebbero fatto con una pistola alla tempia, l’opposizione avrebbe claudicato, tradito, trattato col mostro “castrochavista”.

A questo si aggiunga lo scemare delle proteste popolari. È il punto due di tre della teoria del “regime change”, quello che ha fatto trepidare una parte rilevante dell’opinione pubblica progressista internazionale, scioccata dalle molte morti di manifestanti, tutte addebitate al governo dai media. È un qualcosa che la linea di El País non sa ed evita di spiegare: “le strade si sono svuotate, una volta di più”, si legge e si va oltre, malcelando la delusione. Quell’opposizione democratica che aveva orgogliosamente tenuto la strada per quattro mesi, pagandone un prezzo di sangue, proprio al momento di cogliere il frutto della caduta del regime è evaporata.

Perso non ha perso la protesta di piazza, nessuno lo potrebbe dire seriamente, anche se il governo di Nicolás Maduro, proprio con la Costituente, è uscito dall’angolo e ha dimostrato di rappresentare ancora milioni e milioni di venezuelani tanto da poter sostenere – strane ste dittature – l’imminente prova delle elezioni amministrative. Neanche si può sostenere quello che la propaganda chavista meno credibile afferma, ovvero che tutti i manifestanti fossero squadracce pagate dai magnati dell’opposizione. È vero che il clima fosse fetido in quelle barricate, e che molti antichavisti genuini non ne potessero più e fossero terrorizzati, ma la fine repentina delle proteste di piazza resta la gamba non spiegata, né da chi scrive, me ne dolgo, né dagli articolisti del Grupo Prisa, a meno di non ammettere che forse questa mano l’ha vinta il governo.

Se tale spiegazione non è ammissibile per El País, il principale oggetto di critica passa a essere la decisione di partecipare alle elezioni amministrative di questo autunno di una maggioranza delle decine di partiti e partitini che compongono (o componevano) la MUD (Tavolo di Unità Democratica). È una decisione giunta in ordine sparso – e che chi scrive da settimane segnala come un punto di svolta – che qualunque osservatore oggettivo ha visto come una rilegittimazione del governo da parte dell’opposizione. I motivi per i quali, dopo il boicottaggio della Costituente, adesso buona parte dell’opposizione accetta di rimandare la soluzione della contesa ad una sfida elettorale col chavismo, sono poco comprensibili per un lettore al quale è stato descritto solo un paese al collasso, una repressione spietata da parte di un regime feroce e isolato, al quale si contrapponeva un’opposizione florida e trionfante sul punto di espugnare il palazzo di Miraflores. Qualcosa non torna.

Il principale motivo per il quale l’opposizione parteciperà alle amministrative è che nella strana “dittatura castrochavista” l’opposizione stessa amministra un gran numero di entità locali, dagli stati ai municipi, e molti amministratori pubblici non vedono alcuna ragione per lasciarne il governo al PSUV in un contesto nel quale, come avviene in qualunque democrazia, a livello locale ideologie e conflitti sfumano. Scharfenberg identifica quelli che, partecipando alle elezioni, riconoscono la legittimità politica di chi le organizza, cioè il governo, come “pragmatici” rispetto ai duri e puri che definisce “etici”. Da Washington Schamis ci va giù più duro: quelli che partecipano alle elezioni sono “collaborazionisti” tout-court e solo i radicali meritano ancora l’appellativo di “democratici”. Questi includono l’estrema destra parafascista e razzista, l’esistenza della quale a Schamis non interessa ricordare, a partire da María Corina Machado, che restano sull’Aventino del monte Avila. Se mezza opposizione è collaborazionista il dato politico per Schamis è che “la MUD è finita” e la “fine della dittatura, è passata dal non essere mai stata così vicina, a non essere mai stata così lontana”. A chi scrive sembra una drammatizzazione esagerata, quasi un momento di sconforto da parte del partito neoliberale che ha sperato nel rovesciamento definitivo dell’esperienza chavista. Il chavismo ha forse vinto una battaglia, ma è lungi dall’aver vinto la guerra, a meno di non occuparsi solo di semantica: se hai mille volte scritto “dittatura” ed è più evidente che mai che proprio l’opposizione presunta democratica, tornando al voto dimostra che una dittatura il Venezuela non sia, lo sconforto è dovuto alla figuraccia che il cattedratico di Georgetown sta facendo.

Insomma, delle tre gambe necessarie alla rivoluzione colorata sognata a Madrid e a Georgetown, l’unica a ballare ancora, almeno per ora, è il fronte internazionale. Istituzioni internazionali controllate da sempre (l’OEA) e nuovamente (il Mercosur) dai neoliberali, hanno messo alla porta il Venezuela. Sinceri democratici come il presidente di fatto brasiliano Michel Temer o l’ex-messicano Vicente Fox (che dalla televisione colombiana Caracol ha direttamente minacciato di morte Nicolás Maduro) tuonano quotidianamente contro Caracas. Altri, tra i quali Felipe González, invocano apertamente il golpe militare. Parole severe le hanno dette anche dirigenti politici più credibili come il neo-inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron o l’italiano Paolo Gentiloni. Alla chiamata alle armi rispondono sempre sull’attenti i grandi gruppi mediatici, dal grupo Prisa (El País) a Clarín, da Mercurio a O Globo; quelli quando si tratta di dittature (il più delle volte da appoggiare) non mancano mai. Soprattutto Donald Trump (subito semi-smentito dai suoi) ha minacciato un intervento militare diretto, con i marines pronti a sbarcare al porto de La Guaira, nonostante gli USA, che pure ne hanno fatte di cotte e di crude, mai abbiano avuto l’ardire di mettere gli stivali sul terreno in Sudamerica. Maduro ha subito mandato dei fiori: puro ossigeno per il chavismo e il latinoamericanismo.

Purtroppo per El País, anche sul fronte internazionale ci sono pecore nere che fiancheggiano la “dittatura castrochavista”. No, non solo il solito Evo Morales, l’indio così matto da pensare che a questo mondo siamo tutti uguali o il premio Nobel delle cause perse (i diritti umani), Adolfo Pérez Esquivel che stranamente non sta con l’opposizione venezuelana che di diritti umani si riempie la bocca. Con i chavisti, a settembre 2017, stanno la stragrande maggioranza dei sindacati del Continente: ritengono che in Venezuela vi sia un conflitto soprattutto di classe, argomento totalmente espunto dalle analisi mainstream. Quando uno dei 16 gruppi di lavoro del CLACSO (la principale istituzione latinoamericana per le scienze sociali) ha prodotto un documento contro il governo venezuelano, gli altri quindici gruppi, dei quali fanno parte valentissimi accademici, hanno risposto che no, potevano condividere alcune o parecchie critiche, ma non erano interessati a sottoscriverlo. L’America latina è un posto così fuori giri rispetto all’Europa che da Emir Sader a Boaventura de Sousa, da Ignacio Ramonet ad Atilio Borón, i principali intellettuali della regione, o amici storici della stessa, continuano a sostenere Maduro, al quale magari non lesinano critiche, ma ricordando che il ritorno al neoliberismo promesso dalle destre (e mantenuto dal Brasile all’Argentina) è il contrario esatto della democrazia.

E Francisco? Nessuno ha ben capito da che parte sta il papa gesuita e peronista, ma non certo da quello del “regime change”. Perfino l’Europa claudica tra “dittatura” e “democrazia”. Senza considerare Podemos in Spagna, è apertamente filo-Maduro Jean-Luc Mélenchon, che mesi fa sfiorò il ballottaggio in Francia, e l’appena più prudente Jeremy Corbyn, seduto al centro tra la minoranza di destra blairiana del Labour e la sua maggioranza pro-chavista. Deve suonare paradossale a chi legge “La Repubblica”, ma l’Europa nei mesi scorsi ha sfiorato un’alleanza castrochavista che andava da Downing Street all’Eliseo!

Chiudendo sui nostri articolisti, gli strali, da mesi per la verità, sono ancor più per José Luís Rodríguez Zapatero, l’ex-inquilino della Moncloa, che è la figura più visibile dei facilitatori del dialogo tra le parti. Lavorare per il dialogo (con il demonio) lo fa definire addirittura uomo di Maduro dall’arrabbiatissimo Schamis. Invece Scharfenberg ci traccia, facendo bene il suo mestiere, le reti e le complesse trattative intrattenute da Zapatero con l’opposizione, tra chi ci parla (e quindi parla col governo), e chi non ne vuol sapere: Borges sì, Capriles no, Leopoldo sì, Machado no e via seguendo. Crollano i manicheismi insomma e no, il Venezuela non è il paradiso descritto anche in Italia da certa propaganda ultrachavista, ma le cose sono tanto più complicate di come la mettono i suoi esagitati detrattori.

In the Shadow of the Revolution” offre una preziosa contronarrativa sulle tensioni in Venezuela, basandosi su interviste ad attivisti dei movimenti sociali, giornalisti, docenti universitari ed intellettuali. (****)

Dopo l’accentuarsi delle tensioni in Venezuela l’interpretazione degli eventi si è limitata a riproporre un sistema bipolare che contrappone in modo statico e manicheo chi ritiene giusta la lotta senza quartiere del “legittimo governo” contro gli esponenti della nuova borghesia e delle inflitrazioni imperialiste, a chi sostiene a priori ogni forma di manifestazione del dissenso (anche le più violente) verso delle elite percepite come corrotte e distanti dalle esigenze del popolo, sempre più in difficoltà.

Il documentario In the Shadow of the Revolution – una coproduzione statunitense-venezuelana scritta e diretta da J. Arturo Albarrán e Clifton Ross – scardina questa dicotomia monolitica e ne mette in discussione la retorica (in fondo all’articolo è possibile vedere – gratuitamente e integralmente – il documentario).

Personaggio chiave del film è Rodzaida Marcus Vera, attivista nei movimenti per l’agroecologia e per i diritti degli indigeni. Rodzaida, che ora vive a Los Teques, è cresciuta nel Valle de Caracas. Lì, durante il Caracazo, dei tiratori scelti uccisero sua madre. Chávez, che all’epoca della proteste del 1989 era un soldato, si oppose alle politiche governative e questo gli valse l’affetto di gran parte del popolo venezuelano. La stessa Rodzaida si dichiarava ‘innamorata’ della rivoluzione bolivariana portata avanti da Chávez, rimanendo però perplessa dal processo di accentramento del potere del 2007.

Le riflessioni di Rodzaida sono accompagnate dagli interventi di vari intellettuali, tra cui Margarita López Maya (storica e sociologa), Felipe Pérez Martí (economista ed ex ministro per lo Sviluppo), Damian Prat (giornalista), Rafael Uzcátegui (scrittore anarchico e attivista per i diritti umani), Tamara Adrian (parlamentare, avvocatessa ed attivista transgender), Rubén González (leader sindacalista ed ex prigioniero politico).

Se il potere propone una narrativa in cui il governo “socialista e popolare” è sotto attacco da forze “imperialiste e fasciste”, questo documentario offre un punto di vista alternativo e mostra l’esistenza di un’opposizione democratica ad una classe politica ritenuta corrotta, inefficiente e addirittura “di destra”. Una prospettiva da sinistra che ribalta la retorica governativa ed aggiunge ulteriori tasselli utili a cercare di comprendere il complesso mosaico di eventi che hanno rischiato di trascinare il Venezuela in una guerra civile.

Guarda il documentario:

Sugli autori:

J. Arturo Albarrán è docente di Cinema presso l’Università delle Ande a Mérida, in Venezuela. Ex chavista, ha lavorato diversi anni presso il Ministero della Terra e dell’Agricoltura, dove ha organizzato progetti agroecologici con i campesinos e ha realizzato film sulla vita contadina del páramovenezuelano.

Clifton Ross è uno scrittore di Berkeley, California. Ha svolto attività giornalistica in Venezuela dal 2004. Nel 2005 ha partecipato al Secondo Festival Mondiale della Poesia in Venezuela, e nell’anno successivo ha vissuto a Mérida. Il suo testamento politico, Home from the Dark Side of Utopia (AK Press, 2016), mostra la sua disillusione verso il Chavismo.

(*) in “bottega” vedi fra l’altro Il dibattito sul Venezuela e Dibattito aperto sul Venezuela

(**) tratto da L’antidiplomatico

(***) tratto da Gennaro Carotenuto – Giornalismo partecipativo

(****) tratto da http://frontierenews.it

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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